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Portraits: Gus Van Sant

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Per i primi anni della sua carriera Van Sant è considerato un'icona del cinema indie. Già nel lungometraggio d'esordio, Mala Noche (1985), troviamo quei protagonsti ribelli e disadattati che popoleranno anche le sue pellicole successive. Così come i giovani tossici di Drugstore Cowboy (1989) vivono ai margini della società, i marchettari di Belli e dannati (1991) abitano in una condizione privata, intima, personale. Quello che vediamo risulta spesso essere un viaggio delle idee, un flusso discontinuo e di natura illusoria che sposta lo spettatore dalla sua indiscussa centralità. Dopo essere entrato in punta di piedi nel mondo delle Major con Da morire (1995), viene offerta a Van Sant la possibilità di girare l'ambizioso Will Hunting (1997), film che ne decreta a pieno titolo la credibilità commerciale. Grazie a questo successo il regista può lanciarsi in un ardito progetto, il rifacimento di Psycho (1998), non un remake ma un vero clone del classico hitchcockiano. Con Scoprendo Forrester (2000) infine si inizia a credere che il suo lavoro sia ormai inglobato all'interno del sistema normativo Hollywoodiano. Van Sant però non finisce di stupire e con Gerry (2002) inaugura una stagione di ardito sperimentalismo, una netta svolta che porta ad asciugare l'impianto narrativo, riducendo i dialoghi al grado zero verso una totale antitesi del racconto. Nel 2003 con Elephant tocca il punto più alto di questa nuova fase di assoluta libertà creativa arrivando a vincere la Palma d'oro a Cannes. La strada del cinema della durata verrà ripresa anche nell'estremo Last Days (2005), un film fatto di silenzi, parole vuote e azioni parallele montate in successione, tutte caratteristiche che ritroveremo anche nel successivo Paranoid Park (2007). Ma questa svolta radicale a quanto pare non è stata definitiva. Con Milk (2008) l'impianto narrativo torna a scorrere in modo lineare. Van Sant rinuncia al disordine mentale proponendo un film dal sapore convenzionale e apprezzabile anche da un pubblico di massa.



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