Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

La perfetta macchina scenica di Kát’a Kabanová

La Perfetta Macchina Scenica di Kát’a Kabanová
Fermata Spettacolo

“Andiamo a Mosca!” esclama Kundrjàš, riecheggiando il vagheggiamento insistito e vano di Olga e Irina nelle Tre sorelle di Čechov; significativo che questa frase, assente nel testo della Grosa di Ostrovskij, sia stata inserita dallo stesso Janáček, metafora dell’identica tensione verso una ipotetica pienezza vitale, da contrapporre alle sorde costrizioni della provincia russa, che sta alla base anche dell’inanità e del culto delle illusioni tipicamente cechoviano. Anche perché, a ben vedere, almeno per metà, Kát’a Kabanová è eroina cechoviana a pieno titolo.

Siamo a Napoli, al mio bel Teatro San Carlo va in scena un’opera di Janáček e già questa è una notizia, vista la rarità con cui questo compositore viene rappresentato in Italia: Kát’a Kabanová, poi, che nella vulgata passa, di solito, per importanza, quale seconda opera del compositore, dopo Jenůfa, è una vera araba fenice, risalendo qui al San Carlo, la sua precedente rappresentazione, al 1968. Eppure son sicuro che questo compositore, certo uno dei più originali che il teatro d’opera abbia mai visto, considerasse Kát’a, se non il suo capolavoro, in qualche modo la sua opera-feticcio, l’autoritratto fedele delle sue confessate e inconfessate paure e speranze, un po’ come Monna Lisa per Leonardo e non mi avrebbe stupito se avesse detto, riecheggiando Flaubert, che “Kát’a Kabanová c’est moi”.

Nel corso della sua accidentata carriera – molto tardi conobbe il successo – consegnò alle scene e ai posteri lavori dei più disparati generi, da quello eroico (Sárka) a quello fantastico (La volpe astuta), fino alla suspence (Il caso Makropoulos), ma costantemente, nell’Europa fin-de-siècle che sempre più, mentre cercava una poetica e salvatrice bellezza, assisteva nel frattempo alla mutazione genetica dell’amor patrio in egoismo nazionalista, badò a prender le mosse dalla realtà sociale e linguistica morava, attento alla realtà, così cara ai grandi scrittori russi del secolo passato, da Dostoevskij (Da una casa di morti) a Ostrovskij, da cui deriva Kát’a Kabanová. E realtà significava per lui, ne era fieramente convinto, partire dalle inflessioni del parlato per trasfigurarlo in tessuto melodico, lasciando che i suoni della vita si facessero, per un sorprendente straniamento che muove le mosse dai processi interiori dei suoi personaggi, lirica e armonia, spesso caricandosi di connotazioni simboliste, canovaccio dell’intenso e fittissimo lavorìo tematico alla base della stessa concezione musicale.

Così Kát’a Kabanová vive il suo dramma di donna malmaritata nel segno della rinuncia, disperatamente persa nella solitudine e nella tensione ad una impossibile, luminosa, invincibile tensione verso l’utopia infinita. Janáček mette in tal modo in scena una sintassi del tragico tutta imperniata sul conflitto tra libertà e ideale da un lato e i legami che una società gretta esercita grazie a repressione e corruzione, che trovano il loro equivalente nel rapporto, incessantemente scambievole, tra il gravame ibseniano della famiglia Kabanov e il mondo genuinamente innocente della natura, dominato dal grande fiume, in cui, alla fine, la protagonista troverà la forza di annullarsi.

E qui trova, probabilmente, compimento e sintesi, solo nella morte, il destino di un’eroina continuamente scissa, nel suo agire drammatico, tra esigenze diverse: da un lato, nella prima parte, la vediamo vivere, come una perfetta eroina cechoviana, il dramma che contempla tutte le impossibilità, spinta da una forza cieca, ineluttabile, che la costringe a vivere ancora la vita e a subirla con il suo tragico quotidiano che è il fardello opprimente delle piccole cattiverie giornaliere, che non può che tradursi, alla fine, nella mediocrità di una vita senza certezze e senza vere illusioni, male oscuro di non saper più come e perché si viva, doloroso ripiegamento in sé stessi, oppressi dalla forza delle cose: il cieco caos della vita su cui non si può ripetere che un perché, senza risposta.

Da questa tragica spirale che è tragedia senza costrutto e senza prospettive, Kát’a riesce però, a differenza dei personaggi cechoviani, destinati all’eterna inedia, a scuotersi: l’amore, temuto e allo stesso tempo desiderato è la molla che conduce Kát’a fuori dalla sua prigione fredda e tetra, solo, tuttavia, per spingerla verso l’acqua del fiume e verso l’annullamento, vera, unica, santa liberazione. Logico che il dialogar melodico di Janáček, con la sua apparente povertà, il suo asciutto ripeter la cadenza del parlato, sia il mezzo migliore, disadorno com’è, per esprimer tutto questo, a patto, tuttavia, di saper, come sa, alludere continuamente ad altro, prospettando, in luogo della quotidiana dannazione, l’iperbolica e smagliante dimensione dell’illusione che si cela dietro le cose.

La frammentarietà, allora, del tessuto musicale, che porta fin dalla sua genesi il segno della discontinuità, del continuo spezzarsi della frase che si riverbera e si rifrange immediatamente in mille scintille di luce, finisce per possedere, come per un arcano intervento divino, un costante unicum che sorprendentemente ci restituisce, integro e fecondo, il nucleo intimo e vero della musica sua: al fondo della sua scrittura musicale, oltre il frantumarsi della scheggia sonora, trovi una creatura che, avida d’aria, allarga i suoi possenti polmoni a riempirli di pnêuma vitale, dilata a dismisura l’angustia del tracciato di partenza, fino a distintamente volare: la direzione musicale, l’interpretazione, l’azione scenica, la regia, se corrette, non possono far altro che assecondare questo possente respiro che senti in ogni punto dell’opera, al di sotto e al di sopra delle umane miserie.

Willy Decker, la cui regia, per lo Staatsoper di Amburgo è ripresa da Rebekka Stanzel, ci ha ben abituati, nel corso degli anni, alla genialità delle sue soluzioni sceniche, che si amano (è evidente ch’io son tra quelli) o, pervicacemente, implacabilmente, si odiano: basti pensare a quella che è, con ogni probabilità, la più famosa delle sue realizzazioni, la famosa Traviata del 2005 per il Salzburg Grosses Festspielhaus, passata alla storia, oltre che per originalità delle soluzioni, poi più o meno imitate da molti, anche perché, più mondanamente, lanciò, come stelle internazionali, i giovanissimi Anna Netrebko e Rolando Villázon. Ferocissime critiche si alzarono, come sempre, dai benpensanti – soprattutto di casa nostra – alla vista dello stralunato e tecnologico deserto bianco in cui si svolgeva l’azione (cui volendo, almeno concettualmente, si richiama la scatola scenica, per la grafica dello stesso Wolfgang Gussmann, della nostra Kát’a), ai frequenti cambi d’abito in scena della protagonista, in alternanza tra il vestito scarlatto delle feste della protagonista e la leggera sottoveste bianca della sincerità e della morte (simbolismi che pari pari ritroviamo anche in Kát’a, con la differenza che l’abito “d’ordinanza” della protagonista qui è, ovviamente, nero), al fare minaccioso e ostile del coro e dei comprimari che, massa gelida e minacciosa, perde ogni individualità, pronta ad impedire ogni possibile ribellione, ogni possibile trasgressione, obbligando ad un conformismo bieco e cupo. E allora, com’è bella, questa scatola scenica in cui si svolge tutta la breve azione!

Si dilata a dismisura, la domē dei Kabanov, si deforma fino al limite sopportabile della fibra lignea delle doghe grigie di cui è sobriamente fasciata, che, come in una antica litografia, saturano ogni spazio disponibile, sfuggendo a qualsiasi inopinato e terrifico horror vacui dovesse intervenire a turbare i sogni dei suoi abitanti, ricordando allora, ai nostri occhi attenti, piuttosto che una casa, la pancia asciutta d’un antico galeone affondato giù nelle profondità d’un mare opaco e ormai inaridito; deformandosi, tuttavia, si scompone, allora, nei suoi essenziali elementi, allarga le ali e le zampe, alza orgogliosa la testa, inarca la coda, finendo per sempre più rassomigliare, in questo mirabolante cangiarsi sotto gli occhi nostri, alla creatura ansiosa d’aria che è la musica cui s’ispira: penetra, infatti, l’aria, dalle innumeri porte e finestre, entra dalle pareti mobili che, come la casa di Goro, vanno e vengono obbedendo ad una sovrumana logica, spalancano orizzonti di lattiginosa e opalescente luce – perché la tenebra esiste solo se c’è luce, e viceversa – affollata del volo di metaforici gabbiani, perdendo ogni contatto con qualsivoglia realismo, insinuandosi in ogni possibile spazio, incontrastato e inafferrabile e incontrollabile pnêuma che soffia dove vuole, vivificando gli occhi e la mente dei protagonisti, gonfiandoli d’erratici pensieri, rendendo gli uomini e le donne, alla prova dei fatti, di null’altra consistenza e sostanza che le ombre loro, che furtive e stanche s’aggirano lungo i muri, nella stanza – o ciò che era una stanza – intristita da tavoli e sedie fatti per non dare alcun conforto, simili ormai, come sono, a paurosi e oscuri strumenti della tortura che questi abitanti usano darsi l’un l’altro.

Che dire, della direzione di Juraj Valčuha e di questa potente macchina da musica che è ormai dìventata l’Orchestra del San Carlo, che non abbiamo già detto in altre occasioni? Possiamo solo tranquillamente e in tutta coscienza ripetere che ci è sembrata, così, la musica di Janáček, restituirci alla perfezione il suono perfetto dei suoi incisi musicali, in cui ogni nota ha, in tutta evidenza, la sua precisa ragion d’essere, indicando l’evidenza e tuttavia alludendo ad altro, in un franto e complesso iter che ci porta lontano: alla fine, oltre il frammento, oltre la sintesi che fa l’unità dell’opera, perfino oltre il respiro dell’anima che è, come detto, la caratteristica di questa partitura, scopri, ben celato al di sotto, ma chiaramente indicato dal Maestro Valčuha e dai suoi professori, un indicibile e indisciolto grumo di dolore, coagulo di disperazione che, come il gelo del ghiaccio e della neve, non si scioglie mai, respinge la luce, si attesta buio in fondo al tessuto musicale, in attesa che qualcuno, dotato della forza e della sensibilità necessarie, arrivi a portarlo, per quanto possibile, alla luce, ai sensi intorpiditi di chi siede in platea, a fargli provare il brivido della sua incommensurabile forza.

Così è pure per gli interpreti, per me sconosciuti finora, di cui ho apprezzato, in generale, doti musicali e attorali, a cominciare dalla protagonista, salutata da un lungo e intenso applauso, alla fine, dal non numeroso ma entusiasta pubblico: Pavla Vykopalova è una Kát’a intensa, fragile e potente al tempo stesso, che riesce a totalmente calarsi nel suo personaggio, offrendo di volta in volta le varie sfumature del personaggio, di donna sofferente, chiusa nel suo dolore senza orizzonti, di donna che sogna di volare, inseguendo miraggi che si allontanano da lei come gabbiani, di adultera sensuale e appassionata, a patto di soffrire, poi, dei sensi di colpa dovuti alla pressione sociale. Tutte queste caratteristiche le ritroviamo prima di tutto nella voce, mostrando una incredibile flessibilità e una raffinatezza degna della più grandi dive, ma la presenza scenica non è da meno, mostrando sensibilità, carisma e doti espressive decisamente fuori dal comune, sapendoci donare un’interpretazione di Kát’a del tutto vera e completa.

Una gemma è la spigolosa, espressiva, convincente oltre ogni misura, interpretazione di Gabriela Beňačková della terribile suocera Kabanicha, mostro di donna che necessita tuttavia di grande equilibrio per non cadere nel ridicolo o nel grottesco; degna di nota è pure l’interpretazione di Lena Belkina, una giovane Varvara fresca e dalla linea musicale sempre perfetta. Leggermente più in ombra le parti maschili, dall’innamorato Boris di Misha Didyk dalla bella voce pastosa, a Ludovit Ludha nella parte drammaticamente centrata dell’irresoluto marito Tichon.

La perfetta macchina scenica di Kát’a Kabanová
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

La perfetta macchina scenica di Kát’a Kabanová

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×