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Il nuovo romanzo di Pietro Grossi, "Orrore" all'italiana

(di LUCA RAIMONDI) Non appena ho visto su Facebook la copertina di Orrore di Pietro Grossi, il mio cuore ha sobbalzato. Non tanto per il titolo, di per sé banale (specie ricordando che soltanto pochi mesi fa Dario Argento ha raccolto i suoi racconti con il titolo Horror e prima ancora ha dato alle stampe la sua autobiografia Paura) o per la copertina tipicamente macabra, con al centro, su sfondo rosso scuro, un teschio di un animale (forse un cane), quanto per l’editore che ha proposto tutto ciò: Feltrinelli. Un grande marchio editoriale alle prese, almeno apparentemente, con un horror di un autore italiano, evento da sempre piuttosto raro (Cari mostri di Stefano Benni è uno dei pochi precedenti per la casa editrice milanese, anche se Benni fa decisamente storia a sé). Vuoi vedere che quanto è stato seminato dall’antologia I signori della notte da me curata (ricetta: bravissimi autori italiani alle prese con quel genere, innominabile nei salotti buoni della letteratura italiana) sta cominciando a generare dei buoni frutti? Che i suddetti salotti stiano cominciando ad aprire porte e finestre al fantastico, all’irrazionale, al fantasioso, al macabro, all’ignoto? Sì, certo, come no.
Non mi resta che leggerlo, questo Romanzo. Parte un po’ in sordina: le prime due pagine sono una sorta di lettera che un padre indirizza al figlio. Rievoca i primi “morbidi” mesi in cui lo cullava, lo teneva sul petto nella vasca o in braccio al bar. La madre sembra una ragazzina, ma è provvista però dell’innato istinto che la rende sicura di sé nell’adempiere alla sua funzione materna. “Eravamo contenti, ci piaceva ripercorrere le strade in cui la nostra storia era cominciata”. Un quadretto idilliaco, un incipit che sembra simile a tanti altri della nostra letteratura familista/buonista/borghese. Ma il romanzo si chiama Orrore e attendo fiducioso che le ombre si addensino su questa felice famigliola. Grossi non mi delude: di lì a poco, durante una cena con degli amici, si accenna a una casa abbandonata nel bosco. Gli amici, Diego e Lidia, raccontano di essere penetrati, per curiosità (comportamento che dai tempi di Barbablù genera conoscenza ma anche, appunto, orrore) in una vecchia casa dismessa nei pressi della loro, che stanno per abbandonare. All’interno, lo scenario inquietante che il lettore certamente si aspetta: una maschera di cartapesta provvista di corna demoniache, deposta su un tavolino privo di polvere in un ambiente dimesso, denso di muffa, fango, umidità; forniture ospedaliere di vario genere, che chissà a cosa son servite; un’altra maschera, malamente intagliata in una tanica cilindrica di plastica; una vasca in cui, chissà, forse hanno sciolto dei cadaveri; il disegno di un bambino raffigurante una casa sghemba e sproporzionata, come lo erano quelle del film sul dottor Caligari o dei racconti di Lovecraft, come lo era quella di Hill House nel celebre romanzo di Shirley Jackson. Penso anche ai disegni inquietanti della villa di Profondo rosso, sempre per citare Argento (e lo stesso l’autore lo fa esplicitamente a p. 67). “Qualunque cosa sia accaduta in quel posto non è normale”. Insomma, luoghi comuni del genere horror che mettono l’appassionato a suo agio: Pietro Grossi sembra fare sul serio, il romanzo gioca da subito e bene le sue carte provenienti dal mazzo del genere a cui il romanzo pare appartenere. Ma è lecito pensare che un pluripremiato autore per Sellerio e Mondadori di storie di formazione realistiche, minimaliste, introspettive, non si limiti a rimestare nei cliché. Comunque felice del fatto che una volta tanto uno scrittore italiano attinga alla cassetta degli attrezzi dell’horror, proseguo la lettura.
Il protagonista è uno scrittore, come in tante opere di Stephen King. A caccia di una storia per il suo prossimo libro, si getta a capofitto in un’indagine relativa a quella casa abbandonata, con una perseveranza che ha del folle, deciso a identificarne il proprietario. A questo punto il libro diventa una tradizionale e scorrevole detective story d’ambientazione nostrana che un po’ ricorda non solo i thriller di Argento ma anche alcuni film diretti (La casa dalle finestre che ridono, Il nascondiglio) o scritti (Dove comincia la notte) da Pupi Avati. Lo scrittore, sempre più ossessionato dalla sua “missione”, per alcune settimane ignora moglie e figlio di cinque mesi (non proprio un atteggiamento da marito e padre modello, come sembrava essere all’inizio), compiendo mosse dissennate come forzare serrature, spacciarsi per un geometra del Comune, appostarsi per giorni nei dintorni della casa, dormendo poco e perdendo peso, cose insomma per cui l’amico Diego si sente giustamente in dovere di apostrofarlo con termini come “coglione” o “deficiente”.
Non è il caso di spoilerare gli ulteriori passaggi della trama, che riservano qualche timido colpo di scena. Non posso ovviamente dire cosa mi ha lasciato perplesso del modo in cui i nodi della storia vengono sciolti (non tutti, in verità), vi basti sapere che il romanzo di Grossi è comunque una piacevolissima e rapida lettura, un buon intrattenimento che vola leggero almeno fin quando, nel finale, non si sente in dovere, al solito, di impartire sia pur fuggevolmente un messaggio morale, lasciando peraltro un po' troppe domande senza risposta.
Il finale, appunto, è la maggior debolezza del libro: sbrigativo e poco appagante, è destinato a deludere sia gli amanti dell’horror che del giallo (che alla fin fine quello è) e abbassa la media del giudizio critico. Grossi ovviamente scrive molto bene (e la notturna descrizione del bosco fa brillare le doti stilistiche dell’autore), peccato che ancora una volta l’elemento fantastico sia tranquillamente ignorato dalla nostra letteratura neo-neo-neo-realista ed è questo l’amaro in bocca che il libro lascia a chi, come me, auspica una maggiore apertura verso le sublimi vette sovrannaturali toccate da molti autori anglosassoni. Il problema è che anche come thriller realista argentiano/avatiano delude nell'epilogo (laddove invece La casa delle finestre che ridono, per dirne uno, sfiorava il sublime). Credo che un occhio Grossi l’abbia rivolto anche a Topor e a Polanski, autori l’uno del romanzo e l’altro del film da noi conosciuti come L’inquilino del terzo piano, ma la mancanza di lucidità nel tagliare il traguardo penalizza il risultato complessivo, a differenza del più recente romanzo italiano con una simile ispirazione, Gli annientatori di Gianluca Morozzi, i cui ultimi capitoli fanno accapponare la pelle come pochi altri, nella recente letteratura thriller nostrana.
Infine, un piccolo appunto di natura formale: i dialoghi rifiutano trattini, caporali o virgolette, vezzo autoriale di alcuni scrittori di alto rango, basti pensare ai romanzi di Tabucchi, Saramago o di Cormac McCarthy, ma in questo caso si perde un po’ di chiarezza (si fatica in certi passaggi a capire chi parla e a distinguere il narratore dai personaggi) e di conseguenza ne fa le spese la fluidità della lettura.


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