Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Tutti i colori del buio di Lucia di Lammermoor

Tutti i colori del buio di Lucia di Lammermoor
Fermata Spettacolo

È di scena in questi giorni al Teatro Petruzzelli di Bari Lucia di Lammermoor, a riprova del favore incondizionato che quest’opera ha sempre incontrato, presso i teatri d’opera, fin dal suo esordio, al San Carlo di Napoli, nel 1835, all’epoca in cui Donizetti era Direttore artistico presso quel teatro: da allora non è mai uscita di repertorio, non è mai stato necessario, come per altre, alcuna operazione di renaissance o di revisione storica o di recupero. Se ci chiediamo il perché di questo persistente successo, pur attraversando epoche che hanno modificato profondamente il gusto e le mode, la risposta, evidentemente, non può che risiedere, come per tutti gli autentici capolavori, nella sua capacità di uscire dagli stereotipi del secolo, per sublimarsi, invece, in eterno archetipo, adatto a fornire, cioè, risposte alle domande fondamentali della vita: è, Lucia, a ben vedere, molto più di tante sue consorelle e nella totalità del suo vivere e morire sul palcoscenico, icona dell’amore vissuto in totale distacco dalla storia e da ogni altra umana passione, amore senza connotati, amore che ama contro l’amore stesso, quello stesso amore cui Emma Bovary aspirava, almeno per un momento, per lo spazio disperato di una rappresentazione, nell’esaltazione folle della speranza – della fede – che qualcosa possa esistere, al di là, oltre, nel buio della notte che ormai si ama perché segno e simbolo del proprio cieco universo. E dunque non è certo caso o arzigogolo d’artista che – in questa edizione creata nel 2003 per il Massimo di Palermo e il Teatro delle Muse di Ancona – lo scenografo William Orlandi immerga Lucia in un mondo dove il buio, mancanza di luce, tenebra che avvolge l’universo intero risulti denso e totale, esistenziale, mini alla base il vivere e l’amare, stringa e costringa a disperate e definitive vie di fuga: perché, come nell’incipit del Vangelo di Giovanni, la luce di Lucia – non crederete mica sia per caso, questo nome? – splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta, anzi la respingono fino a mostrarsene assolutamente refrattarie.

Così, sia che la vicenda si svolga nel secolo d’Elisabetta come il libretto e Sir Walter Scott prescrivono, sia, come in questo allestimento, in quello di Vittoria, poco cambia, se non l’apparenza del mondo e delle cose: certo, se vogliamo, il chiuso e asfittico mondo dell’Inghilterra vittoriana, dai lugubri abiti neri o grigi, aggiunge un tocco luttuoso alla scena, ancor più fosco rispetto al variopinto mondo della Scozia della Rinascenza, ma le scene così buie e vuote, le stilizzate fonti che abitano il mondo desolato e lunare che circonda i protagonisti, la luce bianca e lattiginosa che non riesce ad illuminare gli ambienti vasti e spettrali, forzando le ampie ma opache finestre gotiche, la luce che non riscalda i cuori e le menti degli uomini, visione daltonica che, nel buio, assorbe tutti i colori del possibile tranne il sangue d’Arturo sull’abito nuziale di Lucia, non può, a ben vedere, che (co)stringere i due innamorati a coltivare nell’intimo loro inusitate e inesauste voglie d’albe che mai non s’alzeranno, inespressi desideri di sole, ansie mordaci di calore, smanie di gioia che si sente e non si dice, bramosie di luce a dar sfolgorìo ai giorni loro. Il mondo di Lucia, (co)stretta nel buio d’un universo tutto maschile è questo, nutre i propri rimpianti d’allucinate visioni di labirinti oscuri senza uscita, d’amori cresciuti sulle tombe desolate e gelide di ghiaccio e neve sperando in un futuro impossibile, di sospiri che si vuole attraversino i mari e le distanze e che invece s’infrangono contro la banalità del male, una falsa storia d’amore, un matrimonio combinato, la follia che salva, che preserva, che estingue per sempre. Ed è proprio la follia di Lucia che offre al regista Gilbert Deflo materiale per la direzione degli attori, soprattutto di Lucia: “le prime descrizioni del modo in cui gli stati d’animo producono effetti fisiologici risalgono al XVII secolo: le tavole di Le Brun offrono materiale fecondo e affascinante, che guida il regista nelle sue ricerche per il piano recitativo di un dramma barocco” afferma il regista nelle sue note di regia.

Come diceva George Simmel, tuttavia, la rappresentazione dell’anima da parte del barocco invariabilmente falliva, perché i mezzi meccanici non riuscivano a cogliere l’essenza della vita, illuminata com’era dal pieno lume della ragione: occorreva coglierla nel suo emergere da una irriducibile oscurità, origine della vita. “Due secoli dopo, l’iconografia fotografica di Charcot offre modelli di espedienti “teatrali” che possono applicarsi a meraviglia a Lucia: vi ritroviamo infatti il timore, i deliri e le movenze passionali”, conclude il regista. Il risultato è che le espressioni di Lucia risentono a questo punto della “teatralità” del gesto delle alienate di Charcot, plateale per definizione, teso com’è alla “fame di pubblico” che lo caratterizza – qualcuno ha notato perfino come il concetto stesso d’isteria come “spettacolo” che così bene veniva descritto nel secolo romantico, sia totalmente scomparso nell’oggi dell’anonimato e dell’incomunicabilità, preferendo il disagio mentale percorrere più che altro la strada della depressione – ed è logico che allo spettatore risultino alla fine esageratamente enfatiche, gonfie d’insolita e irrisolta artificiosità che è frutto dell’alienzazione della protagonista; oso pensare che anche il movimento delle masse, così innaturale nello schierarsi compatto e rigidamente ordinato del Coro – peraltro sempre puntuale – altro non risponda che a questa stessa esigenza di rappresentazione del delirio di Lucia. D’altra parte, invece, la direzione di Antonio Pirolli dell’ottima Orchestra del Teatro Petruzzelli si situa decisamente sul piano del risaputo, non tentando in alcun modo alcuna ricercatezza stilistica particolare: solo i tempi mi son sembrati piuttosto rallentati, destando qualche perplessità, ricercando invece per il resto un equilibrio che, se da un lato assicura esser scevro d’ogni possibile vizio, dall’altro tuttavia corre inevitabilmente il rischio d’una qualche non voluta monotonia, che poi è destino quanto mai immeritato per una partitura come questa.

Lucia è Elena Mosuc: siamo sul piano dell’identificazione tra personaggio e interprete ormai quasi perfetto, dato che Lucia è, ormai da anni, cavallo di battaglia della cantante. Quel che sappiamo è che per la fidanzata di Lammermoor, di cui, son certo, Donizetti s’innamorò perdutamente, occorreva una caratura musicale unica più che rara: bisognava conferire a questa ragazza una centralità musicale che facesse risaltare la sua propria scrittura musicale, concetto che noi oggi racchiudiamo – con stolida sicumera – sotto la comoda etichetta di “soprano drammatico d’agilità”, che non vuol altro essere che espressione, nel pieno della temperie romantica, della robustezza drammatica del nuovo secolo che avanzava, rifiutando le eco stilistiche del Settecento leziosamente e artificiosamente fiorito, ma che tuttavia potesse – ed eccezionalmente, ed in sovrana misura – rivelare, nel contempo, estraneità e inaccessibilità al mondo terreno: il disegno complesso della vocalità di Lucia compie disegni di trascendentale agilità, pirotecnica, imprevedibile, spiazzante. Occorre una cantante di non comuni doti, è sempre stato così, per rendere al meglio il personaggio: il soprano romeno è tutto questo e a Bari lo ha dimostrato ancora una volta. Anche Edgardo partecipa dell’eccezionalità di Lucia: ci vuole un tenore che sappia essere, al pari della sua compagna, impetuoso e tenero al tempo stesso, fungendo tuttavia da contraltare alla sovraterrena grazia della protagonista: un uomo vero, più che un figurino come spesso certi personaggi tenorili alla Manrico o Alfredo: il giovane Ivan Magrì ha provato con gran passione a ricoprire questo ruolo molto particolare, risultando alla fine convincente per slancio, intensità, passione, grazie al timbro lirico leggermente scuro della voce, dotato però d’un acuto svettante e brillante che è molto piaciuto al pubblico. Enrico è personaggio complesso, diviso tra la necessità di salvarsi la testa, l’odio atavico per Edgardo, l’amor di fratello (che comunque alla prova dei fatti facilmente sacrifica): nei fatti un cattivo per necessità che spesso non è facile rendere sul palcoscenico. Christian Senn ha offerto una prova senz’altro positiva: il suo Enrico non scade mai nella caratterizzazione e, in questo mondo di tenebre in cui è stato calato, insieme agli altri personaggi, ha provato ad approfondire, riuscendoci, il lato più nobile del personaggio, appena ha potuto, grazie anche alla bella voce piena e forte e alla grande espressività scenica.

Tutti i colori del buio di Lucia di Lammermoor
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Tutti i colori del buio di Lucia di Lammermoor

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×