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L’esperienza è solo un tipo di conoscenza

Caro lettore,

La scuola filosofica degli Stoici, nata nell’antica Grecia, riuscì a influenzare notevolmente la mentalità del mondo, poiché fu accolta a braccia aperte anche, successivamente, da molti uomini di potere dell’antica Roma, e di riflesso si trasmise nelle epoche seguenti fino anche alla nostra. In particolare, semplificando, la loro teoria riguardo alla conoscenza delle cose era questa: non si potrebbe conoscere niente finché non lo si è toccato con mano, finché non se n’è fatta esperienza in prima persona. Questo fu uno dei tratti stoici che più sopravvisse nel tempo. Per esempio, ne troviamo abbondanti tracce nel Rinascimento, specialmente tardo, che ha visto la nascita della rivoluzione scientifica: il metodo scientifico che ne derivò, e non meno i pensieri che ci contribuirono, indicavano l’esperimento (ovvero la presa di coscienza diretta sull’evento da osservare) come fonte insostituibile di convalida della tesi sostenuta.

In altre parole, solo se la tesi è confermata dall’esperimento ad essa funzionale può essere ritenuta valida, altrimenti no. Il che non è sbagliato. Sulla scia di questa intuizione, però, sembra che la mentalità contemporanea abbia preso troppo a piene mani dalla centralità dell’esperienza che suggerivano gli Stoici. Rimanendo nel campo dell’esperimento scientifico, oggi a molti verrebbe naturale sostenere, in fin dei conti, addirittura un estremismo di questa idea: se una tesi non è ancora stata provata sperimentalmente, non può essere valida. Facendo così, l’esperienza diventa un valore inestimabile e assolutamente necessario, non più solo un utile ma teoricamente superfluo aiuto e strumento di verifica. Questa credenza, alla lunga, ha fatto filtrare anche alcune opinioni decisamente erronee, seppur dibattute ancora; per esempio, un adulto è ritenuto da molti, a prescindere, più intelligente e più abile di un giovane, solo perché ha acquisito più esperienza e quindi (solo secondo l’estremizzazione della teoria stoica di cui si parlava) conoscerebbe meglio il mondo – per non parlare di quando, addirittura, ci si attacca morbosamente all’arbitraria età di 18 anni, decisa (giustamente) a tavolino per legge come traguardo di acquisizione di esperienza, come spartiacque tra infanti e saggi.

Una delle frasi ricorrenti su molti social network – ma potrei probabilmente citarne a decine con significato analogo – è, non a caso, la seguente, originariamente di Pirandello: “Prima di giudicare i miei atteggiamenti e il mio carattere, metti le mie scarpe, percorri il mio cammino. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduta io, ma soprattutto, trova il coraggio di rialzarti come ho fatto io.”, che viene spesso assurdamente trasformata e applicata come “Non puoi giudicare se quello che faccio è bene o male perché tu non conosci il mio passato”. Ovviamente, queste sono grandi falsità: la ragione è tranquillamente in grado, obbiettivamente, di determinare se qualcosa è giusto o sbagliato indipendentemente da se il soggetto pensante ha vissuto o meno la situazione in questione in prima persona. Solamente, spesso ci si attacca al fatto che qualcuno che non ha mai vissuto coscientemente qualcosa manca di questa stessa sensazione.

Possiamo arrivare a sfatare questo mito analizzando appunto questo concetto, che in filosofia prende il nome latino di “quale” (plurale: “qualia”). I qualia, definiti così per la prima volta dal filosofo e psicologo Daniel Dennet, sono appunto gli aspetti qualitativi delle nostre esperienze coscienti, ciò che non possiamo descrivere a parole di quello che proviamo in seguito ad un’esperienza. I qualia, osserva Dennet, hanno quattro caratteristiche fondamentali: sono ineffabili, quindi non è possibile per definizione trasmetterli a parole, intrinsechi, ovvero elementi semplici e non riconducibili ad altri, privati, non paragonabili a quelli di altri soggetti, e direttamente apprensibili, ovvero immediate e non influenzate pertanto dalla coscienza.

Proprio per questa loro ultima caratteristica, sono unici: non è possibile dimostrare ed è anche piuttosto improbabile che ogni persona provi esattamente la stessa cosa in risposta ad una percezione analoga. Infatti, il quale specifico per ogni tipo di esperienza è ragionevole pensare che derivi dal connubio della psicologia, del contesto, del vissuto, della personalità e della mentalità del soggetto, cose strettamente legate alla sua soggettività. Già da questo possiamo intuire che sia stupido basare la ricerca del bene e del male solo sull’esperienza, in quanto non può aspirare assolutamente a costituire un criterio oggettivo di conoscenza; dato che abbiamo precedentemente dimostrato che esiste una verità e che è possibile individuarla, dobbiamo cercare di capire che parte siano i qualia della nostra conoscenza di una cosa.

Uno dei primi a dare una risposta interessante a questo tema comprendendo questa intuizione (seppur non avesse ancora definito il termine “quale”) fu il seicentesco francese Blaise Pascal. Egli teorizzò, giustamente, che l’uomo conosce le cose automaticamente in due modi distinti, grazie a due facoltà: lo “spirito geometrico” e lo “spirito di finezza“. Il primo corrisponde all’approccio razionale verso la novità, alla comprensione concettuale dell’oggetto e all’eventuale progettazione di cosa fare in merito ad esso, mentre il secondo corrisponde grossomodo ai moderni qualia. Più avanti Pascal criticò le precedenti scienze e la precedente filosofia per il loro eccessivo attaccamento allo spirito geometrico, ma questa è un’altra questione: ciò che conta è che riuscii finalmente ad isolare due diversi aspetti della conoscenza.

Quando conosciamo qualcosa, dunque, ne apprendiamo un significato oggettivo e uno soggettivo. Bisogna che l’uomo di ragione sappia distinguere i due e capire la loro funzione. Il primo, infatti, è l’unico necessario al discorso razionale e quindi alla ricerca della verità; in altre parole, esso è il nostro adattamento ad un linguaggio con cui poter trasmettere e comprendere un concetto. La verità, il giusto e lo sbagliato, si compone di concetti, non di sensazioni, così come si compone di oggettività e non di opinioni, perciò si nota come l’esperienza non possa essere assolutamente indispensabile per individuarla.

Per capire meglio il concetto, è utile citare l’esperimento dello spettro invertito, proposto per primo da John Locke. Immaginiamo che due persone vedano una fragola, e che la prima la percepisca, parlando di qualia, di colore rosso, mentre la seconda di colore verde; tuttavia, entrambe le persone diranno che la fragola è rossa, semplicemente perché hanno imparato ad utilizzare un linguaggio in cui il proprio personale quale legato all’esperienza della vista della fragola è associato al concetto di “rosso”, anche se, nonostante ciò non sia comunicabile per colpa dell’ineffabilità dei qualia, rappresenta a livello soggettivo due sensazioni diverse. Possiamo notare come, in ogni caso, la ricerca della verità (mettersi d’accordo sul colore della fragola, nel banale esempio citato) rimanga oggettiva e slegata dalla conoscenza soggettiva.

Invece, per comprendere come la conoscenza di un fenomeno possa essere slegata dalla sfera percettiva, si può esaminare un articolo uscito nel 1986 per una rivista australiana, intitolato “Ciò che Mary non sapeva“, di Frank Johnson. Immaginiamo stavolta di avere Mary, una donna cresciuta tutta la sua vita in una stanza senza finestre, senza specchi, dove tutto è bianco e nero, e comunque messa in condizione di poter vedere solo e unicamente il bianco ed il nero; ma immaginiamo anche che Mary, appassionata di neurochirurgia, possa accedere ad un manuale riguardante la percezione dei colori da parte del cervello. Studiando, la donna potrebbe arrivare a conoscere perfettamente cosa voglia dire vedere un colore, in modo che nulla sull’argomento le possa sfuggire. Eppure, se Mary un giorno potesse uscire dalla stanza e vedere realmente i colori, nonostante non potesse apprendere nulla di più sull’argomento, indubbiamente imparerebbe qualcosa di nuovo. Questo non è un paradosso: semplicemente avrebbe acquisito dei nuovi qualia legati a nuove esperienze, e questo significa che l’esperienza serve sì a conoscere, ma a conoscere principalmente delle cose slegate dall’ambito della ricerca della verità. Infatti, Mary conosceva razionalmente tutto quello che avrebbe potuto mai servirle sull’argomento.

Perciò, è assolutamente vero che l’esperienza possa, in quanto generatrice di qualia, aiutare a comprendere le cose, ma sembra evidente come non sia assolutamente indispensabile per la conoscenza: finalmente, una persona con meno esperienza ma più addestrata all’uso giudizioso della ragione è potenzialmente migliore con una più esperta. L’esperienza è né più né meno come Tommaso d’Aquino, il principale fondatore della moderna dottrina cristiana cattolica, intendeva la grazia divina: un valido aiuto, ma non indispensabile, teoricamente, per la salvezza e il raggiungimento della verità.

Ciao, Ema




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