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C’è una cosa di cui dovete leggere: Porto Rico (36/50)

Il vero disastro a Porto Rico non lo ha fatto l’uragano. Lo ha fatto l’altro uragano.

L’uragano Irma è arrivato il 7 settembre, portando onde alte 9 metri e venti forti fino a 180 chilometri orari. Decine di persone sono morte ma soprattutto migliaia di case sono state distrutte o gravemente danneggiate; e più di un milione di persone, quasi un terzo della popolazione totale dell’isola, ha perso l’accesso all’energia elettrica. Poi è arrivato l’uragano Maria, ancora più devastante. La rete elettrica è stata completamente distrutta, per tutti; si va avanti con i generatori, chi ce li ha e finché non finisce il gasolio, ospedali compresi. Milioni di persone sono senza acqua potabile e senza cibo, o li stanno finendo. Anche le reti di comunicazione sono state distrutte o gravemente compromesse: il 95 per cento della rete telefonica cellulare è fuori uso, così come l’85 per cento della rete fissa.

Porto Rico è un’isola, ed è nel mare dei Caraibi.

(RICARDO ARDUENGO/AFP)

Che Porto Rico è un’isola vuol dire che attorno ha l’oceano: la Florida dista 1.600 chilometri, in linea d’aria. Ci si può arrivare solo via nave o via aereo, e sia i porti che gli aeroporti sono distrutti. Che Porto Rico è nel mar dei Caraibi vuol dire, tra le altre cose, che in questo momento dell’anno le temperature di giorno superano i 30 gradi, con un tasso di umidità intorno all’80 per cento.

La metà degli ospedali dell’isola che in qualche modo funzionano ancora ha accolto i degenti degli altri ospedali e le migliaia di persone che hanno bisogno di cure a causa dell’uragano; alcune sono arrivate in condizioni rese ancora peggiori dalla difficoltà di raggiungere l’ospedale stesso; o di scoprire quale ospedale fosse funzionante e quale no senza poter usare un telefono, senza avere abbastanza benzina per girarli tutti, o senza avere più fisicamente la strada da percorrere per arrivarci. Persino il 911, il numero delle emergenze, è ancora fuori uso: ma tanto pochissimi potrebbero usarlo.

Una donna di 81 anni è arrivata in ospedale alle otto della sera con gravi problemi respiratori; il giorno dopo alle due del pomeriggio non aveva ancora nemmeno un letto: solo l’ossigeno, su una sedia. Un uomo con un’ulcera a un piede dovrebbe essere operato, e ogni giorno che passa aumentano le possibilità di un’amputazione. Immaginate storie del genere, o peggiori di queste, moltiplicate per migliaia di persone. Quando c’è la corrente elettrica, si usa per attivare i macchinari di cui non si può fare a meno. L’aria condizionata mai, neanche nei reparti di terapia intensiva: le persone che stanno peggio – intubate o comunque in condizioni molto precarie – vengono messe davanti ai ventilatori, per dar loro qualche sollievo dal caldo; ma in queste condizioni diventa complicato anche far scendere la febbre ai malati di dengue. «È un forno», ha detto un chirurgo di San Juan, la capitale, a un giornalista del Washington Post. I medici e gli infermieri non hanno più turni: lavorano finché non crollano a terra in un angolo. Non tornano a casa per non sprecare benzina e perché non potrebbero essere ricontattati in caso di emergenza, visto che le reti telefoniche non funzionano. E pregano che il prossimo rifornimento di gasolio arrivi in tempo. In un ospedale di San Juan due persone in terapia intensiva sono morte quando è andata via l’energia elettrica. All’ospedale pediatrico di Santurce qualche giorno fa sono rimasti otto ore completamente senza energia elettrica: un ospedale pediatrico, senza energia elettrica.

Questa è la situazione dei malati, ma la verità è che i sani a Porto Rico non esistono più. In alcuni posti l’energia elettrica mancherà per mesi. Chi ha un generatore si arrangia, finché ha del gasolio, ma un milione e mezzo di persone è ancora senza acqua potabile. Per far bollire l’acqua non potabile bisogna accendere dei fuochi in un posto in cui ha appena piovuto quanto mai nella sua storia, oppure – di nuovo – serve l’energia elettrica; quindi alcuni la bevono senza farla bollire, perché non hanno gasolio o per conservarlo, col rischio che sia contaminata dalle carcasse degli animali morti che col caldo si decompongono in fretta. Lavarsi, ovviamente, è diventato secondario: ma questo fa aumentare il rischio che le malattie si diffondano, a cominciare da quelle fastidiosissime e gravi, se trascurate, come la congiuntivite. Fuori dai supermercati le code per il cibo sono lunghissime.

(RICARDO ARDUENGO/AFP)

Porto Rico fa parte degli Stati Uniti, ma non è uno stato americano. Tecnicamente è un “territorio non incorporato”, da anni in trattative per diventare il cinquantunesimo stato. I suoi abitanti hanno il passaporto statunitense ma non possono votare né per il Congresso né per il presidente: solo per il loro governatore. Ed è in bancarotta, Porto Rico: a maggio lo stato è andato in tribunale a dire che non può restituire i 73 miliardi di dollari che deve ai suoi creditori, soprattutto grandi società di Wall Street e fondi speculativi privati che lo avevano comprato a un alto tasso di interesse, ma anche le società che forniscono servizi come l’acqua o l’energia elettrica, che costruiscono le strade e le fogne, e i fondi pensionistici dei lavoratori. Dato che non è uno stato americano, Porto Rico non può godere nemmeno delle leggi sulla bancarotta statunitense, che tutelano gli enti pubblici che si trovano in circostanze del genere.

Le cose negli ultimi giorni sono leggermente migliorate: sono aumentati i rifornimenti di gasolio e così diverse stazioni di servizio sono tornate operative, davanti alle quali già in piena notte cominciano a formarsi le code; ma la priorità continuano ad averla gli ospedali, che sono ancora nelle condizioni di cui sopra. Al porto di San Juan sono arrivati 500 container pieni di cibo e beni di prima necessità, ma quattro giorni dopo quei beni erano ancora fermi al porto: non c’erano abbastanza camion su cui caricarli, né abbastanza carburante per riempire i serbatoi di quei camion, né abbastanza strade su cui farli spostare, né abbastanza supermercati non danneggiati da riempire di merce.

La risposta dell’amministrazione Trump finora è stata molto lenta: nel 2010 usando da subito l’esercito la Casa Bianca si mobilitò più rapidamente per aiutare Haiti dopo il terremoto. A Porto Rico il grosso di quello che ha mandato fin qui il governo, tra persone e beni, è arrivato solo una settimana dopo il primo uragano. Soltanto domenica dovrebbe arrivare un grosso carico di gasolio, insieme con 3 milioni di pasti e 2,6 milioni di litri d’acqua, dall’agenzia federale per la gestione delle emergenze. La cosa più importante che ha fatto Trump fin qui è stato sospendere il Jones Act, una vecchia legge che permette solo a navi americane di portare persone e merci a Porto Rico. Ma sono servite molte pressioni, perché l’industria statunitense dei trasporti navali non era contenta: infatti la sospensione varrà solo dieci giorni. Il presidente Trump visiterà Porto Rico martedì.

Questa settimana ho sentito per telefono un imprenditore italiano che ha un’attività a Porto Rico, e in questo momento si trova per sua fortuna al sicuro. Mentre mi raccontava di queste devastazioni, a un certo punto mi ha detto: «Sai, quando c’è stato il terremoto ad Amatrice, non hai idea di quante persone qui si sono offerte di dare una mano e hanno organizzato cene e raccolte fondi per mandare qualcosa in Italia. Ora apro le homepage dei siti di news italiani e di Porto Rico non si parla quasi per niente». La sindaca di San Juan ha detto: «Qui stiamo morendo». Più avanti parleremo anche delle conseguenze politiche che può avere questa crisi sul punto di diventare una catastrofe umanitaria; intanto vi consiglio di continuare a seguire soprattutto le notizie.

E a Washington?
La notizia politica della settimana a Washington non ha riguardato Porto Rico. Si è parlato soprattutto di due cose, entrambi molto importanti per l’amministrazione Trump: la riforma sanitaria e la riforma fiscale.

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