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La profezia: mangerai i tuoi escrementi

La profezia: mangerai i tuoi escrementi

Iannozzi Giuseppe

Tutte le valutazioni sono affrettate, e debbono esserlo.
(Delle prime e ultime cose, 32 – Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Giunto a Torino, Friedrich respirò a pieni polmoni. L’emicrania, che lo perseguitava da tanto tempo, parve allentare la sua presa.
La stazione brulicava di gente. Non gli piaceva la confusione, gli dava il voltastomaco doversi scontrare con persone inadatte alla sopravvivenza, prive di volontà, più simili a dei manichini che non a dei perfetti Zarathuštra.
A malincuore scavò in mezzo alla ressa, soffrendo le gomitate e gli aliti pesanti di quanti lo urtavano.
Torino gli faceva uno strano effetto. A differenza di altre città, la Piccola Parigi non era ancora del tutto corrotta. Così pensava, forse illudendosi.

“Tu sei uno che parla poco”.
Era una cosa buttata lì, per dar fiato alla bocca, e non un giudizio, ma quel giorno Herr Nietzsche non era affatto ben disposto.
Lou von Salomé lo aveva rifiutato, così, su due piedi. Il filosofo ricordava bene i particolari di quel rifiuto, freddo e secco, senza possibilità alcuna d’esser messo in discussione. La giovane donna era sicura di sé, fin troppo: a cosa aspirava? Alla castità, all’erotismo, alla prostituzione, o a diventare una scrittrice? Se pensava di poter un giorno essere una vera scrittrice, Lou era una benemerita illusa, in ogni caso non la prima e nemmeno l’ultima. E glielo aveva dimostrato mettendo nero su bianco il suo lavoro più importante e potente, Also sprach Zarathuštra.
“Una società che si rispetti non può fare a meno delle puttane”, sentenziò.
Giuseppina si alzò dal letto con nonchalance. Non aveva capito e non le interessava approfondire. Che era una puttana lo sapeva bene, era la vita che si era scelta quando aveva poco più di quattordici anni. Non nutriva rimorsi né rimpianti. Da bambina aveva sofferto la fame, aveva visto suo fratello morire di tisi, e i suoi genitori un orrore che non intendeva riesumare. Non dubitava che il tedesco che era venuto nella sua fica fosse un grand’uomo. Nei suoi occhi severi ci leggeva una profondità che le gonfiava il petto, ma, alla fin dei conti, lui avrebbe pagato lei, la donna, la puttana, e solo questo contava; e lui sarebbe tornato da dov’era venuto, col naso nei suoi libroni polverosi di filosofia. Le avevano detto di trattarlo bene e lei aveva fatto il suo dovere. Non era la prima volta che donava il suo corpo a uomini importanti.
“Che ne sai dello spiritismo, del Diavolo?”
La domanda la fece sobbalzare. Nuda si fece il segno della croce. Nietzsche mise su una smorfia di disprezzo.
“Perché me lo chiede, Herr Niesche?!”
“Nietzsche”, la corresse.
Giuseppina ci provò a pronunciare bene il nome del cliente, una due tre volte. Poi prese a piangere, senza sapere bene neanche lei perché.
“Disprezzo chi piange”, sentenziò Friedrich. “E’ segno di debolezza.”
“Lei mi disprezza dunque!”
“Sa o non sa rispondere?”, tagliò corto Friedrich. “Che tipo di spiritismo si farebbe da queste parti?”
La donna lo avvertì bene il cuore in petto perderle un colpo.
Gli occhi severi del tedesco la fissavano. Non guardavano però la sua nudità. Il suo sguardo la penetrava, andava altrove, là dove lei non avrebbe voluto. Scavava nella sua intimità, nelle sue paure.
“Non ne so niente, lo giuro”, balbettò.
“Niente?”
Giuseppina cadde in ginocchio singhiozzando, piangendo a dirotto, lasciando libera la pipì di bagnarle le gambe.
Herr Nietzsche la fissò con sguardo accusatore: “Dunque sapete.”
“Non sono discorsi…”.
“Voglio solo sapere perché Torino la dicono la città del Diavolo, null’altro.”
“Non lo so perché.”
“Menti”, ruggì Friedrich alzandosi dal letto. “Tu, puttana, menti. Parla!”
Giuseppina inghiottì le lacrime e prese a farfugliare: “Torino ha una strana fama. E’ ancora piena di ignoranti che credono che il Maligno la abiti. Una faloticheria, mi creda, Herr Nietzsche. Così è. Non c’è niente di vero in quello che la gente dice, niente di niente.”
Friedrich farfugliò qualcosa, in tedesco.
Giuseppina lo vedeva che era agitato, troppo. Non andava affatto bene che quell’uomo si agitasse. Glielo avevano detto che era un cliente difficile, che doveva accontentarlo in tutto e per tutto, che non doveva in alcun modo dargli motivo di dare in escandescenze.

“Non so altro, glielo giuro su Dio”, aggiunse la poveretta, pure lei non poco agitata.
Un dolore sordo e cupo gli trapanava la testa da tempia a tempia, e gli occhi, pure quelli, gli dolevano dentro al cranio. Nietzsche era oltremodo agitato e non lo nascondeva.
“Sono solo una puttana, solo questo. Glielo assicuro, io in faccende brutte assai come lo spiritismo  non mi ci sono mai ficcata”, continuò Giuseppina nel tentativo di quietare l’animo del filosofo.
“Perché la chiamano la città del Diavolo?”, sbraitò il filosofo crocifisso nella sua instancabile emicrania.
La poveretta non sapeva cosa rispondere, non lo sapeva davvero più.
“Voci ignoranti”, pigolò.
“Voci!”, ripeté il filosofo assestandole due schiaffoni in pieno volto.
La donna adesso aveva paura: negli occhi dell’uomo, sì, c’era il Diavolo. Tremante si fece di nuovo il segno della croce, poi biascicò: “Io amo Dio, se faccio la vita è perché lui ha voluto così. Non mi faccia del male, la prego!”
“Dio è morto”, ruggì l’uomo per nulla impietosito dalla donna in ginocchio, ridotta a una larva umana.
“E’ morto, lo capisci questo, donna?”
Giuseppina fece cenno di sì con il capo.
“Tu non capisci, non capisci. Sei una donna, una puttana. Non puoi capire”, sbottò l’uomo inferocito.
“Io capisco”, piagnucolò la poveretta.
“Tu capisci?”
“Non come voi, ma capisco!”, continuò a piagnucolare.
“Dio l’abbiamo ucciso e con lui è scomparso anche l’uomo vecchio, ma l’Oltreuomo è ancor di là dall’apparire. Questo lo puoi capire?”, le urlò addosso sbavando dalla bocca.
Giuseppina scosse il capo mossa dalla paura, un gesto che Friedrich interpretò come l’ammissione che lei, in quanto donna, non aveva le capacità per comprendere il suo dire. Soddisfatto d’aver dimostrato alla donna la sua inferiorità, il filosofo si quietò un poco, e anche l’emicrania, che oramai lo accompagnava in ogni dove, si fece quasi fiacca.
Con naturale disprezzo, diede le spalle alla donna, raccolse i vestiti che giacevano su una sedia di legno e si rivestì in fretta e furia.
Giuseppina se ne stette quieta, immobile, nuda, per tutto il breve tempo che il cliente impiegò a vestirsi. All’improvviso ricordò quello che la maitresse, in un giorno di chiacchiere, le aveva detto d’un certo palazzo situato fra via Alfieri e via XX Settembre.
Da una tasca dei pantaloni il filosofo trasse fuori delle banconote, che parevano fresche di stampa, lasciandole cadere sul letto disfatto.
“Palazzo Trucchi di Levaldigi. Lo abita il Diavolo, così dicono. Il batacchio lo raffigura”, disse, in un mezzo sussurro, la poveretta sperando in una mancia più generosa, che non venne.
Nietzsche non fiatò. Infilò la porta e lasciò la camera, felice o giù di lì.
Solo quando l’uomo se ne fu andato, Giuseppina trovò il coraggio di alzarsi da terra. Aveva temuto che l’uomo l’ammazzasse di botte. Pareva posseduto, Dio santo! Si asciugò le lacrime con il dorso d’una mano e diede in una risata isterica. Le gote le bruciavano per gli schiaffi ricevuti, ma di più le faceva male dover riconoscere che, in effetti, lei non aveva capito una sola virgola di quello che il filosofo le aveva gridato addosso. Furente bestemmiò contro Dio e non solo. E in ultimo maledì, come solo una donna sa maledire un uomo, il grande filosofo: “Possa prenderti il Diavolo, tedesco di merda, spilorcio, cazzo moscio.”

Friedrich uscì dal postribolo forte d’una certa esaltazione ansiosa.
Non credeva nello spiritismo. Credeva però nella stupidità dell’umanità e voleva incontrarla questa umanità repressa, succube di fantasmi e catene.
A uno, che di certo era un villano e non altro, domandò per raggiungere Palazzo Trucchi di Levaldigi, e ottenuta l’informazione tirò lungo senza ringraziare.
Qualcuno lo urtò, Friedrich rifiutò però di lasciarsi distrarre, non gettò l’occhio verso chi lo aveva urtato e proseguì per la sua strada.
Le strade di Torino gli entravano nel campo visivo per scomparire quasi subito. Camminava con passo svelto, correva quasi, come se Dioniso avesse preso possesso del suo spirito. E mentre allungava il passo parlava a voce alta frammischiando frasi in italiano con altre in tedesco. Malediva Wagner che lo aveva tradito, malediva Lou von Salomé, l’amico Paul Rée che pure lui aveva provato a scalfire l’ignobile castità di Lou, e non da ultimo malediva la sorella Elisabeth.
Le carrozze facevano a gara per scansarlo.
Quando finalmente raggiunse la meta teneva in petto il fiatone e gli occhi faticavano non poco a mettere a fuoco Palazzo Trucchi di Levaldigi, meglio conosciuto come il Palazzo del Diavolo, con il suo batacchio luciferino.
Dentro di sé solo ripeté: ‘Volontà di potenza.’
Poco alla volta si calmò quel tanto perché riuscisse infine a ghermire il batacchio che bramava d’osservare da vicino.
Nonostante la vista non fosse più buona come un tempo, Friedrich subito comprese che solo stava perdendo il suo tempo rendendosi ridicolo, lasciò dunque la presa sul Diavolo e diede le spalle al Palazzo.
“Federico!”
Suo malgrado Friedrich sussultò.
“Federico, tu mangerai i tuoi escrementi. Così è scritto.”
Il filosofo si girò di scatto.
Sulla porta del Diavolo stava un ometto avvolto in un saio nero.
“Anche se fosse, sei tu ancora umano, troppo umano”, sentenziò il filosofo.
“Mangerai i tuoi escrementi, ricordatelo, caro il mio Federico”, ripeté.
Nietzsche abbozzò un sorriso sinistro sotto i folti baffi già mezzo grigi.
Per nulla spaventato, solo pensò: ‘Solo si è qui per l’Eterno Ritorno.’
Con passo deciso si portò via dal portone con la notte di Torino negli occhi. Con occhi enfi d’un mai confessato dolore.


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