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Confronti: Io la conoscevo bene Vs. Videocracy


Quando un film del 1965 risulta più attuale dei suoi odierni “figliocci”.

Antonio Pietrangeli è un regista italiano tanto bravo quanto dimenticato. A metà anni 60 porta a compimento il suo film più celebre, “Io la conoscevo bene”, feroce ritratto di un’Italietta contemporanea cinica e crudele, con le allegre musichette del tempo e le Fiat 500 (quelle “vere”, meno fashion e più proletarie) che imperversano ovunque. La giovane protagonista, interpretata da una bella e sorprendente Stefania Sandrelli, è un’aspirante attrice che parte dalla provincia per tentare il successo nella capitale, disposta a tutto pur di raggiungere il suo sogno. Ma a Roma non riceve altro che una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni che mettono in luce una resistenza fatta di incoscienza e disarmante passività. La ragazza, agli occhi dei millantatori e dei volgari seduttori che le gravitano attorno, viene considerata non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli. Tutto le sembra scivolare addosso senza eccessive preoccupazioni ma le continue delusioni, somministrate poco a poco come un veleno, la condurranno ad un tragico e impietoso finale. Nelle ambizioni di Adriana, sprovveduta ma non incolpevole vittima di una società che tanto la attrae, possiamo trovare le radici della deriva morale e valoriale verso la quale sta proseguendo la nostra società. Pietrageli solleva il sottobosco della dolce vita anni ’60 e ci fa vedere il suo lato più oscuro, un amaro spaccato che ben si riflette sulla realtà che oggi ci circonda e che fa impallidire, in quanto profondità di analisi, pellicole attuali ben più ambiziose. Un esempio su tutti: Videocracy, documentario italo-svedese venuto Alla Ribalta nei primi giorni della Mostra del Cinema di Venezia che si pone come obiettivo quello di scavare nella società dello spettacolo italiana. Ciò che ne esce è una narrazione sommaria e superficiale della cultura dell'apparenza e dell'apparire che ha caratterizzato l'Italia berlusconiana, un’indagine molto più vicina a una puntata di Lucignolo che a un’inchiesta degna di nota.  L’impudicizia di Corona e l’orgoglio antisemita di Lele Mora, moderno venditore d’illusioni, sovrastano ogni velleità di analisi impoverendo il discorso narrativo. Voyeuristico, e superficiale al punto giusto per avere un suo fugace successo, Videocracy  trova nel rifiuto di Rai e Mediaset di trasmettere il suo trailer un ottimo motivo per emergere alla ribalta mediatica. Il documentario stesso diviene conferma implicita e involontaria del suo discorso: il potere della televisione conferisce visibilità ai soggetti che appaiono (o vengono esclusi) sui teleschermi. Se nel film di Pietrangeli eravamo di fronte ad un modo di argomentare chiaro, capace di travalicare i confini del tempo, non possiamo purtroppo dire altrettanto del lavoro di Gandini. La realtà che porta sullo schermo appare filtrata, imbrigliato all’interno di limiti e confini tipici del modo di comunicare televisivo verso i quali il cinema dovrebbe mantenere sempre una sua nobilitante autonomia.  


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