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La parola VIP e la cultura dell’immagine

 

 

Non era più un Mondo con la stessa faccia quello che cullava nel suo grembo la parola vip; un mondo di uomini che accettano che vi sia qualcosa di sostanzialmente diverso tra loro è un altro essere umano, un mondo dove un uomo ammette di non valere quanto un suo simile.

Vip (Very Important Person), eccoli i nuovi dei, abitanti mortali d’un olimpo fabbricato ad hoc,  dove tutto è allestito come una scena imperitura e sempre in atto,  in cui si consumano esistenze che non esistono.

Un olimpo atto a generare immagini, icone, di mondi altri, fatati e lucidi, di mondi sideralmente lontani dal quotidiano vivere della plebaglia,  che ad esso s’accosta armeggiando riviste precise e copiose, che la nutrono dalle viscere del sogno, in notti di pioggia e solitudine, per fornirle un pretesto, un appiglio a cui aggrapparsi contro il naufragar d’un esistenza vacua.

Le divinità.

Girano con le guardie del corpo a riparo dalla plebaglia, si fanno vedere unicamente in occasioni prestabilite, giustappunto per lucidare la propria immagine opacizzata dall’assenza. Eppure senza quella plebaglia non sarebbero nulla, non sarebbero nessuno, non sarebbero per nulla importanti.

Senza la fila di gente che attende il suo ingresso, senza quei religiosi febbricitanti che sene stanno impalati per ore che s’apra il sipario, all’ingresso delle sue gambe suadenti, la tale Naomi Campbell, sarebbe della stessa altezza di quelli che stanno li ad attenderla e fatta della stessa materia di carne e sangue. Non altro che un essere umano come madre natura l’ha fatta.

Ad un certo punto s’è creata una distanza tale tra “noi” e “loro”, una distanza che è molto più distante di quella che c’è tra un cittadino e un clandestino, una distanza che scuce i piedi di questi esseri dalla terra ferma e li proietta nell’etere che sbrilluccica, in un mondo a parte, di fulgidi neon elettrici: loro sono l’apice del mondo dell’immagine, di quella superficie che non è altro che superficie, che se fosse acqua, al contatto con un sasso, manco s’intorpidirebbe.

Alcuni sociologi la chiamano la “ribellione Delle immagini”, un movimento di reazione alla vetusta cultura iconoclasta, la rivincita delle icone, nel cui cerchio confluiscono le tribù post moderne.

Obietto non  tanto il senso del concetto, obbietto piuttosto  il termine tribù (in quanto essa indica una società umana in possesso di una relativa omogeneità culturale e linguistica) e obbietto l’accezione positiva che il termine tribù conferisce al senso della “ribellione delle immagini”.

E allora bisogna tornare indietro per fare un salto in avanti….bisogna tornare a quel “genocidio culturale” di pasoliniana memoria (1977)

“Il nostro, come disse Sciascia, è un paese senza memoria e verità, e io per questo cerco di non dimenticare

e ancora

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” dell’ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana”.

Non si può dunque parlare di tribù in un mondo dove è in atto la perdita dell’identità culturale, la perdita della memoria storica, delle proprie radici, dove tutto è appiattito dall’edonismo consumistico, dove in ogni dove campeggiano gli slogan della pubblicità; non si può parlare di rivolta delle immagini in questo mondo, che di tutto “profuma” meno che di rivolgimento.

Questo è il mondo di un unico immenso paesaggio virtuale, in cui galleggiano icone e simulacri che non sono riferimenti ma comandi, di strade cieche che conducono sempre al medesimo luogo, di voci sempre uguali che non dissentono mai tra loro; il mondo delle ragazzine che per far parte di quel paesaggio, per volerne essere delle icone, divengono anoressiche o bulimiche, non accettando l’immagine di se e pretendendo di acquisirne una delle tante di quel mondo virtuale. 

Lo scopo di tutte queste maschere che raccontano bugie, il loro scopo ultimo, oltre all’appiattimento culturale e all’imputridimento del pensiero umano, è sempre solo uno: VENDERE.

 

Davide.



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