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Una donna chiamata Maixabel recensione film di Icíar Bollaín

Una donna chiamata Maixabel recensione film di Icíar Bollaín con Blanca Portillo, Luis Tosar e Urko Olazabal.

Una donna chiamata Maixabel (Credits Movies Inspired)

Alla morte di Francisco Franco, tra le pieghe di un popolo martoriato dalla sua tirannica dittatura, si instaura la Euskadi Ta Askatasuna (ETA), organizzazione terroristica indipendente, nazionalista, socialista e rivoluzionaria con l’obiettivo di costituire uno Stato socialista in Euskal Herria – i Paesi Baschi – e di garantirne la sua indipendenza dalla Spagna e dalla Francia.

Nell’intento di perseguire i propri obiettivi indipendentisti, nel corso di sessant’anni di storia, tra il 1958 e il 2018, l’ETA ha causato la morte di 864 persone.

Anche Juan María Jáuregui Apalategui, in giovane età, ne ha fatto parte e, ironia della sorte, saranno proprio tre membri dell’ETA ad assassinarlo alla fine del luglio del 2000. Era un politico socialista spagnolo e governatore civile di Guipúzcoa dal 1994 al 1996 e, quando venne assassinato, si trovava a Tolosa, dove si recava occasionalmente per rivedere la moglie e la figlia, dalle quali si era allontanato proprio per ragioni di sicurezza.

Ma il film di Icíar Bollaín non racconta questo o, meglio, si propone di non raccontare solo questo. La maggior parte delle pellicole che si rendono portavoce del passato finiscono per divenire una cronaca dei fatti, narrando la storia di colui al quale attenteranno la vita, seguendone i passi nei giorni antecedenti come una marcia funebre verso l’inevitabile tragico destino. Bollaín decide di mostrarci l’oltre, quello che accade dopo, non solo attraverso il dolore delle vittime ma anche mettendo in luce il pentimento dei carnefici.

Al centro di tutto c’è Maixabel Lasa, compagna di vita fin dall’adolescenza di Juan Maria Jauregui, moglie e madre della sua unica figlia Maria. Donna ancora prontamente attiva nel sociale, direttrice dell’Ufficio per l’attenzione alle vittime del terrorismo del governo basco tra il 2001 e il 2012. Undici anni dopo l’attentato a suo marito, riceve la richiesta di incontrare uno degli assassini che, dopo aver abbandonato la lotta armata, sente la necessità di parlarle.

Una donna chiamata Maixabel (Credits: Movies Inspired)

La pellicola di Icíar Bollaín diventa così una cronaca intima di pensieri celati e dolori troppo forti da manifestare. Mentre Maria, la figlia, prima si indigna poi si allontana con rispetto dalla scelta della madre la quale, con estremo altruismo chiede e ascolta, si confronta – e a suo modo anche perdona – con due dei tre uomini che le strapparono via il futuro trasformandola in una vedova.

Il volto, il coraggio e la determinazione della protagonista sono impersonati da Blanca Portillo, che si è immedesimata nel ruolo a tal punto da prenderne anche i tratti e le sembianze fisiche. Un’interpretazione sommessa ma intensa, che le è valso il Premio Goya per la miglior interpretazione femminile e che racchiude tutta la difficoltà che l’animo attraversa nel percorrere la strada del perdono, lasciandoci la sensazione di arrivarci molto vicino senza mai raggiungerlo veramente, perché a volte il male è così estremo da renderlo inconcepibile.

Grazie anche alla fotografia, cupa, tenue di Javier Aguirre, e alla sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla regista insieme a Isa Campo, il racconto si trasforma in una cronaca del reale in cui i dialoghi la fanno da padrone, lasciando allo spettatore riflessioni e pensieri. Questa scelta rende la visione lenta, privata di ritmo, facendo convogliare ogni azione esterna al confronto tra la donna e i carnefici, verso il confronto sempre verbale e, solo sul finale, lasciando virare il film nell’intimismo, scelta che garantisce una partecipazione del pubblico più viscerale e conseguentemente commovente.

Una donna chiamata Maixabel tratta di una storia vera, lontana dal nostro immaginario ma molto simile ad altre storie di cui siamo stati testimoni nel nostro vissuto politico. Forse è anche per questo che diventa facile immedesimarsi con quell’amarezza di fondo che affiora per tutta la durata della pellicola e che la rende sì difficile da assimilare ma anche estremamente toccante.

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