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Il Tamerlano di Handel e Livermore conquista la Scala

Il Tamerlano di Handel e Livermore conquista la Scala
Fermata Spettacolo

Con la Battaglia di Vienna del 1683 le mire espansionistiche degli Ottomani in Europa iniziano a cedere. Al centro di un fuoco incrociato che li vede accerchiati dalle potenze occidentali da un lato, da Russia e Persia ad est, dalle rivolte interne nelle province balcaniche e arabe e dai colpi di Stato dei Giannizzeri, i Sultani della Sublime Porta non sono più una seria minaccia per il Vecchio Continente.
Il Medio Oriente torna così ad essere un interessante riferimento esotico, come lo era ai tempi di Marco Polo e Giovanni Boccaccio, del Saladino e dei Khanati. Nella stessa Battaglia di Vienna del 1683 furono inventati, vuole la tradizione, il dolce croissant (crescente, come la mezzaluna dei vessilli turchi) e il caffè cappuccino (come i frati che assistevano i feriti). Nel 1704 Galland traduce a Parigi le Mille e una Notte e si reinaugura una stagione delle cosiddette turcherie, ossia i vezzi estetici di gusto vagamente orientaleggiante che furoreggiavano nei salotti buoni delle corti europee e che, talvolta, fornirono il pretesto per provocazioni di natura più seria, come le note Lettres persanes di Montesquieu del 1721.

foto di Teatro alla Scala

Il Tamerlano di Händel del 1724 si inserisce in questo contesto culturale che influì, ad esempio, anche sul nostro Vivaldi, il quale avrebbe scritto di lì a pochi anni un suo Tamerlano, poi rinominato Bajazet, egualmente premiato dal pubblico dell’epoca.
L’opera di Händel vanta tuttavia pregi peculiari. Da un lato si riconosce nell’ouverture un’importanza musicale rara per l’epoca, con anticipazione di temi poi riproposti in corso d’opera, dall’altro lato per la prima volta viene affidato al registro di tenore un ruolo protagonista in luogo del registro contralto, rompendo una tradizione che, a dire il vero, stava già tentennando.
La musica, sebbene composta in una manciata di giorni, è molto gradevole e ricca di momenti davvero interessanti. L’assenza di frasi celebri o arie memorabili è ampiamente condonata da un susseguirsi sapiente di dinamiche e sviluppi mai troppo arditi né senza dubbio mai banali. Ovviamente, trattandosi del XVIII secolo e di Georg Frederic Händel, le citazioni e le autocitazioni si sprecano a dismisura.
La trama non ha nulla di eccezionale e niente di storicamente valido. Tamerlano è l’immaturo incontentabile conquistatore, Bajazet l’irriducibile vecchio sdegnoso, Andronico il giovane sprovveduto aristocratico. Le due donne, pedina di padre e amanti Asteria, succube delle circostanze Irene, quasi non influiscono sul procedere degli eventi.

Il tradizionale triangolo amoroso è, come al solito, intrecciato secondo il gusto squisitamente italiano del “caro sassone”. Tamerlano è amato da Irene e suo promesso sposo ma ama Asteria che, però, ama ricambiata il fidanzato Andronico. Bajazet, padre di Asteria e amico di Andronico, sconfitto da Tamerlano, si oppone al nuovo sovrano e alla sua volontà amorosa. Leone, il vecchio saggio amico di tutti, fa la morale etica in un paio di scenografiche apparizioni.
La vicenda, per quanto banale, tiene alta la tensione teatrale con numerosi colpi di scena e capovolgimenti drammatici, dall’incipit in medias res alla conclusione corale, straordinariamente patetica. Il libretto di Nicola Francesco Haym, italiano trasmigratore e poliglotta, nonché intellettuale poliderico, è piuttosto felice negli esiti privi di eccessivi arcaismi o di rime scontate e anche sapientemente ironico in molti passaggi decisivi. La storia, seppur ambientata in Turchia in pieno XIV secolo, pare quasi priva di riferimenti spazio-temporali.

foto di Teatro alla Scala

Approfitta a piene mani dell’atemporale universalità e della ricchezza musicale del Tamerlano il bravo regista Davide Livermore, per la prima volta alla Scala. Dichiarando esplicitamente il rifiuto di un allestimento realistico, l’artista torinese, eccentrico e inconvenzionale, traspone baracca e burattini nella Russia immediatamente postrivoluzionaria, a cento anni esatti dalla Rivolzuione d’Ottobre del 1917.
Bajazet è a capo dei cosacchi zaristi, Tamerlano comanda i regolari dell’Armata Rossa, Andronico è un funzionario bolscevico, Leone un tenebroso monaco ortodosso. Nicola II, Josif Stalin, Vladimir Lenin e Rasputin ai tempi della guerra civile tra i bianchi e i rossi. I costumi e gli oggetti di scena sono vividissimi, quasi documentaristici.
Se non fosse che la Storia ha già condannato l’assolutismo monarchico e sugli eccessi rivoluzionari il dibattito nel mondo sia ancora tutt’altro che concluso, potrebbe quasi sembrare che Livermore voglia rivalutare lo zarismo a discapito del bolscevismo.
Di fronte ad un testo tutto di metafore e di retorica, Livermore fa recitare i cantanti come veri attori. Tamerlano schiaffeggia tutti ad ogni scena, si ubriaca e spadroneggia sui suoi seguaci, è violento persino quando dichiara amore, Bajazet è sempre allo stremo e pure l’uniforme bianca è sporca e sgualcita, Andronico pare ancora più pusillanime di quanto già non sia, nel suo insipido completo impiegatizio. Estratte da cartoline belle époque le due donne, icone di un’eleganza frizzante e appariscente che, senza dubbio, il novecento spazzò via a suon di guerre e sangue e di cui è piuttosto nostalgico rimpiangere gli sfarzi.

foto di Teatro alla Scala

I personaggi ne escono così un poco travisati e la rivisitazione scenica spesso stride con le parole cantate. A tutti gli effetti Tamerlano non è il prepotente vizioso quale agisce: è l’unico che è mosso da amore, è il solo che perdona e che tenta di riparare alle conseguenze dei sui gesti, per quanto irruentemente e immaturamente. Bajazet, al contrario, agisce sempre e solo per vendetta e onore, esige di comandare ognuno a bacchetta, come se non fosse lui il perdente in catene; al culmine della spannung dichiara definitivo sprezzo per le umili origini di Tamerlano, un pastore che si erge a monarca.
Eccoli i due antipodi. La Storia che avanza con le sue contraddizioni e l’Ancien régime che non si arrende al futuro, l’amore appassionato che commette errori e i matrimoni combinati studiati al bilancino. Tamerlano è una rottura degli schemi, la sua voce eterea cela un temperamento guerresco, la sua travolgente carriera militare è macchiata dalla debolezza d’amore. Bajazet è sempre uguale a se stesso, fino a stancarsi e a cogliere il punto: il problema è lui, e non il suo nemico.
La schermaglia d’onore tra i due litiganti cessa proprio quando il vecchio Bajazet, falliti i tentativi di sabotaggio e vendetta, si autoimmola per la salvezza e la pace di tutti gli altri. Scelta saggia, benché motivata dai rancori dell’orgoglio, e che muove a pietà anche Tamerlano che era appena stato così tratto allo stremo della pazienza da aver voluto brutalmente condannare persino Asteria, la sua tanto desiderata pupilla, al ludibrio dei suoi schiavi.
Tolto di scena il vecchio Re, i giovani trovano in tempo di record una soluzione pacifica e dialogante ai quiproquo che li hanno tormentati per tre atti interi: si ricompongono le coppie ufficiali e si conclude una pace, per vivere tutti felici e contenti. Tamerlano rinuncia ad ogni pretesa e ad ogni vendetta, concede perdono e domanda scusa, come alla fine di un romanzo di formazione.

foto di Teatro alla Scala

Lo spettacolo è ricostruito con una maestria davvero notevole. Come un colossal holliwoodiano Livermore realizza scene esteticamente mastodontiche e, al pari di Händel, non risparmia le citazioni. L’enorme testa di statua trascinata a funi sul nevischio ricorda il colosso di Nicola Romanov in Ottobre di Sergej Michailovic Eisenstein, la carrozza nella neve, il treno blindato e il palazzo occupato fanno il verso al Dotto Zhivago di David Lean, l’affettata delicatezza degli incontri fugaci nel treno-salotto e nel palazzo sventrato citano Luchino Visconti, le finte moviole al contrario dei soldati in combattimento sono espediente assodato da commedia leggera e, infine, le gestualità rituali spezzate da movimenti inconsulti delle comparse ricordano il Tanztheater di Pina Bausch. Forse anche troppo e, quando sul finire una donna si accascia a terra e mima vistosamente una luttuosa sofferenza, sembra di rivedere la fantozziana scena del cineforum sulla Corazzata Potemkin di cui in effetti non manca granché: “l’occhio della madre”, “la carrozzella col bambino”, “gli stivali dei soldati”, “il montaggio analogico”…
Gli elementi di distrazione da musica e libretto sono molti (talvolta anche rumorosi, come la grande scalinata che cala nel terzo atto), ma mai casuali, e così Livermore riesce ad appassionare una sala gremitissima di spettatori ad un’opera di Händel raramente eseguita. L’horror vacui barocco viene qui ripresentato in forma di grand-opéra, con moltitudini di comparse e azioni sulla scena che fanno da riempitivo su una colonna sonora naturalmente ripetitiva e ridondante.
Nonostante le discrepanze col libretto le scelte di regia risultano infine felici e riuscitissime, raccogliendo una vera e propria acclamazione da parte del pubblico. Del resto, in conclusione, gli zaristi fanno una figura ben più magra dei bolscevichi, nonostante ogni apparenza.
Suscitano ammirazione i costumi realistici ed evocativi di Mariana Fracasso. Molto ben riusciti anche gli effetti delle videoproiezioni di battaglie mimate e della taiga in scorrimento, grazie al bel lavoro del team Videomakers D-Wok. Le luci, cinematografiche come tutti gli effetti dello spettacolo, sono firmate da Antonio Castro. La scenografia, infine, capolavoro di tecnica e di inventiva teatrale, è frutto della creatività del regista Davide Livermore insieme a Giò Forma.

foto di Teatro alla Scala

A riempire la sala però, occorre ammetterlo, è stato senza dubbio anche un grande nome ascritto al cast: Placido Domingo. L’anziano tenore torna alla Scala in gran stile, dopo l’esperienza da baritono verdiano non perfettamente edificante. Certo, l’età si fa sentire e non si può dire che l’esibizione sia di livello eccellente, mancano timbro e tecnica, oltre a diverse amnesie e variazioni sulla parte, ma è pur sempre un grande artista internazionale che ha fatto e continua a fare la storia del teatro. Il suo portato drammatico e la sua intensità emotiva risplendono sul palcoscenico della Scala e le attenzioni sono tutte su di lui, su Placido. Ogni sua frase, ogni sua aria, ogni suo recitativo richiamano l’applauso del pubblico. Un Bajazet memorabile e imponente.
E con Domingo salgono alle stelle due debuttanti scaligeri, Bejun Mehta e Franco Fagioli. Era da molto tempo che non si ascoltavano falsettisti al Teatro alla Scala di Milano e si torna a farlo in questa occasione dorata, con una performance di ineguagliabile livello. I due cantanti interpretano i ruoli protagonisti con impeccabile precisione tecnica e una sensazionale capacità espressiva, facendoci rimpiangere i fasti dei controtenori, quando le donne sul palco erano molte di meno e le parti di contralto, mezzosoprano e soprano erano affidate a falsettisti o a castrati. Tamerlano e Andronico sono giovani uomini i cui sentimenti sovrastano l’umana meschinità, per questo il loro registro angelico non stride affatto con l’aspetto mascolino dei cantanti e la trasfigurazione musicale può avvenire senza impedimento o imbarazzo. Bravissimi Mehta e Fagioli, eccellenti cantanti e attori convincenti, per loro il Teatro ha riservato boati di consenso e di ammirazione. Ad maiora.
Molto bene Christian Senn, il possente basso che interpreta Leone. Una voce che riempie il teatro, un timbro che scuote l’aria e una buona presenza scenica per questo giovane cantante in ascesa. Grandi applausi anche per lui.
Calorosi applausi per le due donne del cast, Maria Grazia Schiavo e Marianne Crebassa. Asteria e Irene, soprano e mezzosoprano. La Schiavo cesella la parte con delicatezza angelica e fraseggio di precisione, dimostrando una tecnica di primo livello. La Crebassa, che abbiamo imparato ad apprezzare in ruoli e repertori diversissimi, regala ancora una volta un’esibizione emozionante e squisitamente espressiva. Le due cantanti raccolgono i favori del pubblico al pari dei colleghi, coronando un cast di prim’ordine.

foto di Teatro alla Scala

In buca d’orchestra il maestro Diego Fasolis compie un vero e proprio capolavoro. Il direttore barocchista non opta per una versione o l’altra del Tamerlano, la sua ricerca filologica lo porta invece ad assemblare uno spettacolo su misura per la serata, un lavoro sartoriale, piuttosto che a ricostruire fedelmente l’opera. La scelta coraggiosa sconta i dubbi e le critiche dei puristi, che si devono accontentare di un’esecuzione fatta con strumenti antichi e orchestrazione filologica. In buca d’orchestra, insieme ai maestri scaligeri, la compagine de I barocchisti della RSI-Radiotelevisione Svizzera a suggellare una collaborazione di altissima qualità.
Lo spettacolo riesce, assecondando i tempi e le esigenze di palcoscenico senza tradire Händel e il Tamerlano. Il pubblico, nonostante qualche timida incertezza, premia calorosamente direttore e orchestra per la splendida esibizione.

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