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Da MINIMA MORALIA – di T. W. Adorno

«NON ESAGERIAMO».

Alla critica delle tendenze della società attuale si obbietta automaticamente, prima ancora che sia stata interamente formulata, che le cose sono sempre andate così. L’indignazione – che viene prontamente respinta – testimonierebbe solo di una scarsa penetrazione nell’invariabilità della storia, di un’irragionevolezza superbamente diagnosticata da tutti come isteria. Si rimprovera, inoltre, all’accusatore, di volersi mettere in mostra col suo attacco, di ambire al privilegio del particolare, mentre ciò che suscita il suo sdegno è triviale e noto a tutti, e non ha senso pretendere che gli altri perdano il tempo ad occuparsene. L’evidenza del male torna a vantaggio della sua apologia: poichè tutti lo sanno, nessuno ha più il diritto di dirlo, e il male, coperto dal silenzio, può continuare indisturbato. Si ottempera al precetto che la filosofia di tutte le tinte ha martellato nelle teste degli uomini: ciò che ha dalla sua parte il peso costante dell’esistenza, ha dimostrato con ciò il suo diritto. Basta che uno si mostri insoddisfatto, ed è già sospetto come riformatore del mondo. L’intesa si serve di questo trucco: attribuire all’oppositore una teoria reazionaria della decadenza, che non potrebbe sostenersi – forse che, di fatto, l’orrore non si perpetua eternamente? –, screditare, col suo presunto errore teorico, la concreta percezione del negativo, e calunniare come oscurantista chi si ribella contro l’oscurità. E anche ammesso che le cose siano sempre andate così (ma né Timur o Gengis Khan né l’amministrazione coloniale inglese hanno organizzato la gassificazione di milioni di persone), l’eternità dell’orrore si manifesta nel fatto che ognuna delle sue forme supera in orrore la precedente. Ciò che perdura, non è un quantum invariabile di sofferenza, ma il suo progresso infernale: è questo il senso della tesi dell’intensificazione degli antagonismi. Ogni altro significato sarebbe innocuo, e si risolverebbe in frasi accomodanti, nella rinuncia al salto qualitativo. Chi registra i campi di sterminio come «incidenti sul lavoro» della vittoriosa spedizione della civiltà, il martirio degli ebrei come un episodio irrilevante nel quadro della storia universale, non ricade soltanto al di qua della visione dialettica delle cose, ma perverte il senso della propria politica: che è quello di imporre un alt all’estremo del male. Non solo nello sviluppo delle forze produttive, anche nell’aumento della pressione del dominio, la quantità si capovolge in qualità. Quando gli ebrei vengono distrutti come gruppo, mentre la società continua a riprodurre la vita degli operai, il richiamo al fatto che quelli sono borghesi e che perciò il loro destino è irrilevante agli effetti della grande dinamica storica, non sarebbe che un cavillo economicistico, anche nella misura in cui l’eccidio si potesse effettivamente spiegare con la caduta del saggio di profitto. L’orrore consiste proprio in ciò, che, mentre resta sempre lo stesso – continuazione della «preistoria» 142 –, si realizza continuamente come un altro, insospettato, superiore ad ogni attesa, ombra fedele delle forze produttive in espansione.

È proprio anche della violenza il duplice carattere che la critica dell’economia politica ha messo in luce nella produzione materiale: «Esistono determinazioni comuni a tutte le fasi della produzione, determinazioni che vengono fissate dal pensiero come universali, ma le cosiddette condizioni universali di ogni produzione non sono che… momenti astratti, con cui non si comprende nessuna fase reale». In altre parole, l’astrazione dello storicamente immutato non è – in virtù di una presunta obbiettività scientifica verso la cosa – neutrale, ma serve anche – dove coglie nel segno – da nebbia in cui sparisce tutto ciò che si potrebbe toccare e attaccare. Questo è proprio ciò che gli apologeti non vogliono riconoscere. Essi corrono, da un lato, dietro all’ultima novità, e dall’altro negano la macchina infernale che è la storia. Non si può stabilire un’analogia tra Auschwitz e la distruzione delle città-stato greche, e interpretarla come un semplice aumento graduale dell’orrore, aumento di fronte al quale si potrebbe conservare la pace del proprio spirito. È vero, tuttavia, che dal martirio e dall’umiliazione senza precedenti dei prigionieri deportati nei carri bestiame cade una luce terribilmente cruda anche sul più remoto passato, nella cui violenza cieca e disordinata era già teleologicamente implicita la violenza scientificamente organizzata di oggi. L’identità è nella non-identità, nel non ancora stato, che denuncia ciò che è stato. L’affermazione «è sempre lo stesso» è falsa nella sua immediatezza, vera solo attraverso la dinamica della totalità. Chi si lascia sfuggire la conoscenza dell’aumento dell’orrore, non ricade soltanto nella gelida contemplazione, ma si vieta di cogliere, con la differenza specifica del nuovo rispetto al precedente, anche la vera identità del tutto, del terrore senza fine.



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