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Houria recensione film di Mounia Meddour [RomaFF17]

Houria recensione film di Mounia Meddour con Lyna Khoudri, Rachida Brakni, Salim Kissari, Marwan Zeghbib e Amira Hilda Douaouda

Perdere se stessi al punto da non riuscire più a comunicare con il mondo in modo convenzionale. Una condizione, questa, che in un contemporaneo come quello che abitiamo è più presente che mai. Ce lo dimostra Houria, film di Mounia Meddour presentato in anteprima alla 17° edizione della Festa del Cinema di Roma.

In un’Algeria appena accennata, che diventa la terra di tutti i reietti e gli esclusi, si fa spazio una storia muta, perché è difficile trovare parole con le quali affrontare un mondo che non vuole ascoltare. Tra danza e scoperta del sé, il film esplora tematiche universali senza pretendere di trovare una soluzione ai mali che si insinuano, come vipere in campi di grano, all’interno della società contemporanea. Quella rappresentata è l’Algeria del regime, del post-terrorismo, vibrantemente attuale. Un luogo dove le opportunità sono poche, come dimostra il personaggio della giovane Houria (Lyna Khoudri), ballerina desiderosa di far diventare la propria passione mestiere, che, però, al calare della notte, scende dalle punte per puntare sui montoni delle lotte clandestine, legale illegalità che si svolge alla “luce dell’ombra”, così da guadagnare abbastanza per comprare una macchina alla madre (Rachida Brakni). La posta in gioco è alta e per ottenere un cambiamento è spesso necessario un sacrificio: Houria viene, infatti, aggredita dal proprietario della bestia su cui lei ha puntato a sfavore, vincendo una gran quantità di denaro. La colluttazione porta a una rocambolesca caduta dalle scale, che le provoca una frattura della caviglia e un trauma cranico. Il suo futuro nella danza è spezzato, ma mai quanto la sua persona. Questo evento le ha fatto perdere la voce, che sia per sua scelta o per fatalità poco importa.

Rachida Brakni (Credits: Connection highsea production 2022)
Lyna Khoudri (Credits: Connection highsea production 2022)

Come voler proferire parola in un mondo sordo? La polizia non muove un dito contro l’aggressore (ex-terrorista, tra l’altro), che viene subito identificato dalla vittima, e nessuno sembra voler sostenere la ragazza al di fuori della sua famiglia, vuoi per sudditanza, vuoi per paura. Se il mondo come prima non può tornare, allora bisogna avere la forza e la determinazione di crearne uno nuovo, costruito assieme a coloro che sono in grado di prenderti sul serio, di rendere l’invisibile visibile. Donne spezzate ma resilienti contrapposte a uomini tutti d’un pezzo, ma incapaci di comunicare, non più dei montoni che si azzuffano e si scornano per il controllo del territorio. Un territorio inesistente, a eccezione di una terrazza apparentemente circondata dall’infinito nulla dell’orizzonte marittimo, unico luogo effettivamente tangibile, dove la libertà sembra diventare una meta plausibile, lontana dallo sguardo maschile, lontana dallo sguardo istituzionale; isola sperduta nell’oceano dell’indifferenza, dove l’unico interlocutore è chi ha avuto il coraggio di ascoltare un urlo nella folla.

Lyna Khoudri (Credits: Etienne Rougery)

L’esperienza visiva di Houria è altamente ipnotica. Nella sua baraonda iniziale, che scombussola e sconquassa, con questa regia avvinghiata ai corpi, come un parassita, mentre colori provenienti dai più reconditi sogni sibillini incantano e guidano gli occhi verso scogli di suggestione, ci si dirige man mano verso una messa a fuoco narrativa che prende forma e si interrompe con un’esplosione stilistica ed espressiva folgorante. “Si interrompe”. Proprio qui teniamo ad arrivare, perché il film non ha una conclusione, non risolve i dilemmi aperti, non mette la parola fine sul percorso iniziato. Questo perché concludere un frammento di realtà come questo risulterebbe superfluo, ridondante. Non c’è lieto fine, ma non c’è neanche la fine. La sospensione del giudizio rimanda a un futuro da scrivere, davanti e dietro la macchina da presa. Di conseguenza, un film come Houria non può che fermarsi al suo apice espressivo, dove l’attenzione si focalizza e il ricordo si forgia. È una pellicola che innalza a messaggio il concetto di interruzione: di una vita, una carriera, un viaggio, una speranza, un futuro, una narrazione. Non puoi chiudere un film come questo se non praticando un taglio netto, deciso, capace di parlare molto più loquacemente di qualsiasi altro finale. Un ballo rituale di resilienza e consapevolezza. La forza dialettica di un gesto interrotto.

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