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LA COSA SOMOGYI – Gli ultimi respiri brevi di Primo Levi

LA COSA SOMOGYI

Gli ultimi respiri brevi di Primo Levi

Iannozzi Giuseppe

«[…] io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz […]» – da “I sommersi e i salvati”, Primo Levi

«C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.» – “Conversazione con Primo Levi” – Ferdinando Camon

Cambiano i nomi, cambiano i volti, e mai la sostanza. Oppressi e oppressori stanno sempre in una zona grigia, i salvati sono invece un numero esiguo, salvati dal caso e non da un Dio. Mordechai Chaim Rumkowski, ebreo affezionato al potere, appoggiato dalle SS, lui era un oppressore e un privilegiato che, nel ghetto della cittadina di Lòdz, dettava legge nelle vesti di decano. Chi sono i salvati? Sono un numero esiguo i salvati, salvati dal caso e non da un Dio. Così andava rimuginando fra sé e sé Primo.
Il mattino era di silenzio, eccetto che per delle vaghe note che una vecchia radio, tenuta a basso volume, lasciava libere nell’aria: Glenn Gould al piano suonava Bach.

Aprile 1987: non era un anno poi diverso da molti altri che Aveva visto. Ad Auschwitz i mesi, i giorni, le ore non esistevano. Dio non aveva mai buttato l’occhio giù ad Auschwitz. Non lo aveva fatto perché Dio era una finzione, macabra e dilettantesca quanto si vuole.
Jean Amery era sopravvissuto alla Shoah, e si era tolto la vita. Quando gli avevano chiesto il perché di quel gesto, era stato lapidario: “Nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato.”

Il 13 dicembre del ’43 i nazifascisti lo avevano preso in Valle d’Aosta e subito lo avevano tradotto all’inferno, prima nel campo di concentramento di Fossoli, e nel febbraio del ’44 ad Auschwitz. All’inferno c’erano gli aguzzini e le vittime. C’erano degli uomini. Da quel dicembre del ’43, di anni ne erano passati un bel po’, ma, per lui, non era cambiato granché: adesso stava in casa, in Corso Re Umberto, numero civico 75. Nel corso degli anni passati a scrivere, non aveva mai sentito l’esigenza di cambiare abitazione.
Le milizie lo avevano beccato nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux, per l’esattezza fra Saint-Vincent e Brusson. Lo avevano interrogato. Alla fine si era dichiarato ebreo. Forse loro si aspettavano che si dichiarasse partigiano.
Il 22 febbraio del ’44, insieme ad altri 650 ebrei, fu stipato su un treno merci. Ogni vagone teneva dentro 50 persone. Non c’era possibilità di salvezza: erano destinati al campo di sterminio di Auschwitz. Una volta in Polonia lo registrarono con il numero 174.517 e subito lo tradussero al campo di Buna-Monowitz, noto come Auschwitz III. C’era rimasto fino alla liberazione. L’Armata Rossa l’aveva liberato il 27 gennaio del 1945. Oltre a lui, l’Armata Rossa liberò altri 20 ebrei italiani. Gli altri, tutti gli altri tutti morti. Perché lui era sopravissuto? Perché sapeva un po’ di tedesco; perché Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore, rischiando la sua vita, gli portava qualche cosa da mangiare; perché era un chimico e la Buna, di proprietà del colosso chimico tedesco IG Farben, aveva bisogno di chimici per la produzione di gomma sintetica.

“Cambiano i nomi, cambiano i volti, e mai la sostanza”, sbottò a mezza voce. Poi pensò, come tante altre volte nel corso degli anni, che (gli uomini) lo avrebbero rifatto. Auschwitz sarebbe risorta, con un altro nome, in Germania o all’altro capo del mondo. Si considerava un sopravvissuto, ma solo perché il caso aveva giocato a suo favore in quel frangente terribile dove, più e più volte, si era interrogato su cosa significasse essere un uomo. Aveva visto uomini, proprio come lui, operare il male contro altri uomini. Aveva visto l’inferno, la morte, quella più terribile, quella vestita d’un volto non troppo dissimile al suo. Da Auschwitz era uscito sulle sue gambe, ma non era del tutto vero, perché ogni giorno riviveva l’orrore. Non poteva, anzi non voleva dirlo ad alta voce, pur considerandosi a pieno diritto una vittima postuma dell’orrore.
Tornare alla vita non fu affatto facile, perché, in realtà, lui la vita l’aveva lasciata in quel maledetto campo di concentramento insieme a quella di altre centinaia di persone, di ebrei. Era tornato per raccontare l’orrore, perché così il caso aveva deciso per lui. Suo malgrado era stato costretto a scrivere “Se questo è un uomo”, “La tregua”, “Se non ora, quando?”, “I sommersi e i salvati”. Il caso gli aveva affidato un compito e non gli era stata concessa la possibilità di alzarsi dal tavolo, di chiamarsi fuori dal gioco. Aveva dunque scritto, perché questo era il dovere che gli era stato assegnato.
Le SS avevano tentato di distruggere tutte le prove a loro carico. Ci avevano provato, la Storia però non la si cancella, non con un colpo di spugna e nemmeno cercando di bruciare i documenti. La Storia aveva indicato i colpevoli, alcuni erano stati condannati, altri erano fuggiti e avevano trovato riparo al di là dell’Europa. Molti non avrebbero pagato per i crimini commessi. E da dove si erano nascosti, loro avrebbero fatto di tutto per far credere all’opinione pubblica che i lager non fossero mai esistiti.

Gli passavano davvero tante cose per la testa, aveva dei piani per il futuro.
La radio cessò di colpo di funzionare e anche il pianoforte di Glenn Gould non sparò più note nell’aria.
Fu questione d’un momento. Come quando i nazifascisti lo colsero di sorpresa nel villaggio di Amay. Non ebbe il tempo materiale per rendersi conto se il piede era caduto in fallo da sé, per colpa di un movimento involontario, o se c’era stata una sua specifica volontà a comandarlo.

Francesco Quaglia, dentista e amministratore del condominio, amico di Levi, lo vede bene il corpo di Primo, adagiato alla base della tromba delle scale. E subito comprende che non c’è niente da fare: durante il volo, il corpo doveva aver sbattuto più e più volte contro le strutture in metallo dell’ascensore.
Sul pavimento nero dell’ingresso un mare di segatura per mascherare, almeno in parte, il sangue.
A chi la interroga, Jolanda Gasperi, portiera nello stabile di Corso Re Umberto, ripete quello che ha già ripetuto a un po’ tutti: “Erano passate da poco le 10. Come ogni mattina, ero salita da Levi per portargli la posta. Non ho notato niente di particolare, solo qualche dépliant, pubblicità, un libro, una rivista. Non c’era davvero niente di strano. No, non ho notato nulla di strano in lui. Come al solito mi ha sorriso accennando un grazie. Ne aveva passate davvero tante, davvero tante. Sì, era un po’ depresso: chi non lo sarebbe stato al posto suo?! Io ho solo sentito un tonfo. Ho gettato l’occhio oltre i vetri della guardiola e ho visto il corpo di Levi: sfracellato. Uno spettacolo terribile. No, la moglie, la signora Lucia era uscita a fare la spesa.”

Il portone quasi nuovo, in legno chiaro, fa a cazzotti con la facciata mezzo ammuffita del palazzetto fine Ottocento, numero civico 75.
Le finestre del terzo piano, quelle di casa Levi, sono chiuse. Un bel pezzo di Corso Re Umberto è chiuso nel mutismo. Torino è incredula.


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