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Chiesa dell’Annunziata. L’approfondimento del prof. Cancila sulla storia della cappella del baglio castellano

Orazio Cancila 

IL MONASTERO BENEDETTINO CASSINESE DI CASTELBUONO 

(SECOLI XVII-XX)

Il più antico documento dell’esistenza della cappella dell’Annunziata nel baglio esterno del castello di Castelbuono («intus balium magnum civitatis Castriboni») è, a mia conoscenza, il testamento della marchesa di Geraci Isabella Ventimiglia, rogato in data 11 settembre 1549, con cui disponeva che vi si continuassero a celebrare a sue spese le messe solite, una delle quali cantata. Per il settantennio successivo non trovo altri dati sino al 1622, quando a cura di mastro Gian Francesco Lima furono effettuati dei lavori di ristrutturazione. Eugenio Magnano di San Lio ritiene che si trattasse più che di un ampliamento di «un adeguamento della sua architettura ai canoni estetici del momento: a tali interventi va probabilmente fatto risalire il portale della Chiesa sormontato dallo stemma dei Ventimiglia associato a quello degli Spadafora», che era la famiglia d’origine della marchesa Maria Antonia, moglie del marchese Francesco III Ventimiglia.

Nello stesso 1622, per remissione dei suoi peccati, ma più probabilmente per ingraziarsi il favore divino nell’imminente parto della moglie e con l’auspicio che il nascituro fosse di sesso maschile, il marchese donò alla cappella del SS. Sacramento un paramento «di raso carmixino et gialno in peczi novi et fardi quarantacinco», a condizione che i rettori della cappella lo mettessero in perpetuo anche a disposizione dei rettori e dei governatori delle cappelle di Sant’Anna e della SS. Annunziata in occasione delle festività delle due sante.

Il marchese aveva fretta di procreare un erede maschio e, due mesi dopo la nascita di Stefania Silvestra Nunzia Anna, la marchesa Maria Antonia era nuovamente incinta di don Giovanni Nicolò Giuseppe Domenico Nunzio, nato a metà dicembre 1623 e battezzato con grande pompa, ma deceduto poche settimane dopo (gennaio 1624). Bisognava ricominciare da capo e nei primi di luglio 1625 nacque don Giovanni (il futuro Giovanni IV). Appena un anno dopo, nell’agosto 1626, giunse Giuseppe. Cinque parti in meno di sei anni erano troppi e forse fu per questo che la giovane marchesa non resse e morì, non ancora trentenne, l’1 agosto 1627, malgrado le cure dei medici locali e persino del protomedico, il castelbuonese Francesco Guerrieri, chiamato appositamente da Palermo.

Qualche giorno prima, il 28 luglio 1627, la marchese Maria Antonia aveva dettato al notaio Vittorio Mazza il testamento con il quale legava alla cappella dell’Annunziata 1600 Onze da impegnare nell’acquisto di rendite sicure, per utilizzarne l’interesse annuale (onze 80) nella celebrazione di messe, ristrutturazione dei locali e acquisto di arredi sacri. Nel corso del 1629 la cappella fu così arricchita di nuovi banchi fabbricati da mastro Diego Levante, che un muratore fissò a terra con del gesso, curando anche la suturazione delle fessure alle pareti. Per la celebrazione delle messe, il marchese, esecutore testamentario delle ultime volontà della defunta, nell’ottobre 1629 pensò di cedere ai Padri Riformati di Nostra Signora del Carmelo (carmelitani scalzi) la chiesa dell’Annunziata «una con li soi casaleni atorno, una con li giocali che al presente sono di dicta chiesa, ad effecto di servirsi dicti padri di chiesa dire messe»; e concesse loro l’autorizzazione alla costruzione di un convento limitrofo alla chiesa dotato di tutto ciò che ritenevano utile e necessario (celle, officine, refettorio e altro), a condizione che in perpetuo non realizzassero mai alcuna apertura sul baglio grande, eccetto la porta della chiesa. Il marchese si impegnava a concedere inoltre un pezzo di grassura (giardino) con l’acqua, la cavallerizza limitrofa alla chiesa e due salme di terreno nei feudi dell’Università per l’impianto di un vigneto, franche di qualsiasi canone e gravezza. 

Con l’inizio dei lavori di costruzione del convento, il marchese avrebbe assegnato in perpetuo alla nuova comunità religiosa la rendita annua di onze 80, da utilizzare anche per la fabbrica in ragione di onze 50 l’anno. Nel corso dei lavori il personale religioso presente a Castelbuono sarebbe stato quello necessario al servizio della chiesa e della popolazione, mentre a lavori ultimati il numero dei frati sarebbe stato elevato a dodici. I religiosi si impegnavano a mantenere in perpetuo due scuole a servizio della popolazione, una di lettura, scrittura e grammatica, l’altra di scienze, sull’esempio di quelle gesuitiche; a istituire due congregazioni, una per i “gentilomini”, l’altra per i “popolani”; a mettere per ogni quaresima a disposizione del marchese, nella chiesa dell’Annunziata o in altra chiesa a sua scelta, un padre predicatore dei migliori per celebrare messa «senza elemosina»; a «sermonizare in detta chiesa o dove a detto signore piacerà ogni domenica»; a celebrare nella loro chiesa ogni giorno quattro messe per l’anima della defunta marchesa, in esecuzione del legato testamentario. 

Il convento avrebbe dovuto ospitare soltanto carmelitani scalzi, pena la revoca delle donazioni. Anche nel caso di un’eventuale abolizione dell’ordine, i beni concessi sarebbero ritornati al marchese (o ai suoi successori), che avrebbe potuto disporne a favore di altri ordini religiosi senza chiedere licenza ad alcuno. In caso, inoltre, di qualsiasi altra inadempienza contrattuale da parte dei religiosi, il marchese non sarebbe stato obbligato a pagare la rendita annuale assegnata, anche se i frati potevano continuare a rimanere in possesso degli altri beni concessi, tra cui quattro barili di tonnina della tonnara di Pietra del Corvo (Tusa) ogni anno.

Per motivi che non sono riuscito a individuare, il progetto concordato non si realizzò e un anno dopo (1630) il marchese si accordò con i benedettini cassinesi del monastero di Gangi Vecchio per la fondazione a Castelbuono di una loro grangia. Con riserva dell’autorizzazione dell’arcivescovo di Messina e di altre autorità religiose, si stipulò quindi – presente come teste l’avvocato Baldassare Abruzzo – l’atto di cessione, da valere dal giorno in cui sarebbero pervenute le necessarie autorizzazioni. Padre Severino da Messina, decano del monastero, si impegnava a trasferire a disposizione della chiesa dell’Annunziata quattro sacerdoti e un chierico a loro servizio per la celebrazione giornaliera delle messe in suffragio dell’anima della marchesa. In caso di assenza o impedimento di qualcuno dei sacerdoti, la celebrazione della/e messa/e sarebbe stata affidata in sostituzione ad altro sacerdote. Per il mantenimento della grangia, il marchese, a sua volta, prometteva di assegnare, all’arrivo dei sacerdoti, rendite sul marchesato di Geraci per un capitale onze 1600, legate dalla marchesa Maria Antonia con il suo testamento, e di altre onze 400 in aggiunta a suo carico. In tutto, un capitale di onze 2000, che al 5 per cento (il tasso di allora) rendevano annualmente onze 100. Per la costruzione dei locali della grangia, prometteva inoltre altre onze 2000, di cui 1600 in rendite (onze 80 l’anno) e 400 pagabili in dodici rate annuali, a cominciare dall’arrivo dei benedettini a Castelbuono. A carico del marchese rimanevano le spese per ottenere l’autorizzazione del Pontefice e di altre autorità religiose a celebrare nella chiesa dell’Annunziata soltanto quattro delle sette messe giornaliere legate dalla marchesa Maria e a provvedere in altro modo, a cura del marchese, per la celebrazione delle rimanenti tre messe giornaliere.

Padre Severino si impegnava, inoltre, a far ratificare entro un anno l’accordo dal Capitolo generale dell’Ordine di San Benedetto e dall’abate, decano e cellerario (responsabile delle scorte alimentari) del monastero di Gangi Vecchio, pena il suo annullamento. Il contratto sarebbe stato nullo anche nel caso di inadempienza futura da parte dei religiosi e i beni concessi sarebbero ritornati in possesso del marchese o dei suoi successori senza ricorso ad alcuna sentenza giudiziaria.

Non so se il marchese pensasse già allora a un futuro trasferimento del monastero da Gangi Vecchio a Castelbuono. Pensò certamente di recuperare a favore della capitale del suo stato, ossia di Castelbuono, almeno parte dei benefici che i suoi antenati avevano elargito al monastero nei secoli precedenti e perciò da un lato approvava e confermava i privilegi concessi dai predecessori, dall’altro poneva le basi perché i loro effetti si riversassero anche su Castelbuono. Peraltro un incremento della comunità monastica di Castelbuono non sarebbe stato a lui sgradito e infatti non solo lo auspicava, ma consentiva che le rendite assegnate dai suoi predecessori al monastero potessero essere utilizzate anche per la costruzione della grangia, nonostante fosse stato in origine diversamente pattuito. 

L’espletamento della pratica con la concessione delle varie autorizzazioni richiese diciotto mesi e, finalmente, ottenuta anche quella dell’arcivescovo di Messina, concessa il 6 luglio 1632, tutto era pronto per la ripresa dei rapporti tra le parti. A Castelbuono da qualche settimana era giunto padre don Zaccaria Platamone da Palermo, al quale l’abbate del monastero di Gangi Vecchio aveva concesso ampia procura a rappresentarlo nelle operazioni necessarie alla fondazione della grangia. Lo stesso giorno don Zaccaria contrattava con mastro Domenico Mancuso di Geraci una fornitura di salme 200 di calce, con consegna di salme 50 ogni 15 giorni nel luogo che gli avrebbe indicato. E tre giorni dopo prendeva in affitto per un anno dagli eredi di Ottavio Abruzzo la casa solerata per complessivi 13 vani con baglio e acqua «in strata di la piazza dintro», quartiere Vallone, per un canone di onze 10: era l’antica casa del notaio Pietro Paolo Abruzzo (oggi proprietà Quadalti-Genchi). Evidentemente un immobile di 13 vani non doveva servire per il solo padre Zaccaria: il suo affitto elevato fa ritenere che l’arrivo di altri confratelli fosse imminente. 

All’inizio di agosto, Francesco III, in adempimento della volontà testamentaria della defunta moglie, poteva perciò soggiogare a don Zaccaria, con patto di ricompra e con riserva dell’autorizzazione della Regia Corte, una rendita annua di onze 80 pagabile ogni 15 agosto, che sarebbe gravata sia sul marchesato di Geraci, sia sulla rendita annua di onze 960 a favore dello stesso marchese e a carico del duca di Terranova (faceva parte della dote della defunta marchesa Maria Antonia) e ancora su tutti i suoi beni feudali e allodiali. Lo stesso giorno padre Zaccaria riceveva dal vicario don Guglielmo Guerrieri la consegna dei paramenti e degli arredi sacri della cappella dell’Annunziata, tra cui due quadri, uno grande collocato nell’altare raffigurante l’Annunziata e un altro mezzano nella sacrestia raffigurante il Crocifisso. E si metteva subito all’opera, commissionando la fattura di 400 canne di pietra [canna = ml. 2] e possibilmente anche di più, adatta e buona per le fabbriche, a mastro Erasmo Castiglia, Nicolò Battaglia, Giuseppe Scialabbo e Simone Purpuri; e altre salme 60 di calce a mastro Francesco Failla e Giovanni Lentini (del casale di Camaro, presso Messina). 

La dispersione degli atti del notaio Mazza del 1632-33, l’ultimo anno della sua attività prima della morte nel novembre 1633, non ci consente di seguire gli sviluppi immediati della vicenda della costruzione del convento benedettino. Da un documento di un archivio privato Salvatore Farinella rileva che, in pagamento delle onze 400 a saldo della prima tranche di 2000 onze, il marchese trasferì al monastero rendite annuali per onze 20 (il 5 per cento) dovutegli da Vincenzo Bandò e dagli eredi del notaio Schimbenti. È vero, in una ricevuta di pagamento del settembre 1634 si fa riferimento alla cessione di canoni enfiteutici da parte del marchese ai benedettini di Gangi Vecchio agli atti del notaio Mazza, la cui data non è indicata, ma che è certamente da collocare tra il settembre 1632 e il febbraio 1633, quando Francesco III e il cellerario padre Francesco da Messina affidavano ai palermitani mastro Domenico Valanzone, mastro Onofrio Bonifacio e mastro Francesco Lisciandello l’incarico di «aedificare tutta quella quantità di fabrica quanto sarà necessaria per l’edificazione et costructione del novo monasterio seu grangia di Gangi Lo Vecchio fabricanda, costruenda et aedificanda per li dicti patri in hac praedicta civitate Castri Boni», di cui era progettista mastro Antonino Conforto, il capo dei muratori castelbuonesi. 

La manodopera – costituita da non meno di quattro muratori con i manovali necessari – sarebbe stata pagata in ragione di tarì 7 e grani 15 per ogni canna di muratura, mentre i dammusi in ragione di tarì 5 e grani 5 per canna. Il materiale necessario (calce, sabbia, pietra, tavoloni, travi, corde, ecc.) sarebbe stato fornito dai committenti. Per l’ammattonato e la copertura con tegole si sarebbe proceduto a nuovi appalti, dando la preferenza ai muratori palermitani. Costoro intanto avevano l’obbligo «d’assettari tutti li colonni tanto di lo claustro quanto in altre opere ch’avessero d’andare e, caso detti patri non volessero colonne e volessero pilastre tanto nello claustro quanto in altre lochi, siano obligati li detti mastri staglianti assettarli». Non erano invece tenuti a scavare le fondazioni. 

Nel novembre 1633 la costruzione del monastero risultava appena avviata e Francesco Scialabbo fu Domenico si obbligava col rettore don Gregorio da Palermo a fornirgli, «pro servitio fabricae dittae grangiae et novi monasterii Santissimae Annuntiatae», 600 canne di pietra della stessa qualità di quella commissionata in precedenza a mastro Erasmo Castiglia e compagni, con consegna posto fabbrica. La sua ultimazione però non si prevedeva imminente e perciò – in considerazione anche del fatto che il 27 novembre 1633 un consiglio civico aveva stabilito di donare ai benedettini onze 400, in ragione di onze 100 l’anno a cominciare dall’agosto 1635, da utilizzare per la ristrutturazione della loro abitazione castelbuonese in attesa del completamento della grangia – il marchese, in aggiunta alle precedenti sue donazioni, concedeva all’abbate padre Prospero da Palermo e al priore don Severino da Messina, per la devozione da lui sempre manifestata verso i padri cassinesi di Gangi Vecchio, le fabbriche, le stanze, i casalini e i dammusi tra il luogo detto Lo Tocchetto [della pallacorda] e la chiesa dell’Annunziata, incluse le stalle e il giardinetto retrostante le stalle e le stanze, in modo che i monaci potessero ristrutturarle ad abitazione come meglio loro sarebbe piaciuto e potessero abitare intanto a Castelbuono, già prima che la fabbrica della grangia fosse ultimata e resa abitabile.

La donazione avveniva alle seguenti condizioni:

– quando i monaci andranno ad abitare nell’immobile in corso di costruzione, dovranno rilasciare nuovamente gli immobili sopra donati al marchese e all’Università di Castelbuono e, se avranno speso per la loro riparazione un importo superiore alle onze 400 donate dall’Università, l’eventuale rimborso della somma eccedente o di una parte di essa sarà a discrezione del marchese o dei suoi successori; 

– i monaci potranno chiudere, se lo vorranno, il terreno antistante le stalle dove è ubicata anche la cisterna, che però dovrà rimanere all’esterno per servizio degli stessi e del marchese;

– il contenuto del presente atto non doveva in nessun modo pregiudicare il versamento delle 2000 onze promesse ai monaci dal marchese proprio per la costruzione dei locali della grangia (la seconda tranche), in aggiunta a quelli del legato della defunta marchesa Maria;

– quando i monaci si fossero trasferiti nei locali in corso di costruzione e avessero lasciato i locali appena concessi in comodato, il marchese e l’Università avrebbero potuto utilizzarli per concederli a un altro ordine religioso.

I benedettini non persero tempo ad avviare i lavori per la ristrutturazione dei vecchi fabbricati appena concessi dal marchese e dieci giorni dopo don Gregorio da Palermo ordinò a mastro Giovanni Celidonio e a mastro Agostino Rinaldi tutto il quantitativo di tegole e mattoni quadri e lunghi necessari sia per la grangia in costruzione, sia per il rifacimento delle stanze confinanti con la chiesa dell’Annunziata ottenute in concessione, con consegna alla fornace dal 15 aprile 1634 in poi. 

La direzione dei lavori fu affidata ancora a mastro Antonino Conforto, il quale doveva intervenire ogni qualvolta fosse stato richiesto per «assistere personalmente per dare ordine, reggere et gubernare come capo mastro dette fabriche e non servire per simplici mastro dette fabriche e murare et travagliare tutto il giorno insiemi con l’altri mastri. Et li sia licito andare e venire ita che sia in electione di detti patri quando vorranno o non vorranno l’assistentia di detto mastro Antonino… tanto per far disigni quanto per consigli… e fare quanto di bisogno», e in particolare «fari lo modello seu disigno di tutta la pianta di detto novo monasterio di C. B. al presente incominzato in carta comuni gratis senza pagamento, ma facendo detto modello seu disigno di rilevo tali caso siano obligati detti patri  quello pagari a detto mastro Antonino conforme meglio fra di loro si potranno convenire». Il suo salario era convenuto in onze 24 l’anno e inoltre tarì 2 al giorno ogni qual volta fosse stato chiamato. Per l’opera prestata sino ad allora, compresa la fattura dei modelli (il progetto), riceveva un compenso di onze 10.

Intanto però era indispensabile sbloccare anzitempo il contributo di onze 400 dell’Università, la cui utilizzazione – possibile solo a cominciare dall’agosto 1635 –avrebbe provocato ritardi nei lavori per rendere abitabili i vecchi fabbricati e nel trasferimento a Castelbuono dei benedettini. La soluzione fu trovata dagli stessi religiosi, che si misero alla ricerca di qualche “persona devota” disposta ad anticipare la somma, accollandosi il credito di onze 400 a carico dell’Università. E la trovarono nella ‘signorina’ («puella virgo in capillo») donna Beatrice Cusimano Maurici, la quale, mossa da grandissima devozione verso l’ordine del glorioso San Benedetto e verso la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata, si disse disposta a concedere a mutuo la somma, dietro cessione del credito nei confronti dell’Università. Consegnò quindi al rettore padre Gregorio da Palermo onze 75 contanti e si impegnò con l’abate del monastero di Gangi Vecchio padre Prospero da Palermo e con il rettore padre Severino da Messina a versare la rimanente somma ratealmente: onze 125 a Natale, onze 100 per Pasqua e onze 100 l’1 settembre 1634. Di contro, i monaci le cedevano il diritto a riscuotere dall’Università le onze 400 promesse ai benedettini dal consiglio civico di Castelbuono e ipotecavano a suo favore gli immobili costruiti e in costruzione a Castelbuono. 

Il giorno dopo, 11 dicembre 1633, padre Gregorio ordinò a mastro Nicolò Pampilone, originario di Palermo ma abitante a Castelbuono, di «fari et lavorari d’intaglio plano di la petra ordinaria di la pirrera di Castelbuono tutti li sogli et architravi di porti e finestri et altri parti che ditti patri per servitio della grangia di C. B. hanno bisogno, cioè per la fabrica delli stantii dello tocchetto di la palla [il campetto per il gioco della pallacorda] insino alla chiesa della Annuntiatione della B. V. nello baglio del castello di C. B.». Il prezzo era stabilito per le soglie e gli archi in grani 15 per ogni palmo, per le balate rustiche per tarì 3 «pro singula stragulata»[1]. 

L’ultimo dell’anno padre Gregorio ingaggiò Filippo Lo Nardo perché, con i suoi somari, appena acquistati da potere di Nicolò Guagliardo, si impegnasse sia nel trasporto di tegole, mattoni, sabbia, pietra e altro materiale necessario per la grangia «novamenti incominzata construenda et fabricanda», sia nelle operazioni di sterro «e fari fossi per ditta grangia», dall’indomani in poi. Il compenso per i trasporti sarebbe stato fissato dal rettore d’accordo con il Lo Nardo, mentre per gli altri lavori valevano i compensi fissati in precedenza con altri lavoranti agli atti del notaio Mazza. Lo Nardo riceveva un anticipo di onze 4, oltre le onze 4 pagate dal rettore direttamente al Gagliardo per l’acquisto dei due somari. 

Filippo associò nel lavoro il fratello Baldassare e Giuseppe Ortolano e quindi fu necessario acquistare due altri somari con corredo di basti, che fornì padre Gregorio, il cui prezzo di onze 9 i lavoranti avrebbero compensato con la fornitura di un certo quantitativo di «pietre con la sua rina, maczacani minuti» e altro materiale necessario per la fabbrica in corso, come pure con il trasporto di tegole, calce e altro, a cominciare dall’indomani. Il prezzo della pietra era convenuto in tarì 8.15 per ogni canna, mentre gli altri servizi sarebbero stati pagati a discrezione del rettore e come «meglio si potrà convenire».

Per le travi e le tavole della copertura, padre Gregorio si rivolse a mastro Salvatore Mazzola, mastro Lorenzo Arata e mastro Agostino Rinaldi, che si impegnarono a fornire «tutta quella quantità di trava et tavuli di ruvolo [= rovere] quali fanno di bisogno… per fari li solari delli stantij dello tocchetto et altri stantij che sequino appresso». Si obbligavano inoltre a collocare (assittari) a loro spese entro febbraio metà delle travi e delle tavole nei solai, con chiodi forniti dal rettore, ed entro marzo l’altra metà. Il prezzo era convenuto in tarì 5 per ogni trave della lunghezza di 15 palmi e di tarì 4 per ogni trave della lunghezza di palmi 12; le tavole in tarì 10 per ogni canna collocata nei solai, consignando pagando. Tra le tavole del tetto del refettorio avrebbero dovuto collocare dei costanelli forniti dal rettore. 

La fabbrica procedeva e serviva ormai il gesso in polvere, che per un quantitativo di salme 45 fu fornito da Nicolò Schirnicchio, Giovanni La Martina e Antonino Notaro di Geraci per il prezzo di tarì 16 a salma.

A fine febbraio 1634, Francesco III, in conto della seconda tranche di onze 2000 promessi in donazione per la costruzione della grangia, cedette al cellerario tutti i diritti su onze 1300 (ed eventualmente anche di più) che egli doveva recuperare dal defunto don Antonio Rosselli e Speciale, suo procuratore. Intanto si lavorava anche al trasferimento a Castelbuono dell’intera comunità monastica di Gangi Vecchio. Non è noto come fosse sorta l’idea, se la proposta iniziale fosse di Francesco III, desideroso di non disperdere, dopo la vendita di Gangi, i vantaggi del rapporto plurisecolare con i cassinesi, ai quali i Ventimiglia avevano concesso non pochi benefici; oppure se fosse dei benedettini, che forse malsopportavano la vicinanza con il nuovo feudatario di Gangi, il parvenu Francesco Graffeo, nei cui domini si trovava l’antica abbazia. A Palermo nel 1634 il capitolo generale della congregazione cassinese deliberava una visita di propri commissari a Castelbuono e a Gangi, a conclusione della quale fu stabilito che il trasferimento sarebbe stato possibile su richiesta del marchese e se avesse recato vantaggi alla comunità monastica. In altre parole, era necessaria una nuova convenzione con nuove donazioni e nuovi privilegi, che fu stipulata a fine 1634. 

Francesco III confermava così all’abbate don Giovan Battista da Messina e al priore don Severino tutti i privilegi, le grazie, le immunità e le donazioni concesse dai propri antecessori sin dalla fondazione del monastero, tra cui il possesso dei feudi Camporotondo e Monte Albano, possesso che però era condizionato alla permanenza del monastero a Gangi Vecchio e dal cui vincolo il marchese, per sé e i suoi, li scioglieva in occasione del trasferimento a Castelbuono. Nel caso tuttavia di una loro alienazione, il marchese e i suoi successori a parità di prezzo sarebbero stati preferiti ad altri eventuali acquirenti. Inoltre, a parziale modifica dell’accordo del novembre precedente, indotto da spirito divino e mosso dalla grandissima devozione nutrita nei confronti della congregazione cassinese, donava irrevocabilmente all’abbate e al priore i fabbricati concessi allora in uso per abitazione provvisoria (quelli, per intenderci, tra il Tocchetto e la chiesa dell’Annunziata), di cui invece il contratto precedente prevedeva dopo il completamento del nuovo monastero il rilascio a favore suo e dell’Università, la quale era intervenuta come sappiamo con onze 400. Assegnava loro inoltre mezzo denaro di acqua corrente[2], che non poteva però utilizzarsi per irrigare ortaggi. 

Poneva come condizione che i cassinesi continuassero in perpetuo il servizio a favore della chiesa dell’Annunziata, come promettevano di fare. Ovviamente, nel caso avessero abbandonato sia Castelbuono sia Gangi Vecchio, lo scioglimento del vincolo precedente sul mantenimento del possesso dei feudi Camporotondo e Monte Albano e altri beni, previsto dalla nuova convenzione, si sarebbe dovuto considerare annullato e sarebbe stato ripristinato il vincolo a favore dei Ventimiglia come in origine. La liberazione dal vincolo infatti era concessa dal marchese Francesco III solo per consentire il trasferimento dei benedettini a Castelbuono.

Con i muratori palermitani impegnati nella costruzione del nuovo monastero, nel novembre 1634 i lavori di ampliamento della chiesa dell’Annunziata, con la costruzione del coro e della sacrestia, e di ristrutturazione dei locali che dovevano servire come alloggio temporaneo dei religiosi furono affidati da padre Gregorio, che interveniva anche per conto del marchese, a mastro Antonino Conforto, il quale peraltro aveva preparato i relativi disegni: 

farcere, murare, construere ed edificare et complire ut dicitur tutte le fabriche che sono a’torno la chiesa della Annuntiata, per esso di Conforto designate, di tutto quello e quanto sarrà necessario tanto d’opera di capomastro quanto di mastro muratore, a tutto attratto di ditto padre don Gregorio, cioè di calce, rina, petra, mattuni, canali, balati, lignami e tutt’altri cosi necessarii per complire dette fabriche, cioè ditto mastro Antonino sia obligato alla mastria solamenti e non ad altro, et specialmente sia obligato fare nel luoco designato per choro il muro alto e grosso a proportione conforme ricerca l’arte, uscendo fuori verso la gisterna tre o quattro palmi secundo sarà bisogno e si vidia dalla misura del choro che si li darà:
Item etiam fare l’incannata e quanto bisognirà per il covertizzo, fare lo dammuso finto e nel muro sudetto lasciare il vacante e fare un finestrone a proprotione, riczare e bianchigiare di sopra, dove verrà il choro fare l’archo di maduni verso la chiesa a proportione per accomodarlo di tutto punto e fare una porta che vada alla sacristia dove hoggi si dice paglialora et finalmente madunare tutto il choro;
Item etiam fare la sacristia con una o due finestre come meglio li parirà, fare un’altare e sopra un vacante per il reliquario, secundo la misura che se li darà; fare il damuso finto, riczare e bianchigiare e fare la porta che si esca al corritore;
Item nel corritore tirare il muro che sparte le celle  alto quanto sarà bisogno e di sopra appogiarci l’incannata e damuso finito di detto corritore con tre o quattro finestre nel detto corritore alte in modo che di fuori non si possa arrivare e metterci le gradiate di legno, riczare, bianchigiare e madonare tutto;
Item far le celle con suoi partimenti e finestre, coprirle con le canne e sotto col damuso finto, rizarle, bianchigiarle e madonarle e nel ultima cella, che sarà più piccola, accomodare un vacante per un armario per l’arcivo, secundo la misura che si darà;
Item etiam scagliare il muro della parte di fuori et allivellarlo et agiustarlo magistribilmente con riczarlo, come anco il muro di quest’altra parte verso la gisterna et assettare la pendenza delli canali del midesimo tetto come l’altre del altro dormitorio et agiustare tutte le canali;
Item etiam fare l’arco per dove si va dal uno corritore a l’altro, serrare quella porta ch’esso è porta e lasciare un vacante per la lanterna nel mezzo e, si li pare, fare di sopra un’apertura per dar lume al curritore:
Item etiam ne l’altro corritore fare li medianti che mancano, riczare, biancare e madonare tanto le celle quanto tutto il corritore di tramontana;
Item agiustare la necessità [= w.c.] con tutti li cadutti [= condotti] necessarii sino al fossato del giardino grande del signor marchese, far li luoghi ben accomodati con li suoi spartimenti e di avanti un timpagnolo che non siano veduti dalla porta che s’entra; la finestra e porta o scaletta se sarrà necessaria riczarle, biancarle e madunarle;
Item etiam far la scala con suo damuso di fabrica e sue scaline o di pietra o di mattoni col muro che tiri sopra quanto sarà bisogno a proportione, far il damuso finto riczato e biancato con suo tramezzo con la covertura di canne e canali;
Item etiam far la porta del refettorio con una scaletta per salire a detta porta, accomodare il solaro, far una soffitta piana di cannizze biancate, riczare e biancare e madunare di sotto la scaletta, far una porta e dentro far una stantia per il portinaro con partimenti di muro sotto, far una porta che si possa entrare sotto il refettorio e serrare quella che fu porta del tocchetto et accomodar dui murette sotto il refettorio a canto il pilastro per tener il solaro, far la porta per la cocina; 
Item etiam riczare, biancare e inciacare la porcaria;
Item etiam far la campana del camino della cocina et il fornello con il lavatorio col suo condotto che arrivi all’altro che va alli fossi.

Con il materiale a carico di padre Gregorio, il compenso di mastro Antonino, che avrebbe dovuto utilizzare giornalmente non meno di tre mastri e tre manovali, era stabilito in onze 90, con un acconto di onze 20. Per la fornitura del gesso il cellerario don Francesco da Messina, che sembra avesse sostituito padre Gregorio, si rivolse ai geracesi Tommaso Notaro, Nicolò Schirnicchio e Antonino Ficcaglia, che promisero di consegnarne salme 17 posto fabbrica del monastero, al prezzo di tarì 16 a salma. Tre mesi dopo, il nuovo cellerario don Aurelio da Nicosia ingaggiò ben cinque operai (i fratelli mastro Giuseppe e mastro Erasmo Castiglia, mastro Giuseppe Gambaro, Nicola Di Garbo e Tommaso Palumbo) per lo scavo di un pozzo «nello giardinetto dietro la chiesa della SS.ma Annuntiata… di larghizza canna una [ml. 2] dalla cima insino al fundo, fin tanto che si retrovirà l’acqua sufficienti conforme è solito; e quello cavato che sarà, murari a petra a sicco, conforme è solito insino a palmi dui o tri sotto il terreno».

Nell’ottobre 1635, il marchese ordinò a Giuseppe Collara minore fu Filippo, suo debitore per la compravendita di olio, di versare per suo conto al monastero di Gangi Vecchio la somma di onze 200, che Collara cominciò a pagare ratealmente. I lavori proseguivano e mastro Antonino Conforto in novembre aveva già ricevuto dai benedettini in più occasioni, parte in denaro e parte in frumento, onze 116.6.16, come acconto dei lavori eseguiti e da eseguire «tanto per la fabrica quanto per lo intaglio». Come ulteriore acconto, padre Severino da Messina gli cedette la somma di onze 140 che Collara doveva al monastero e che avrebbe pagato al Conforto in quattro anni.

Un anno dopo, nel novembre 1636, i lavori non erano stati ancora ultimati e i benedettini continuavano a ritardare il trasferimento definitivo a Castelbuono. Si stipularono perciò nuovi accordi, che comportarono pesanti concessioni da parte di Francesco III, ammalato e forse anche in pericolo di vita. Egli confermava a padre Flaminio da Messina, abbate del monastero di Gangi Vecchio, la cessione perpetua della chiesa dell’Annunziata; in acconto della seconda tranche delle 2000 onze promesse, versava onze 100 immediatamente e onze 100 con la consegna di un certo quantitativo di olio, il cui ricavato doveva servire per il trasferimento di reliquie, paramenti, suppellettili e altro da Gangi Vecchio a Castelbuono; e consentiva che i benedettini 

  • «possino liberamenti ampliare detta chiesa della SS.ma Annuntiata con pigliare un peczo della cocchiaria [=deposito dei cocchi] et del casalino del trappeto dietro la sacristia et a lato di detta chiesa, e dicti Padri non siano obligati refari nenti a dicto signor marchesi per dicto peczo di cocchiaria e di casalino che piglieranno per l’ampliatione, ma quelli si intendono concessi a decti Padri gratis amore Dei»; 
  • che nel «caso che dicto signor marchese facesse portare l’acqua nel suo Palazzo, in tal caso lo spandente di dicta acqua possino dicti Padri portarselo in decto monasterio et fabriche a spese loro oltre di quello che dicto signore have dato e promesso et deve dare a decto monasterio»; 
  • e ancora «che dicti Padri si possino chiudere e fare clausura di quello terreno vacante qual è in mezzo delle fabriche vicine alla detta chiesa della SS.ma Annuntiata et alla fabrica del monasterio grande».

Con atto successivo si regolarono i conti. Dal 26 luglio 1633 al 31 agosto 1636, il marchese avrebbe dovuto versare al monastero onze 1024, tari 6 e grani 10, a causa sia delle onze 80 l’anno assegnate con il testamento dalla marchesa Maria Antonia per la celebrazione di messe, sia delle rate di onze 166 e tarì 20 l’anno per le onze 2000 da lui promesse nel dicembre 1630, e per altro. Aveva di contro versato onze 983, tarì 7 e grani 17, rimanendo debitore di onze 40, tarì 28 e grani 13, che l’abbate voleva che il marchese pagasse direttamente ai sacerdoti don Giuseppe Capuana, don Epifanio Sciarrino e don Giovanni Castiglia per le messe da loro celebrate nella chiesa dell’Annunziata. Francesco III rimaneva debitore di onze 1333 e tarì 10, resto delle onze 2000 (seconda tranche) promesse nel 1630 per la fabbrica, in acconto delle quali aveva versato con atto precedente onze 200 tra contanti e olio. Il debito si riduceva quindi a onze 1133 e tarì 10, per il pagamento delle quali il marchese ipotecava a favore del monastero tutti i suoi beni mobili, stabili, feudali, burgensatici e in particolare lo stato e marchesato di Geraci, lo stato e il principato di Castelbuono, le terre di San Mauro, Tusa inferiore e superiore e Pollina, i mulini e tutti i proventi da essi forniti [3].

All’inizio del gennaio 1637 sembra che i benedettini si fossero già finalmente trasferiti a Castelbuono, se il notaio Prestigiovanni qualificava padre Gabriele da Enna come «procurator devoti monasterij olim Engij veteris et modo Santissime Annuntiationis huius civitatis Castri Boni», un tempo quindi di Gangi Vecchio ora di Castelbuono. Padre Gabriele protestava contro mastro Giorgio Carabillò, mastro Giuseppe Faranda e mastro Bartolomeo Zumbo, fonditori di campane, ai quali il monastero aveva commissionato una campana suonante di buon suono del peso di 5-6 cantari, che però collocata sul muro si ritrovò «con li manichi rocti con grande pericolo di cascare et soccedere danni… che fu di bisogno di subito farci ponti di sotto et attaccarla». Nell’aprile successivo, padre Gabriele, che il notaio Prestigiovanni indicava nuovamente come «procurator generalis… monasterij olim Sancte Marie de Gangio Vetere et modo SS.me Annuntiatonis huius civitatis Castri Boni», nominava un procuratore sostituto per recuperare dei crediti a Polizzi. Possiamo quindi collocare il trasferimento a Castelbuono dei benedettini di Gangi Vecchio negli ultimissimi mesi del 1636. 

Non so però se esso riguardasse tutti i frati e se a Gangi rimanesse ancora un presidio. Nel giugno 1637 la comunità castelbuonese del monastero di Santa Maria Santisssima dell’Annunziata era costituita dal priore padre Mauro da Paternò, padre Girolamo da Palermo, padre Benedetto da Militello Val di Noto, padre Placido da Militello Val di Noto, padre Agostino da Catania, padre Ottavio da Messina e dai chierici don Felice da Messina e don Benedetto da Gangi. Il giorno 28 si riunirono «in loco solito et consueto ut moris est» per nominare procuratore, in sostituzione dell’ex cellerario padre Aurelio da Nicosia, il cellerario del monastero padre Vito da Palermo, con il compito di riscuotere crediti, rappresentare in qualsiasi tribunale il monastero, amministrarne il patrimonio. 

In data che non sono riuscito ad accertare, poiché il marchese era rimasto debitore di onze 885.5 (in conto delle 2000 onze) e ancora di onze 419.3.5 (per canoni arretrati della rendita annua di onze 80), i monaci ritornarono a Gangi Vecchio, lasciando a servizio della chiesa dell’Annunziata soltanto un monaco e un frate laico. Il marchese Giovanni IV, succeduto al padre Francesco III nel 1648, riprese i contatti con i benedettini e insistette perché ritornassero a Castelbuono e celebrassero le messe giornaliere volute dalla madre Maria Antonia. Con un nuovo accordo, nel febbraio 1652 concedeva loro il diritto di semina su una porzione del feudo Montededaro (Geraci) per un valore di onze 1600 (capitale della rendita annua di onze 80), una rendita annua di onze 30 (a saldo degli altri debiti paterni) e onze 100 contanti (per le spese di trasporto a Castelbuono). L’abbate, a sua volta, si obbligava a trasferire a Castelbuono da Gangi Vecchio tutti i monaci «con soi choro et organo et tutti altri arnesi, restando ivi solo il padre cellerario o altro monaco», per curare la gestione dei beni che continuavano a possedervi; alla celebrazione quotidiana di quattro messe; a ottenere un decreto dal suo ordine con l’indicazione che «una volta che il detto monastero farà ritorno in Castelbono non debbia da far più retorno in Gangi lo vecchio». Nel caso di allontanamento dei monaci da Castelbuono, tutti i beni concessi sarebbero ritornati in potere del marchese o dei suoi successori. E così l’anno successivo 1653 i cassinesi ritornarono a Castelbuono. 

La loro presenza avrà modesta incidenza nella città, sia perché i monaci non erano addetti alla cura pastorale, sia perché, sulla base almeno della scarsa documentazione in proposito, il loro numero mai superò le cinque unità, anche se non mancavano tra loro eminenti studiosi, come lo storico Vito Amico, autore nel 1757-1760 del Lexicon topographicum Siculum, che fu priore nel 1743, e membri di prestigiose famiglie aristocratiche. Un secolo e mezzo dopo il definitivo insediamento a Castelbuono dei cassinesi, l’abate di Casamari, riferendosi proprio alla situazione castelbuonese, commentava: «Ma pochi monaci che non assumono il carico di assistere ai prossimi, fan poco bene e per sé e per gli altri». Più che dello spirito dei castelbuonesi, essi si occupavano del corpo, grazie a una attrezzata aromataria, che però stando ai prezzi praticati era accessibile solo ai benestanti. 

Anteriormente al 1760, a causa di un terremoto il cappellone della chiesa dell’Annunziata «si avea aperto tutto in tre fianchi» e, secondo una perizia di mastro Nicolò Ferruzza, capo dei muratori di Petralia Sottana, rischiava di crollare sulla stessa chiesa e sul dormitorio se non si fossero al più presto eseguiti i lavori di consolidamento dei locali adiacenti. Consigliava ai monaci di «affrontarvi due dormitori, uno all’Oriente e l’altro al Mezzogiorno, li quali infrenando il citato aperto cappellone e sostentandolo in ogni parte, avrebbero sicuramente impedito la imminente diroccazione del medesimo, della medietà della chiesa e del dormitorio». Era quindi necessario acquistare quattro case sottostanti il cappellone, «a mezzogiorno, e diroccarsi e farvisi il nuovo sopradetto dormitorio con profondi e reali fondamenti, a tenore del disegno da me fatto in carta». 

Nel novembre 1760 i lavori furono appaltati all’asta a mastro Sebastiano Carabillò e a mastro Giuseppe Oddo, con l’obbligo di ultimarli entro otto anni. Nel giugno 1766 erano già stati ultimati e Ferruzza ne stimò il costo in onze 949 e tarì 24, a dimostrazione che il fabbricato era stato non solo ben consolidato, ma anche alquanto ampliato con l’aggiunta di un nuovo dormitorio a mezzogiorno: la sola pavimentazione aveva richiesto ben 15.000 «mattoni a mitra».

A fine Settecento il monastero era in forte decadenza e il citato abate di Casamari Romualdo Pirelli, cui il governo nel 1799 affidava il compito di svolgere una visita accurata dei monasteri cassinesi di Sicilia, concludeva il suo rapporto al sovrano proponendo l’unificazione del monastero di Castelbuono con quello di Caltanissetta, e quindi la sua soppressione, perché «dove i monaci sono sì pochi non vi può durare come si deve la osservanza». Inoltre, esso era situato in un luogo malsano e i religiosi, temendo di contrarre infezioni, d’estate lo abbandonavano tralasciando per alcuni mesi sia il culto della chiesa sia “l’osservanza”. E «i monaci lasciati in libertà si disperdono, e va ciascuno a trattenersi dove vuole, lo che produce allo spirito religioso o una perdita certa, o un gran pericolo». Per evitare tali inconvenienti, già in passato si era pensato di trasferire altrove il monastero e successivamente anche di costruirsi una casa di villeggiatura dove trascorrere l’estate. 

La soppressione non avrebbe causato danni alla popolazione, sia perché essa non aveva contribuito alla sua fondazione, e qui l’abbate Pirelli sbagliava, perché l’Università di Castelbuono aveva donato 400 onze, sia perché i cassinesi non avevano impegni pastorali e, di contro, «il paese è ben fornito di preti, e di tre altri conventi di regolari, che sono più che sufficienti a quella popolazione». Il marchese di Geraci avrebbe potuto lamentarsi, perché i suoi antenati si erano riservati il diritto di devoluzione nel caso di soppressione o trasferimento altrove del monastero, ma le sue pretese non dovevano prendersi in considerazione, perché per i motivi esposti era conveniente effettuare il trasferimento e perché la devoluzione non poteva sussistere dato che il trasferimento sarebbe avvenuto non per volontà dei religiosi ma per ordine sovrano. «E la loro partenza niuno svantaggio fa al paese, come si è detto; e meno al detto marchese, che ivi non dimora, e non è più padrone del luogo, i di cui naturali si han ricomprato anni sono il mero e misto», ossia il diritto di amministrare la giustizia.

I benedettini rimasero ancora a Castelbuono per alcuni decenni sino al 1866, quando sulla base al decreto di soppressione degli ordini e delle corporazioni religiose la chiesa dell’Annunziata e i locali del monastero furono incamerati dal demanio statale. Il conte Pietro Mancuso Quaranta ne rivendicò il possesso per conto delle sorelle Ventimiglia, dalle quali acquisì subito i due terzi, che poi il suo erede universale barone Fraccia, con atto del 10 ottobre 1911 in notar Francesco Arista di Palermo, vendette al castelbuonese ingegnere Emanuele Martorana. L’altro terzo entrò a far parte del patrimonio dell’ultima delle sorelle Ventimiglia, donna Giovanna, che alla sua morte, nel 1905, fu conteso dai numerosi eredi. Uno di essi per un ottavo era il principe di Monforte Giovanni Eugenio Moncada, i cui eredi vendettero a tale Ignazio Cosmelli, abitante a Palermo in via Polara, e alla moglie Rosalia Glorioso la loro quota indivisa, che per effetto del successivo sorteggio risultò costituita da un terzo del monastero e dall’intero magazzino diruto un tempo adibito a trappeto. Evidentemente, i due coniugi speravano in un sorteggio molto più favorevole di quanto non fosse avvenuto e perciò si affrettarono a metterli in vendita. Il 10 settembre 1921 si stipulò così il compromesso, con il quale Cosmelli promise di vendere gli immobili con tutti gli accessori, compreso il diritto sulla chiesa dell’Annunziata «ove esista», al comune di Castelbuono rappresentato dal sindaco Antonio Spallino, per il prezzo di lire tremila. 

L’atto di compravendita fu stipulato a Palermo il 19 dicembre 1921 presso il notaio Ernesto Lima: con esso il comune, rappresentato dal sindaco Antonio Gugliuzza, acquisiva un terzo indiviso dell’ex monastero, il locale diruto dell’ex trappeto e «il diritto – se ai venditori nella rappresentanza della defunta Marchesa di Geraci compete – alla terza parte sulla chiesa che nel recinto di esse fabbriche trovasi eretta, denominata dell’Annunziata». I venditori ignoravano evidentemente se la loro quota comprendesse o no anche il diritto di proprietà su un terzo della chiesa dell’Annunziata. Lo verificasse perciò il comune, al quale in caso di esito positivo essi lo cedevano senza ulteriore compenso. In realtà, la chiesa apparteneva per intero al barone Fraccia in virtù di una transazione con donna Giovanna Ventimiglia in data 4 luglio 1886 presso il notaio Magliocco di Palermo. 

Nei mesi immediatamente successivi, l’amministrazione comunale riuscì ad acquisire (gratuitamente, a mio parere) anche i diritti del barone Fraccia sulla chiesa, dell’Annunziata e il 25 marzo 1922 – riferisce “il bancarello” – «nelle ore del mattino, il sindaco [Gugliuzza] ed il consiglio in forma ufficiale, accompagnati dalla musica e da una folla di cittadini, prendeva[no] possesso della chiesa. All’orazione … il sac. Carmelo Morici ebbe parole di lode per il sindaco, di ammirazione per il barone Fraccia …». Ormai la chiesa dell’Annunziata apparteneva interamente ai castelbuonesi.

L’8 dicembre 1938, i locali dell’ingegnere Martorana furono infine acquistati dal sacerdote Michele Pistorio, direttore didattico a Castelbuono dal 1924, e donati l’11 febbraio 1943 alla suore del Boccone del Povero, che già vi si erano insediate. L’altro terzo dell’ex monastero appartiene ancora al comune, che lo utilizza come deposito di una parte del suo archivio storico.


1. La stragula, stràula (treggia) era un carro senza ruote poggiato su due slitte e trainato da buoi, utilizzato soprattutto nelle grandi aree granicole per il trasporto dei covoni sull’aia.
2. Il denaro equivaleva a un efflusso di acqua di litri 0,2686-0,3078 al secondo, secondo l’esperienza.
3.  Ivi, 10 novembre 1636, cc. 189r-192r.


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Chiesa dell’Annunziata. L’approfondimento del prof. Cancila sulla storia della cappella del baglio castellano

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