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Allen Ginsberg e Chet Baker, poesia e tromba d’oro

Allen Ginsberg e Chet Baker, poesia e tromba d’oro

ANTOLOGIA VOL. 56

Iannozzi Giuseppe

Allen Ginsberg
(inedita)

Allen arriva
in una busta gialla e imbottita
Arriva da morto
Non l’ho ancora sfogliato,
ma lo riconosco dall’odore
Lo immagino
con la barba da Leone,
con una mano pelosa
sulla patta aperta

Fuori pioviggina
Il postino dice
di firmare
per avere la raccomandata

Allen giace chiuso
– ancora per poco –
dentro la sua busta
con su scritto
il mio nome
& la dicitura PIEGO DI LIBRI
Ha il suo odore Allen,
ha rabbia di lavatrici a gettone
che mai
i secoli potranno
lavare via

Squarcio la busta
e incontro i suoi occhi,
occhi di poesie,
di schiere di parole
Allen mi invita
a dire la verità
perché sono vivo
e qualche cosa gliela devo

Poesia e tromba d’oro
(inedita)

Nessuna nuova,
si sta
e basta.
In cielo aerei volano,
io non li vedo bene
però lì sento
mentre bucano
nuvole un po’ così e così
Sotto i miei piedi
pochi,
davvero pochi
vermi,
e tutti, al meglio
delle loro striscianti possibilità,
si coprono il muso

La tromba d’oro di Chet
tiene compagnia ad Allen,
ed è qualcosa che sa
di poesia jazz e blues
Dirai che non è
una poesia d’amore
Ti dirò che entrambi
amarono il loro buco di culo,
e tu non saprai
che rispondere,
& forse penserai
“Ha dato
finché ha potuto,
così adesso ha dato
di matto e di brutto”
Hai mai visto
Allen piangere Neal?
Hai mai pianto
per Chet volato giù
suicida?

Nessuna nuova
Si sta,
e la notte sa
d’essere profonda
e vuota di promesse

Caduto nella luce

Caduto Nella luce
come uomo:
c’è il vuoto
totale assoluto, qui.
E non è l’Aldilà.

I padroni della guerra
dicevano che la Terra
aveva perso la libertà.

Io solo ho perso  la vita.
E la luce del Sole.

Il domani è un altro giorno
che non amerò, che non vivrò.
Il futuro un’altra ecatombe:
s’accompagna al mio fantasma
e a quello di altri mille
uguali a me.

Ma quelli propagandano, ancora
e ancora, che fa niente,
a patto che si cada nella luce,
a patto che si affoghi nel sangue.

Ecco! Sono ancora
nell’Aldiquà
sepolto in un’altra luce spenta
come candela al vento.

Carnivoro fato

Luna, se hai occhi,
questa notte mi porterai
fortuna. O illuminami te.

Luna, se hai bocca,
questa notte mi sazierai
con un morso. O due,
sulla mia pelle.

Riflessi ne avrai tanti,
ma io sono uno:
e ora credo che,
che dovresti spogliarti
per me. O per nessuno.

Luna, quale il tuo nome?
Luna, quale la tua fame?

Luna! Tu, carnivoro fato,
in questa notte. O mai più
m’avrai nel tuo incanto,
quando di te dirò
all’Alba che verrà.

Il deserto del tuo nome

E’ questo il deserto
del tuo nome?
“E tu, chi sei?”

I peccatori morti
tutti, incappucciati,
per una spacciata verità
o una notte d’amore.
Ed è questo che volevi?
…sapendo
che il piccolo gabbiano
che volava nella tua angoscia
ha lasciato le ali
sul mare in lontananza.

L’uomo, che amasti
per un suo verso
scucito alla felicità,
ora riposa (nella realtà)
e più non si cura
di fare un po’ di sole
o il sorriso del tuo culo.

E’ questo il deserto
che hai lasciato
in chi sei stata,
senza mai esser vicina
a quella tua identità
plasmata in
“E tu, chi sei?”

Conti dolori
e li distribuisci
nel mazzo di carte;
ma nessuno parteciperà più
al tuo seminare;
e la zingara,
che fosti
– in un tempo lontano -,
non capisce perché
è capitato proprio a “lei”
quando sembrava una mano
un po’ meglio.

E “tu” seguiti a dire
che la donna è puttana
anche se sola con sé stessa,
con il ditale, il filo
e il cuore di Emily Dickinson
da rammendare. Ma la poesia
non viene
e insegui la luce
in una metropolitana di fantasmi
ignoti alla Storia. E a te.

E’ questo il nome
del tuo deserto.

Padri Caduti

Fossi stato cieco,
perdoneresti perché sono caduto,
non ne comprenderesti però il motivo.

Se fossi vivo,
se solo fossi ancora l’uomo che ero,
sapresti che un caldo corpo stringeva a sé
la notte e la stretta delle tue mani stanche,
sempre cercando la storia
del timido tuo sgambettare fra le lenzuola;
annodavo le mie gambe alle tue,
poi piangevi libertà
quando la mezzanotte suonava,
e in punta di piedi da me fuggivi.

Se fossi, se ancora fossi con te,
non dovresti sanguinare guerra
nella solitudine che ora t’avvolge,
mentre cammini col pianto la terra.
Sono caduto e non ho fatto in tempo
a confessarti quanto ti ho amata
anche se a letto poco parlavo di noi,
del futuro che avremmo visto se…
dell’amore che avremmo dato se…

Non in verticale, non in orizzontale.
In una dimenticata tomba
– uguale a mille altre senza nome –
dorme lo spettro del macello:
e fuori ancora c’è la guerra
che impazza e fa numeri le anime
partite e subito a pezzi ridotte, perite
nella stretta dell’omicidio preventivo.

Sono andato via prima
che te ne accorgessi
insieme alle Torri Gemelle:
di me neanche l’ombra t’è rimasta,
o un Cristo che ti possa consolare.
Partito per la guerra, ci credevo:
sbagliata l’illusione
che sarei tornato a cullare il grembo
che accoglie nostro figlio e il domani.
Mi chiedo come verrà su.
Mi chiedo se verrà abbattuto,
se sceglierà di restarti accanto.
Mi chiedo che padre sarei stato
in questi Giorni dei Padri Caduti.

Le sbrindellate spoglie
nella bandiera raccolte.
E il sangue del mio sangue
piange coi tuoi occhi di madre
l’eterna mia lontananza.

No, non questa invalida libertà
volevo lasciarti in eredità.
No, non questa mortale assenza
volevo lasciarvi in mia memoria.

Sono andato via prima
che potessi cadere nel domani.
Prima che potessi cadere
nel domani. Nel domani.

Il cielo della Musa

…e Tu, Musa, non sai quanti mari
e inutili cieli il Poeta ha navigato;
ma sempre t’ama con mille versi
che non sanno uscire
dalla pochezza del suo ingegno.

Un castello di sabbia si fa deserto
e cerca rifugio nell’imbuto del tempo;
ma sempre la tua Immortalità,
sempre costruisce un’altra dimensione
che possa accogliere riso e pianto.

…e Tu, Musa, mia sola Immagine
e Coscienza, tieni in piedi la fragilità
della Anima mia.

…e Tu, Musa, mia sola Immortalità,
sai perché il Poeta che è in me
non sa un Cielo che non sia anche il tuo.

1° CHORUS:

Alte ombre
premevano
forte
sulla carne
dei lupi
sbranati
nella fame.
Luna metallo
congelava
fiati
fra nuvole
basse
raccolte
in branco.
Mostrava fiera
di sé
gli occhi
la Regina,
esponendo
il volto
ai denti
dei figli
raccolti
in rabbia.

“Spunta,
la Luna spunta!”,
gridava l’uomo
reggendosi
il fianco
addolcito
in un cancro
renale.
“Spunta…
‘date via,
‘date via!
prima che
venga &
spalmi
le unghie
negli spilli
degli occhi.”
I drogati tutti
accolsero
l’invito
aprendo l’alma
a uno spavento,
& rincorsero
le ombre
proiettate
per perderle
negli spiccioli
a piovere
fuori
dalle tasche.

2° CHORUS:

Assisa
– su un trono d’argento –
la vita muoveva
nuvole &
lenta si placava
la fame
in una curva
nascosta
nel delirio
d’un cachinno
per l’amato-odiato
buio d’attorno.

“Poeta! Chi
ti grida?”
Eisenhower si strozzò
in una risposta,
mentre l’uomo col cappello
nero gli puntava pistola
alla testa.
“& ora prova un po’
a fare il furbo!”

“Poeta! Chi
ti chiama?”
Neal rispondeva
dalle rotaie del treno
fermo su un binario
morto: “L’amico
fa strage d’una &
una visione!”

Assisa
rimaneva &
guatava le ombre
proiettate &
la loro statura.

Non altro
il giudizio;
fontane sputano
ori e argenti
nell’Eternità Dorata,
Vecchio Angelo Mezzanotte.

3° CHORUS:

Correndo,
prendevi schiaffo
da una carezza: &
menavi stanchezza
nel sogno.
Poi, la vita destò
il corpo e
disse ch’era tempo
di tornare
all’inizio del viaggio.

4° CHORUS:

Cieco cielo abbaia
sciocche profondità,
universali accordi.
La gente si fa da sola &
ride un folle delirio,
truccando un nero
e un bianco tasto
sulla scacchiera del piano.
& le dita scivolano veloci
per raccogliere fumi di cicche
e ubriacature, all’una di notte.

Lei nulla dice:
non un sospiro
o un sorriso, &
solo versa il bicchiere
nel vuoto.
Inquisita dagli sguardi
di Uno e Cento Uomini,
osserva lo scorrere
del tempo
in
una
lancetta
mortificata, &
si trattiene nelle note
che volano e non sanno
dire armonia o
odore di brillantina.

& si pettina
una mano con l’altra
nel numero dei
capelli.

5° CHORUS:

Ritorno
il viaggio iniziato;
perché.

& vita,
battere un sogno.



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