Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

EFFETTI COLLATERALI. La felicità non è di questo mondo

EFFETTI COLLATERALI

La felicità non è di questo mondo

Iannozzi Giuseppe

CULETTO A CUORE

Il sole era alto. Io avevo un gran sonno: per tutta la notte non ero riuscito a chiudere occhio. Pensieri, come serpenti nella testa. La luce mi dava fastidio agli occhi, tanto che fui costretto a mascherarli con un paio di occhiali da sole molto scuri.
La incontrai. Io non la riconobbi. Era passato tanto di quel tempo. Dio! Non sapevo neanche quanto. Fu lei a riconoscermi. Teneva per mano due bambini, entrambi taciturni, con il broncio, quasi fossero in collera con la madre.
“Tu sei Marco. Non sei cambiato.”
“Non mi ricordo di te…”, ammisi senza vergogna.
“Cristina.”
“Non mi dice nulla questo nome. Mi spiace. Forse ha sbagliato persona.”
“Non sei Marco A.?”
“Sì, sono io.” Mi sforzai di pensare. Ma niente. “Non mi ricordo di te.”
“Sono quella che ti prendeva per i fondelli.”
Una fitta lancinante alla tempia destra: “Scusa, di te non mi ricordo. Poi questa notte non ho dormito e ho una emicrania della madonna. Perdonami.”
La lasciai così, di sasso: una donna con due bambini e un mondo di solitudine dentro.
Non era più la Cristina che avevo odiato, era sol più una cicciona, i fianchi sformati, e trenta chili di troppo come minimo. Non ce l’aveva più il culetto a cuore, quel fondoschiena per cui un tempo tutti i maschi le morivano dietro. Era una donna con due figli, e divorziata: ce l’aveva scritto in fronte.
Tornato a casa buttai giù un’aspirina. Mi appoggiai sul letto e dormii come un bambino.
Alla sera era fresco e riposato. Tirai su la cornetta del telefono, aprii la rubrica, cercai il numero d’una sciacquetta mozzafiato che avevo conosciuto una settimana prima a teatro.

IN PULLMAN

Sul pullman è sempre un gran pigia pigia, non si sa mai dove mettere piede; uno sta in piedi col terrore di calpestare la coda o d’un cane lupo o il quarantasei d’un piantagrane. Sul pullman bisogna stare sempre con gli occhi ben aperti; se qualcuno con mano di velluto ti accarezza il sedere non è per una proposta indecente, ma solo per sfilarti il portafogli di tasca. I taccheggiatori sono la norma nelle ore di punta e no, e coglierli in fallo è più difficile che camminare sulle acque a piedi nudi. Bisogna poi stare attenti alle nonne, che pur avendo tutt’e due i piedi nella fossa affollano i mezzi pubblici per farti dispetto o per andare a trovare il marito al cimitero. Fragili e inacidite dalla vita, non risparmiano mai di azzannare alla giugulare il primo malcapitato. Inutile sottolineare che una volta azzannati da una nonnina con la dentiera è d’obbligo chiamare il 118, sperando che facciano in tempo ad arrivare con l’antirabbica in siringa. Il più delle volte l’ambulanza non arriva in tempo, e il poveraccio che è stato morso dalla vecchina può solo pregare che la morte sopravvenga veloce e senza troppo dolore. La verità è che per viaggiare in pullman ci vuole non meno coraggio di Sandokan. Il povero Salgari, morto suicida oppresso dai dediti, non avrebbe mai potuto immaginare una cosa tanto abnorme come la giungla cittadina, di questo sono sicuro.

EMORRAGIA CEREBRALE

Mi venne incontro.
A occhio non aveva niente che non andasse. Esso era uno dei tanti. Il paese n’era pieno. Troppo.
Fummo a dieci centimetri di distanza l’uno dall’altro. Potevo sentire il suo alito, puzzolente di couscous e di carne macerata. Ne aveva ancora dei pezzetti infilati fra le commessure dei denti.
Un sorriso largo e bianco, più dell’avorio. Le nari erano invece orrende a vedersi, dilatate: pareva non riuscisse a respirare bene. Gli occhi erano grossi come due uova di piccione, iniettati di sangue, spiritati, e sulla fronte sottili rivoli di sudore tessevano una ragnatela: compresi che aveva la scimmia, e che non era normale, però rimaneva uno dei tanti.
Mi parlò, con calma studiata. Doveva essersi preparato il discorso prima.
Cercava di tenere la calma, e ci riusciva discretamente. A tradirlo però gli occhi, la fronte, e le mani chiuse a pugno lungo in fianchi. Quei pugni neri come il carbone minacciavano più degli occhi, che invece riposavano dentro al cranio perfettamente rasato a zero.
Gli dissi che non avevo spicci.
Fu allora che i suoi pugni scattarono. Mi presero in pieno volto.
Nel breve tempo d’un lampo davanti agli occhi m’apparve la morte, nera e straniera: i miei sogni, quelli della notte appena passata insieme alla mia ragazza e quelli a occhi aperti che si fanno mentre si cammina per strada senza una meta precisa, tutti mi passarono davanti. uguali a una pellicola sgranata prossima a spezzarsi.
Cercai di rialzarmi nonostante il dolore pulsante alle tempie che me le trapanava.
Caracollai e caddi sul sedere.
Prima che potessi rendermene conto soffocai. Un calcio mi aveva raggiunto al petto, e poi un altro alla schiena e un altro, in rapida successione.
Dovevo avere almeno un paio di costole rotte, come minimo, e una, poco ma sicuro, doveva aver perforato il polmone.
La vista mi si annebbiò.
Potevo vedere la sua faccia. Non c’era odio. Io perlomeno non ce lo vidi in quel frangente, né scorsi segno alcuno di altro umano sentimento. Non era lì ad ammazzarmi per dirsi assassino, nichilista o rivoluzionario. Semplicemente mi stava facendo fuori perché non avevo spicci da dargli: puro istinto animale enfatizzato dalla scimmia. Voglio dire: esso era un animale che si accaniva contro un altro animale, io.

Non ripresi mai conoscenza.
Mi svegliai, se così si può dire, che ero già morto da un pezzo.
L’obitorio è un posto freddo.
Per un momento temetti d’essere finito sul serio all’inferno o in purgatorio. E invece no.
Morendo non intravidi nessuna luce bianca.
Mi spensi e basta.
E adesso sono morto, spacciato, un corpo freddo più del marmo.
Mi ci volle poco a realizzare che non esisteva alcun paradiso né nient’altro di simile.
Ero lì perché qualcuno venisse a riconoscermi, poi sarei stato inumato e il mio cadavere sarebbe diventato albergo per vermi e scarafaggi.
Non ci sarebbe stato espianto di organi: non ho mai firmato alcuna liberatoria. Perché qualcuno dovrebbe smontarmi come un’auto? Sempre stato contrario. Non mi sono mai pensato come una macchina che quando non va più bene si cerca di vendere quei pezzi che possono ancora andare per rimontarli su altre carrozzerie. Mai stato così idiota… generoso.

Fa freddo. Dev’essere pieno di cadaveri questo posto, d’altronde è per questo che l’hanno tirato su. Un obitorio è un po’ come un cesso, alla fine scappa a tutti. Puoi resistere poco o a lungo, ma alla fine non c’è scampo! Fossi vivo e vegeto, a una battuta così morirei dalle risate.
Il passato è passato. Non c’è niente da fare.
Adesso sono qui, è questo il mio presente, seppur breve.
Esisto?
Non penso. Ci sono ancora dei pensieri, delle debolissime reazioni chimiche ed elettriche nel mio cervello, ma non sufficienti per essere registrate da un EEG.
Sono morto. Non pensavo che potesse accadere, non così presto in ogni caso.
Chissà se poi quel negro l’ha beccato la polizia! Non sono ottimista. Un negro, per giunta drogato, non è al centro degl’interessi della comunità.
Sarò già finito nella Cronaca Nera, in un trafiletto dove un anonimo giornalista, che si firma solo con le iniziali, spiega che in Via Milano, in pieno centro, in mattinata, è stato ritrovato il cadavere d’un maschio bianco. Quasi sicuramente scriverà che io, il cadavere, avevo sempre avuto una vita tranquilla, fedina penale pulita più del culetto d’un neonato, una persona a modo sempre affabile con tutti, mai un bisticcio, nessun rapporto ambiguo, insomma il ritratto del perfetto borghese. Forse i miei vicini diranno parole buone nei miei confronti, di convenienza, forse no. Forse manifesteranno la loro finta rabbia lungo le strade della città armati di urla e di striscioni con su scritto: “Più sicurezza per i cittadini. No alla delinquenza.”
Mi chiedo quanti di questi cadaveri hanno ancora un qualche rimasuglio di pensiero nella scatola cranica. Sarà divertente scoprire quando anche l’ultimo pensiero si spegnerà, e addio.
Per il momento cerco di non pensarci: quando sarà il momento dell’ultimo pensiero, allora… per il momento meglio pensare ad altro. Peccato non potersi muovere: non posso sgranchirmi neanche le dita dei piedi. Mi prudono e poi li sento così freddi. Non c’è rispetto per chi diventa un cadavere, proprio nessun rispetto.
La mia ragazza, mi piangerà? Dovevamo sposarci. Era stato fissato per il prossimo anno il matrimonio. Non avremmo fatto le cose in grande. Lei parlava già di volere un figlio. O anche due. Io glissavo sempre quando prendeva l’argomento: una nausea mi prendeva, come quella di Sartre! Per il resto andavamo d’amore e d’accordo, tanto più che io non gliel’ho mai detto chiaramente che non ero affatto entusiasta di mettere al mondo dei figli. Sarebbe stato un bel matrimonio, lei in bianco, io con un bel vestito nero e una camicia di seta bianca coi gemelli ai polsi. Adesso le toccherà di trovarsi un altro bravo ragazzo, e i figli li farà con lui, maledetto!
Ricordo mio padre: non amava né rispettava la mamma. La mamma lo tradiva. Dopo aver scoperto che mio padre, quel gran figlio di buona donna, se la faceva un giorno con una e quello appresso con un’altra, pure lei aveva preso il vizio di ficcarsi nei letti altrui. I miei andarono avanti così sin verso i cinquanta, poi divennero troppi vecchi per chiunque, nessuno li voleva più. A cinquant’anni, dopo trenta anni di matrimonio, stavano ancora insieme. Sapevano tutto, dei loro tradimenti soprattutto. Cominciarono a provare un po’ di affetto l’uno per l’altra. Non amore. Col tempo non è poi assurdo pensare che si sarebbero pure innamorati, ma il destino è stato infido con loro. Un incidente automobilistico ha fatto fuori la loro seconda vita, evitandogli così il disturbo d’arrivare alla vecchiaia. E’ incredibile quanta gente muore così, per colpa d’un ubriaco alla guida o d’una strada troppo pericolosa con la neve. Non mi piangeranno, almeno questa noia gliel’ho risparmiata ai miei vecchi.

E’ un vero peccato, non si può comunicare con nessuno. Questi sono gli ultimi spiccioli di vita, che nemmeno la medicina sa riconoscere, e non c’è un cane con cui condividerli.
Ce l’aveva un motivo per ammazzarmi a quel modo quel negro?
Glielo avevo detto che non avevo spicci né altro con me. Ma quello non aveva orecchi. L’istinto d’ammazzare l’ha preso e l’ha sfogato su di me.
Questa è sfiga. Fossi stato almeno razzista. E invece, in vita mia mai che mi sia interessato di questioni razziali o che abbia parteggiato per qualche fazione politica. Mai.
Ma ora che lo so d’essere spacciato un pensiero mi sta spaccando letteralmente il cervello in due: ma quel diavolo d’un negro doveva proprio accanirsi su di me? Chi li ha fatti entrare tutti questi negri nel mio Paese, e perché?
Ecco, me ne andrò così, senza sapere perché il mio Paese m’ha assassinato per mano d’un negro drogato. Fosse stato un compaesano a farmi fuori ci sarei stato male lo stesso, ma per mano straniera, porco giuda!, non è ammissibile. Sì, adesso mi scopro razzista. E’ troppo tardi. Sono le ultime deboli reazioni elettriche del mio cervello.

Sono in due.
Li sento.
Le loro voci ovattate.
Stanno portando dentro qualcun altro. Una giovane, mi par di capire.
Due romeni, forse tre, non si sa bene, l’hanno prima violentata, poi le hanno preso i pochi spicci che aveva nella borsetta e le hanno stampato il cric in faccia. L’hanno creduta morta e l’hanno fatta rotolare giù, lungo una scarpata. Ma non era morta, non del tutto. Qualcuno ha visto il corpo e ha chiamato la polizia, che a sua volta ha chiamato l’ambulanza: in ospedale ci è arrivata in coma profondo, emorragia cerebrale. Hanno provato ad allentare la pressione del sangue: il neurochirurgo le ha asportato parte della calotta cranica. Sembrava che ce la potesse fare, ma dopo poche ore un’altra emorragia e un’altra operazione. Condizioni critiche, nemmeno un miracolo! Dopo poche ore il suo cuore ha cessato di battere. Chi l’ha portata dentro dice che i genitori sono disperati, che non si danno pace, il padre soprattutto piange la sua principessa: ha promesso sul corpo della figlia morta che se la giustizia non avesse fatto presto giustizia se la sarebbe fatta con le sue mani. Non è per il perdono, non sa cosa significhi, non vuole… non può perdonare quello che hanno fatto alla sua principessa. Non aveva ancora diciotto anni. Non aveva ancora cominciato a vivere sul serio e le hanno fatto una cosa così orribile. No, non ne vuole che sapere di perdonare: lui sarà in prima fila, li farà secchi con le sue mani, almeno questo lo può fare per la sua principessa. “Non lo fermeranno”, dice uno di quelli che ha portato il cadavere: “Ce l’ha scritto sulla fronte che li vuole stecchiti. Non lo fermeranno. Poi magari si sparerà un colpo. Ma non ora. Ha la sua vendetta da portare avanti.” E quell’altro: “Credi che lo farà veramente? Lo dicono tutti quelli che gli capita una tragedia così. Poi piangono davanti ai tribunali e morta lì.” Ma il collega non è della stessa opinione: “Questo qui è diverso. Non è un uno tutto pizza e mandolino, è un americano che ha sposato una italiana. Quello li fa fuori, te lo dico io.”
Le voci si fanno sempre più distanti.
Credo proprio che sto per spegnermi del tutto.
Mi piacerebbe davvero sapere se poi quell’americano li farà fuori quei bastardi che gli hanno portato via la sua principessa. Prego che li faccia fuori.
Mi sto spegnendo.
Nessuna luce bianca.
Niente di niente.
Quando si muore si muore.
Ma io prego che quel padre li faccia fuori quei bastardi. Prego, anche se non c’è nessuno in cielo né nelle viscere della terra. Prego perché il sangue sia lavato con altro sangue.
Adesso lo so con assoluta certezza: la morte è la fine di tutto.
L’unica giustizia che l’uomo può farsi è quando è in vita.
Adesso che ci penso ho lasciato un po’ di conti in sospeso. Nessuno li chiuderà per me.
Sono stato uno stupido su tutta la linea. A quel cazzo di negro gli avrei dovuto tirare un calcio nelle palle, no, meglio due, uno dietro l’altro. Dicono che ce l’hanno più grosso dei bianchi, quindi il dolore lo avvertono in misura… minore o maggiore? Avrei dovuto tirargli due calci forti e in rapida successione. Non avrei dovuto lasciargli il tempo d’aprire bocca. Il suo alito, puzzolente di couscous e di carne macerata, non avrebbe dovuto mai sfiorare il mio olfatto.
Ho sbagliato.

Nessuna luce.
Niente di niente.
Solo il labile filo dei miei pensieri. Dopo c’è il niente. Si nasce da un ventre materno, si muore per diventare parte integrante del niente, che è sempre esistito da prima dell’uomo e di qualsiasi dio pensato e immaginato, costruito a nostra immagine e somiglianza.
Dovrei essere terrorizzato, ma non me lo posso permettere. E poi non servirebbe. Forse lo sono terrorizzato, ma il corpo morto non ne accusa i sintomi. Sono sol più un filo di pensiero che si sta per estinguere, una miccia che non farà saltare in aria nessun barile di polvere da sparo. Il mondo andrà avanti senza di me. Il mio corpo sarà per la putrefazione, resterà solamente lo scheletro; poi, anche quello verrà levato dalla tomba e buttato in un anonimo ossario già pieno di milioni di altre ossa marcescenti.
Dovevo metterlo per iscritto che volevo essere cremato, le ceneri al vento e morta lì.
Sono in ritardo per tutto e sono già parte integrante del niente assoluto. Come se mai fossi esistito.

CAMPI DI  NEBBIE

Arrivai sul posto che sopravvivevano ancora le brume della notte.
C’era una nebbia forte che si appiccava alla pelle. Aliti freddi lambivano con malizia le mie gote ancora odorose di dopobarba.
L’avevano ritrovato nel punto esatto dove tenevo piantati i piedi l’uno accanto all’altro, da bravo soldato che solo risponde a “credere obbedire combattere.” Ma la verità è che non ho mai partecipato né a destra né a sinistra: al servizio di leva ho preferito il servizio civile, e fosse stato possibile avrei saltato a piè pari pure quello.
Il cadavere l’avevano disseppellito. Un contadino aveva visto qualcosa in mezzo alla nebbia padana. Così, di primo acchito, gli era sembrato un arbusto. Solo avvicinandosi aveva scoperto che in realtà era un braccio, o meglio il poco che ne rimaneva. In avanzato stato di decomposizione, la poca carne che era rimasta appiccata alle ossa bianche era stata beccata dai corvi, con tutta probabilità. Per poco quel villano non si era preso un colpo.

Quando l’hanno tirato fuori dalla terra il cadavere era nero, una mummia. C’era ben poco da vedere e capire. L’autopsia aveva stabilito che la morte era avvenuta circa un mese prima del ritrovamento del corpo: femmina bianca sulla trentina, sicuramente una donna europea, forse italiana, nient’altro. Era stato stabilito che aveva ricevuto un paio di colpi in testa, che erano quelli d’un martello: ma vicino al corpo non era stata trovata l’arma del delitto. Nonostante le ricerche non fu possibile risalire all’identità della donna. L’omicidio sarebbe stato presto archiviato fra i tanti insoluti, in un cimitero di verbali.

L’alba non era ancora spuntata. Milano in lontananza però già pulsava di nervosismi palpabili: la vedevo, un grumo di cemento grigio debolmente illuminato.
Il cellulare squillò. Presi la chiamata, ma non rispose nessuno: ID sconosciuto.
Farfugliai fra me e me un vaffanculo e tornai ai miei pensieri, al perché ero in quel posto dimenticato da Dio ma non da alcuni figli di puttana… Più mi guardavo intorno più capivo che se volevo commettere un assassinio e seppellire il corpo quello era il luogo adatto.
Io non avevo nessuno che meritasse d’essere ammazzato. Pochi amici, di conseguenza pochi nemici, forse nemmeno uno. In effetti la mia vita sociale era uguale a zero, solo qualche saltuaria uscita alla sera coi colleghi di lavoro, per una birra o due.
Cominciai a scavare la terra con il piede, per noia.
La terra veniva via facile.
Tutto intorno era così. Terra e altra terra, campi in un bagno di nebbia che ti bagnava il viso.
Tirai un calcio, con più rabbia che noia e venne fuori qualcosa, un corpo morto simile a una colomba. Lo presi in mano, era un diario. Lo aprii. Era scritto fitto fitto. Poesie. Una calligrafia femminile. Doveva averle scritte l’assassinata senza nome. Non c’era altra spiegazione.
Quando la polizia aveva battuto l’intorno in cerca di indizi, d’una seppur debole traccia, di qualsiasi cosa che potesse indirizzarli, al solito si erano limitati a mostrarsi operativi davanti alle bocche affamate dei giornalisti. In realtà avevano fatto un giro intorno alla fossa e morta lì.
Il diario di poesie era stato sepolto ad appena un paio di metri dalla buca dov’era il corpo senza identità. Lo sfogliai rapidamente. Nessuna poesia era firmata. La prima pagina non recava alcuna indicazione utile: era stata lasciata in bianco. Tutte le pagine accoglievano una poesia, una scrittura minuta ma chiaramente femminile. Mai un titolo o una numerazione. Per ogni pagina una poesia e così fino alla fine. Il diario era perfettamente anonimo, uno di quelli che in cima alla pagina riportano mese giorno anno e fasi lunari. Nient’altro. Un diario anonimo come milioni ce ne sono al mondo.
Prima ancora di leggere avevo capito che quelle pagine erano di poesia.
Non l’ho mai sofferta la poesia.
Seppur i tempi della scuola dell’obbligo fossero lontani, ricordavo che non ero una cima: quando riuscivo a mettere giù due righe per il tema in classe era un alleluia, e non solo per l’insegnante. Finite le scuole dell’obbligo non presi più in mano un libro, nemmeno le Pagine Gialle. I libri e tutte le loro immonde verità erano per me morte e sepolte.
Ed ora questo diario di poesie scritto da una che era morta.
Il cellulare squillò di nuovo. Al secondo squillo gridai un pronto!
Nessuno. O meglio: due secondi, forse un respiro dall’altra parte, ma non posso esserne sicuro, il segnale era quel che era, disturbato. Qualcuno mi aveva chiamato per sentirmi gridare pronto e poi riappendere. L’aveva fatto già due volte. Non era uno che aveva sbagliato numero. Non era caduta da sé la linea. Io ne ero più che certo.
Le poesie erano in italiano.
Avrei dovuto leggerne almeno una, ma non lo feci.
Nemmeno per dovere.
Però non seppellii il diario. Sarebbe stato facile far finta di nulla.
La nebbia non voleva che saperne di scemare e l’alba tardava.
Mi passai una mano sul volto contratto. Mi sentivo già stanco e la giornata non era ancora cominciata. Nella speranza di incontrare una lama di luce, portai lo sguardo a orto. Niente di niente a parte un mare lattiginoso. Non mi sarei sorpreso se, da un momento all’altro, da tutto quel bianco fossero emerse delle creature spettrali. Mi strinsi nelle spalle: non credevo fosse possibile una cosa del genere, e soprattutto non credevo in un aldilà. La comunione non la feci che molto tardi: a catechismo ero un’autentica frana, neanche un amen riuscivo a digerire. E più non riuscivo più mi ostinavo a non voler imparare. Inutile dire che in chiesa non sono ben visto proprio in virtù del fatto che non mi faccio vedere davanti all’altare neanche a ogni morte di papa.
Di nuovo il cellulare.
Di nuovo immaginai che dall’altra parte ci fosse un respiro. Due secondi, non di più, poi più niente.
Seppellii il cellulare in una tasca.
La nebbia non accennava a morire, e io sentivo le membra pesanti di stanchezza.
Feci per tornare indietro, alla macchina.
In mano tenevo il diario di poesie. Mi pesava. Come piombo.
Non lo so per quanto camminai, però a un certo punto fui sicuro d’essermi perso. Tutto intorno non c’era che nebbia. Milano con il suo grigiore era scomparsa del tutto dal mio campo visivo.
In un posto così, isolato e lontano dalla civiltà, è facile lasciarsi prendere dal panico.
E’ facile lasciarsi prendere alle spalle.
Non ero turbato: non sono mai stato uno facile ai sentimenti, né a provarli né a dimostrali a chicchessia.
Nessuna paura per la morte.
Pensai il suo nome: morte.
Era la prima volta nella vita che pensavo a quel nome ma non alle sue conseguenze. Ero come un mulo: avrebbero potuto spararmi in testa e non avrei battuto ciglio.
I tre o quattro amici che ogni tanto mi spingono in società me lo ripetevano spesso che ero proprio un mulo: non provavo né amore né odio.
Il cellulare squillò.
Non era possibile, non ci sarebbe dovuto essere campo.
Mi strinsi nelle spalle e risposi.
Questa volta qualcuno rispose.
Una voce mi rimproverava: “Perché non hai letto le poesie?”
Farfugliai che non mi piacevano.
“Cosa?”
”Intendo che la poesia non mi piace. Tutta la poesia.”
Ci fu un silenzio di due secondi esatti. Ero già pronto a seppellire il telefonino nella prima tasca libera dei pantaloni, ma la voce non aveva riattaccato: “Per questo morirai…”
“D’accordo.”
In gergo avevo ricevuto una minaccia di morte. Non ne ero spaventato. Io cercavo solo la mia macchina: dovevo finire ancora di pagare le rate. Ma se c’era un modo per farla franca e tenermela a me non sarebbe dispiaciuto.
“Forse non hai capito: morirai, qui, adesso.”
“D’accordo.”
Silenzio.
“Non ti spaventa la cosa?”
“No.” Ero sincero e chiunque ci fosse dall’altra parte doveva aver percepito che non stavo bluffando.
“Tu, per dio, lo sai che cos’è la morte?”
”Non ci ho mai pensato.”
Di nuovo silenzio.
“Un mulo ha più cervello di te.”
“Non sei la prima persona a dirmelo.”
”Non sono una persona!”
”D’accordo. Allora diciamo che me l’hanno già detto.”
“Non vuoi sapere con chi stai parlando.”
”ID sconosciuto.”
“Nessuna curiosità?”
“Posso farne a meno della curiosità.”
“Non ti senti strano?”
“Stanco.”
“E?”
“Basta. Solo stanco, molto stanco.”
“E, come mai secondo te?”
”Non avrò digerito bene. Se arrivo alla macchina, butterò giù un paio di pasticche. Mi capita di non digerire, il dottore dice che sono rallentato ma che non c’è motivo perché debba preoccuparmi.”
“Il dottore dice questo di te?”
“No, del mio stomaco. Credo almeno! Ora potresti riattaccare, per favore?”
“E perché?”
“Allora non riattaccare. Per me non fa poi differenza.” E così dicendo mi cacciai il cellulare in tasca.
Se non fossi riuscito a uscire da quel mare di nebbia nessuna donna mi avrebbe pianto: mai avuto una fidanzata o una puttana che ci tenesse un minimo a me. Non che io abbia mai fatto niente per meritarmi dell’affetto sincero, del resto.
La nebbia era aumentata. Adesso non vedevo la punta del mio naso.
Un immenso silenzio era l’unico rumore, non un frusciare di ali, nemmeno quello dei corvi.
Distrattamente aprii il diario.
Che strano! Le poesie erano leggibili, come se vivessero d’una luce propria.

Quando mi svegliai, perché dovevo essermi addormentato, la nebbia era scomparsa.
Ero in un boschetto povero povero, di alberi scheletrici. Il sole era alto e picchiava forte.
Il diario era accanto a me, aperto sull’ultima poesia. Lo raccolsi.
Pensai che una storia così non accade tutti i giorni e che avrei potuto raccontarla al bar, magari aggiungendoci dei particolari tenebrosi.
No, non era il caso. Non mi è mai piaciuto parlare, men che meno di me.
Un sentiero. Lo seguii a testa china. La stanchezza era passata.
Dieci minuti, non di più, ed ecco l’auto posteggiata. Non l’aveva toccata nessuno. Era solo bagnata: colpa della nebbia.
Il cellulare ce l’avevo ancora in tasca: lo tirai fuori, lo accostai all’orecchio. Era ancora in linea.
Rimasi ad ascoltare quella voce per un po’, poi sbottai: “Vaffanculo!” E chiusi la conversazione.

Due giorni dopo, a rapporto dal gran Capo: le indagini erano a un punto morto. Il diario non era servito a un bel niente. Ma questo lo sapevo già da me senza che ci fosse bisogno d’una testa di cazzo a confermarmelo.
“Io ci capisco poco di poesia, ma a me sembrano buone. Peccato.”
“Lei ci capisce poco, io non so che sia una poesia.” Sbruffai: “Le faccia pubblicare.”
“Sono delle prove.”
”Senza nome.”
“E come le dovrei far pubblicare?”
“Non è detto che gliele pubblichino… ci tenti. Se non altro non sarà morta per niente.”
”Magari non voleva che venissero pubblicate.”
”Oramai è morta, ammazzata. Due colpi di martello. Dei balordi l’hanno sepolta in un campo. Un villano l’ha ritrovata. E’ stata riesumata. E’ stata sottoposta a una approfondita autopsia. Non è stato trovato nessun elemento utile alle indagini. Le devo forse ricordare che quella poveraccia, chiunque fosse, è morta a Milano?”
“Già, a Milano. Mica a Vienna o a Londra.”
“A Londra ci piove. A Vienna, non lo so. Ma a Milano c’è la nebbia, anche in estate.”
”Che diavolo significa? E perché te la prendi tanto a cuore? Non ti ho mai visto così… agitato.”
Sbruffai. “Le pubblichi, ci tenti…”, tagliai corto.

Un mese dopo il diario aveva trovato un editore.
Mi trovavo al bar, Carletto mi aveva tirato per la giacca perché gli facessi compagnia.
Il cellulare. ID sconosciuto.
“Sì, pronto!”
“Morirai. Ma non oggi.”
”Che novità!”
“Sempre la solita testa di mulo.”
“Immagino di sì.”
“No, tu non immagini.” Una pausa. “Le hai lette?”
“Non tutte”, ammisi
”E’ un inizio.”
“Ho bisogno di tempo… e poi con la poesia non me la cavo…”, farfugliai. Ero sincero.
“Sì, lo so. Eri l’ultimo della classe. Una vera tragedia.”
“Già.”
”Non sei sorpreso. Anche da bambino eri così. Poteva finire il mondo che tu non avresti fatto una piega.”
“Già.”
”Sei sempre stato uno di poche parole. Avevo un debole per te, ma tu non hai mai voluto accorgerti di me che ti morivo dietro.”
“Adesso è troppo tardi.”
“Potresti scrivere due righe per la prossima edizione…”
“E se dico di no, morirò?”
“Può darsi.”
“Mi ci vorrà del tempo. Non sono bravo a scrivere.”
“D’accordo.”
Annuii.
Carletto mi prese per pazzo. Quella telefonata non aveva né capo né coda.
“Chi è stato? perché?”
“Ti devo lasciare.”
All’improvviso mi sentii troppo solo. Era la prima volta che soffrivo di solitudine a Milano.
“Chi era?”, s’informò Carletto.
“Una che non puoi conoscere. Comunque non morirò.” Ruttai, poi sputai fuori un frammento di spiegazione: “Domani forse, oggi però no. Prima o poi… tocca a tutti. Ma di notte Milano è un vero schifo. Come la birra che servono qui.”
E buttai giù, a grandi sorsate, la mia birra sotto gli occhi bovini di Carletto.

IL CICCIONE

Ero sul treno – già, pure a me tocca di prenderlo di tanto in tanto – e mi si avvicina uno: “Tu sei…” Poi, sputa: “E’ libero qui?”
Gli faccio cenno di sì col capo.
Ero così tanto grasso che ha preso due posti con quel suo grosso culo flaccido.

QUEI PELATI!

Un mio amico è un po’ tocco di testa. Ama i pelati, meglio se col cranio rasato a zero.
Ama leccargli la testa con la lingua. Dice che per lui non c’è niente di più erotico.
Il mio amico è un bravo ragazzo ma pazzo: se ti mette la lingua sulla pelata, non te lo scolli più finché non ti ha fatto lo shampoo con la saliva.
Ogni volta che lecca una testa calva, lui ha una erezione: eiacula nelle mutande e mentre viene appiccica le sue labbra al cranio dello sventurato come fossero una ventosa.
Un giorno gli ho chiesto perché gli piace e lui mi ha risposto che la gente non si rende conto di quante teste di cazzo ci sono in giro a piede libero. Gli ho consigliato di fare dei più normali e intimi pompini, e mi ha mandato a quel paese: “Una pompa te la fa chiunque. Che ci vuole a ficcarsi una cappella in bocca?”
Ho fatto spallucce: mai provato a prenderlo in bocca. “Non lo so.”
“Io ho provato. Ti vengono in bocca e morta lì. Vuoi mettere con una bella leccata! La lingua che scivola sulla pelata. Un giorno riuscirò ad avere un orgasmo totale, devo solo riuscire a ingoiare la testa del tipo.”
Il mio amico oggi è in carcere: ama con una ferocia uguale a un pitbull. Però ce l’aveva quasi fatta a ingoiare mezza testa del suo ultimo amante a piede libero.

LO STRONZO DI BATTISTA

Battista si alzò dalla tazza del cesso tutto soddisfatto. Aveva tirato giù il più grande stronzo dai tempi di Adamo ed Eva. Era un gran bel pezzo di merda, biblico, babelico, degno d’essere immortalato. Prese la Polaroid e gli scattò diverse fotografie.
Era fiero d’essere stato proprio lui a partorirlo.
Gli dispiaceva di dover tirare lo sciacquone. Mandare via tutto quel ben di Dio.
Non servì, lo stronzo non se ne andò a fondo nelle fogne.
Non sarebbero bastate tutte le Niagara Falls per affogarlo, ed allora Battista lo lasciò lì dov’era.
Passarono un paio di giorni.
Lo stronzo resisteva, non si ammorbidiva.
Battista doveva farla, ma con quello stronzo di mezzo non era facile.
Trascorse un altro giorno. E un altro.
Dopo una settimana, Battista scoppiò.
L’ambulanza lo portò via a culo all’aria: se l’era fatta sotto. Una cagata micidiale che l’aveva disidratato al punto da metterlo kappaò.
Le polaroid regalate a un po’ tutti gli amici oggi gli ricordano che è quel che è e lui può solo tapparsi la bocca.

FIGLIA DI UN FIGLIO DI PUTTANA

La prima volta l’aveva smollata a un compagno di classe perché le facesse copiare il compito di matematica. Aveva fatto in fretta a capire che la figa è la sola cosa che interessa agli uomini. Per una scopata erano pronti a sacrificare potere chiesa e famiglia. Si era prostituita che aveva tredici anni. Adesso ne aveva quasi venticinque e aveva perso il conto di quanti uomini aveva stretto fra le gambe per cinque minuti o meno, perché i più duravano al massimo due minuti, giusto il tempo di sborrare nella sua passerina e giurarle su Cristo in croce che era lei e soltanto lei la più bella e la più amata. Poi, tutti pagavano e andavano via, lasciandole un bacio, una ben misera mancia. Erano tutti degli stronzi. Lo aveva sempre saputo. Quel gran figlio di puttana di suo padre lo ricordava bene mentre prendeva la mamma a calci e pugni, e poi la faceva inginocchiare sul pavimento e glielo metteva dentro. Non si curava che ci fosse sua figlia a guardarlo. La madre aveva smesso di prenderle dal marito quando finalmente si era arresa. Se lui era su di giri, lei si calava le mutande e gli mostrava le sue grazie perché la prendesse come desiderava, sempre più spesso nel culo. Ma molto meglio quello che una gragnola di cazzotti.
Prima che fosse lui a chiederglielo fu lei a farsi sbattere da quel gran balordo che aveva contribuito a metterla al mondo con una schizzatina di sperma. Si era cacciata nel talamo nuziale e glielo aveva preso in bocca. Dapprima l’uomo aveva sorriso, era poi scoppiato in una risata sguaiata per abbandonarsi a nauseabondi rantoli di piacere. Lei l’aveva cavalcato proprio a dovere, dandogli culo e figa. E finalmente gli prese un infarto secco dopo averle riempito bene a fondo l’ano con il suo sporco seme per la seconda e ultima volta.

Gli anni dell’adolescenza fecero in fretta a volare via, ma le accordarono una bellezza non comune. La ragazza, piuttosto che studiare per finire a fare la commessa in un dozzinale supermarket, si era messa a battere: la madre lo sapeva, certo che lo sapeva, e non disse nulla. Mai una volta. Prendeva i soldi che la figlia le passava in silenzio e basta. Un giorno decise che aveva diritto alla sua indipendenza: che la madre se la cavasse da sola d’ora in poi.
Si mise in proprio, niente magnaccia o giri di prostituzione organizzata. Lei faceva tutto in casa, solo su appuntamento e con signori distinti, cioè pieni di grana da buttare via.
Farlo senza preservativo costava, molto di più. Aveva tre figli di puttana che se la scopavano senza precauzioni. Pagavano molto molto bene: cinque minuti con uno di loro significava mettersi a posto per una settimana intera. Il danaro lo buttavano via e basta. Se gli avesse chiesto il doppio, non avrebbero battuto ciglio.
L’ometto era uscito tutto soddisfatto. Non raggiungeva il metro e sessanta di altezza. Per sembrare più alto si metteva delle ridicole scarpe con il tacco, come un frocio. Pelato, cercava di nascondere la calvizie con un riportino oltremodo vistoso, spalmato sul cranio con una generosa dose di gel extrastrong. Uscì dall’appartamento felice come una pasqua, dopo che glielo aveva sbattuto nell’ano. Lui ancora non sospettava, ma ce l’aveva anche lui l’Aids. Era stata lei a fargliene dono. Anche gli altri dovevano essere sieropositivi già da un po’.
Venticinque anni. Quasi.
Tossì. Era diventata una creatura fragile da quando l’Aids le era entrato nel sangue. Se fosse stata attenta, molto attenta, se avesse seguito i consigli dei medici forse avrebbe tirato a campare ancora un anno o due. Non le interessava. La sua vita era stata breve. Intensa. Felice no. Non aveva mai conosciuto la felicità. Non sapeva cosa fosse e non l’avrebbe saputo mai, non c’era dunque motivo di piangere.
Tossì un paio di volte. A minuti il prossimo cliente avrebbe bussato alla porta.
Lei era pronta a riceverlo, come sempre, con un largo sorriso sulle labbra.



This post first appeared on Iannozzi Giuseppe – Scrittore E Giornalista | Ia, please read the originial post: here

Share the post

EFFETTI COLLATERALI. La felicità non è di questo mondo

×

Subscribe to Iannozzi Giuseppe – Scrittore E Giornalista | Ia

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×