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Storia di un’amicizia: da Elena Ferrante a Fanny e Alexander

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Storia di un’amicizia: da Elena Ferrante a Fanny e Alexander
Fermata Spettacolo

Storia di un’amicizia, regia di Luigi De Angelis, con Chiara Lagani e Fiorenza Menni, percorre e reinventa la tetralogia L’Amica geniale di Elena Ferrante, smontata e ricomposta secondo linee narrative, immagini e suoni inediti, per approdare ad un nuovo racconto detto nel linguaggio proprio di Fanny e Alexander, magistralmente interpretato dalle due attrici in scena.

Nel primo dei tre capitoli di cui si compone lo spettacolo si racconta la nascita del legame fra Lila ed Elena bambine sullo sfondo del rione (siamo a Napoli), una storia che ha al centro le loro bambole, oggetto di una sorta di rito di iniziazione. La narrazione si dipana attraverso una partitura di gesti codificati, precisi e reiterati, che creano un ritmo che si sovrappone e quasi si intromette all’altro livello comunicativo, quello del parlato, a sua volta accompagnato e insieme “disturbato” dal tappeto sonoro, terza voce in una complessa polifonia. I gesti delle mani e dei piedi, le espressioni del volto, i movimenti di braccia e gambe, a tratti commentano le parole e amplificano il loro significato, a tratti conducono in un’altra direzione con effetto straniante.

Chiara Lagani (Elena) e Fiorenza Menni (Lila), si stagliano in bianco su un fondo nero e intessono il racconto intrecciando le parti, in una narrazione a due che cambia continuamente soggetto e in cui la voce narrante di Elena e le voci dei personaggi di Elena e Lila si confondono, si sovrappongono. Le due amiche, nell’interpretazione delle attrici, si “smarginano”, proprio come nel romanzo succede a Lila quando avverte lo sfaldamento del mondo circostante, e, insieme, dei confini del proprio corpo; qui è come se lo “smarginamento” si allargasse ad entrambe le donne, che perdono contorni e forma e si mescolano in una figura sola. Anche i piani temporali finiscono per intersecarsi quando le voci e i volti delle attrici – mentre si fanno carico del parlato narrante, in un continuo palleggio di battute e frammenti di racconto – vengono improvvisamente abitati dalle presenze delle bambine, presenze-assenze, tanto più forti e vivide quanto più nella vita adulta si fa sentire la distanza dall’infanzia e dai suoi fantasmi. L’infanzia è evocata da Fanny e Alexander come un luogo pericoloso e nient’affatto rassicurante, come spazio di una formazione che passa per prove di coraggio e fiducia, pericoli, ferite, paure, giochi spesso crudeli, di patti ma anche di sfide, gare, tentativi di misurare il limite camminando in punta di piedi su un filo teso, contatti sfuggenti con un mondo adulto che è oscuro e distante. L’infanzia è il tempo in cui si suggella l’amicizia geniale. Le paure, il buio, Don Achille e la sua borsa nera, lo scantinato di Don Achille pieno di oggetti scuri e impolverati in cui le bambine gettano le bambole, il rione e i suoi confini superati solo una volta nel tentativo non riuscito di raggiungere il mare, le grida degli adulti e degli sconosciuti, prendono corpo nel tessuto continuo di gesti messi in scena dalle attrici. Le parole che i gesti accompagnano o contraddicono sono pesanti, materiche e dal suono sinistro, come quelle che evocano il suono degli spauracchi dell’Italia degli anni ’50: “la suppurazione”, “il tifo petecchiale”, “il tetano”, “il tornio”, “il gas”, “il lavoro”, “la guerra”. La narrazione incalzante si fa immagine nel movimento reiterato delle gambe, dei piedi, delle mani che scandisce il ritmo ed evoca la discesa dei passi di Lila e Lenù per le scale buie e umide che portano allo scantinato di Don Achille, a cui si accompagna la salita per la rampa fino alla porta dell’appartamento; in basso gli odori di muffa e polvere, il buio, i suoni della cantina, le grida in lontananza e i tonfi sordi, in alto le voci di donna Maria e don Achille, la massa del suo corpo da orco, gli odori del pranzo, la mano che fruga nella tasca dei pantaloni, i soldi elargiti quasi a sfregio per comprare bambole nuove. Tina e Nu, le bambole, ritornano più volte nello spettacolo, file rouge del racconto, doppio di Lila e Lenù. Lagani e Menni danno loro voce con il linguaggio scanzonato e insieme grottesco dell’infanzia, fatto di canzoncine, cantilene e proverbi. Le bambine vestono abiti candidi. Le bambole sono nere, abbandonate a terra nel buio dello scantinato e nella strada della fuga verso il mare, sono evocate come spettri dalla voce narrante di Elena, che proprio come fantasmi le vede tornare, con le loro facce di stracci e celluloide, spedite per posta da Lila, un messaggio cifrato dopo la sua scomparsa; sono rosse nel finale, quando il nome e il corpo di Tina, la bambola di Elena, si sovrappongono al nome e al corpo della figlia di Lila, perduta e mai ritrovata.

Nel secondo e terzo capitolo le figure di Elena e Lila diventano quelle di donne, gli abiti si fanno sgargianti, i volti vivaci e la loro immagine impersonata dalle attrici fa da specchio a quella delle ragazze della Napoli degli anni ’50, ’60 e ’70 riprodotta nei filmati proiettati sullo sfondo. I video mostrano la città, i suoi vicoli e mercati, il marasma di gente, i giochi dei bambini, le vacanze al mare, le manifestazioni femministe per l’aborto. La vita delle amiche è attraversata scivolando sul tappeto di gesti e suoni che percorre lo spettacolo, passando per il matrimonio di Lila e la sua volontà di “scancellarsi”, annullare l’immagine di sé e quella del proprio ritratto in abito da sposa, simbolo dell’odioso accordo e vincolo economico fra il marito e i potenti Solara. Lila vuole “scancellare” sé stessa nel ruolo di moglie e la sua gravidanza, che infine riesce a sopprimere, quasi avesse esercitato quei poteri, che anche Elena Ferrante tra le righe le attribuisce, di “donna-fattucchiera”, magnetica e pericolosa, determinata e geniale.

La narrazione di Chiara Lagani e Fiorenza Menni prosegue incalzante mentre gesti e voci delle attrici danno corpo ai personaggi che abitano il rione e ruotano intorno a Lila ed Elena. Sullo sfondo neutro si affacciano video di corpi fatti di ritagli di altri corpi, tranciati, mostrati solo per frammenti, ad evocare in immagini la volontà annullatrice che aveva mosso la mano di Lila sulla sua foto in abito da sposa. E ancora montaggi e sovrapposizioni dei volti delle attrici, che si confondono e si smarginano nel dire del rapporto fra Lila e Lenù, sempre teso fra poli opposti di dipendenza reciproca e necessità di autonomia.

Il tema della maternità, soppressa da Lila nel secondo capitolo, ritorna prepotente nel terzo, dove i corpi delle due donne sono centrati sulle loro pance, un peso che per due volte, materialmente, le attrici indossano e “sgravano”. La gravidanza, che nel capitolo precedente, era stata definita da Lila come un vuoto dentro al ventre, abitato da una sorta di fantoccio di carne che cresce, diventa qualcos’altro nell’esperienza di Elena, a Firenze lontana dal rione, e altro ancora in quella comune e condivisa dalle due amiche, incinte questa volta nello stesso momento, e riunite di nuovo a Napoli.

Le figlie generate, doppio delle protagoniste di tanti anni prima, concentrano simbolicamente su di sé la storia di affetto e ammirazione confusamente mescolati alle invidie, alle sfide, ai tentativi di autoaffermazione e riscatto attraverso l’intelligenza e il pensiero in grado di superare i limiti e i confini della miseria, dell’ignoranza e delle bassezze.

La scomparsa di Tina, la figlia di Lila che porta tragicamente il nome della bambola perduta, è rappresentata dal frastuono delle voci del rione che rimbombano in scena, allertate nella ricerca vana. Le grida si rincorrono ancora per un po’ e poi si affievoliscono, passano sullo sfondo e infine tacciono, diventano leggenda, voce sì, ma quella del quartiere, che si racconta tempo dopo le diverse versioni del fatto drammatico. Elena e Lila scompaiono a loro volta e dal fondo nero si stagliano le due figure in rosso di Tina e Nu, le bambole, che chiudono circolarmente la storia, con una narrazione fatta di gesti significanti e canzoncine di bimbe.

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