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Schindler’s List recensione film di Steven Spielberg con Liam Neeson e Ben Kingsley

Schindler’s List recensione del film di Steven Spielberg con Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Embeth Davidtz e Olivia Dabrowska

All’indomani del tiepido successo di Hook – Capitan Uncino (1991) – ampiamente rivalutato nei suoi intenti di rilettura postmoderna – per Steven Spielberg giunse il momento della definitiva consacrazione. L’apice di un’inarrestabile ascesa avuta inizio negli anni ottanta e che nel 1993 vide il cineasta nativo di Cincinnati dar vita a quelle due opere che gli varranno (se non già da adesso), l’immortalità artistica: Jurassic Park e Schindler’s List – La lista di Schindler (1993).

Dicevamo, gli anni ottanta. Formidabile decade che per Spielberg ha rappresentato molto più che un susseguirsi di anni solari. Piuttosto un concatenamento di produzioni che gli permisero d’imporsi come “costruttore d’immaginari”. Sono infatti gli anni della trilogia del più grande eroe cinematografico americano: Indiana Jones e della codifica della grammatica filmica del cinema teen d’avventura. Genere neonato dalle ceneri della libertà creativa new-hollywoodiana di cui Spielberg gettò le basi con E.T. – L’extraterrestre (1982) per poi trovare consolidamento sotto la sua guida produttiva tra Chris Columbus, Barry Levinson e Robert Zemeckis con Gremlins (1984); Piramide di paura (1985); Ritorno al futuro (1985); I Goonies (1985).

Olivia Dabrowska in una scena di Schindler’s List

Ma soprattutto, è la decade della deriva più matura e d’impegno sociale de Il colore viola (1985) e L’impero del sole (1987). Pellicole a cui il regista si avvicinerà con un certo timore reverenziale, ma che risulteranno funzionali per la sua formazione; dandogli il definitivo là creativo, specie nella gestione dell’immensa mole narrativa di Schindler’s List.

Ironia della sorte però, Spielberg sarebbe dovuto figurare unicamente come produttore, non sentendosi all’altezza di un simile compito. Di tutt’altra opinione Syd Sheinberg che credeva così tanto in lui dall’acquistare nel 1982 i diritti del romanzo omonimo di Thomas Keneally per poterci lavorare in prospettiva futura. Dieci anni dopo, l’opera letteraria prese finalmente vita sul grande schermo grazie allo script di Steven Zaillian, ma non fu per niente facile.

Schindler’s List: sinossi

Cracovia, 1939. Poco dopo l’inizio della seconda guerra mondiale le truppe naziste invadono la Polonia. Le città polacche vengono liquidate e gli ebrei hanno l’obbligo di essere schedati e infine deportati nei campi di concentramento. Nel pieno delle grandi manovre naziste, un imprenditore tedesco vicino al partito, Oskar Schindler (Liam Neeson) ha un’idea. Approfittando del divieto di avere attività commerciali, Schindler impianta un’azienda che produce pentole e tegami da fornire all’esercito; determinando così un monopolio assoluto per cause di forza maggiore.

Per il raggiungimento dei suoi scopi capitalistici, Schindler chiede aiuto al contabile ebreo Itzhak Stern (Ben Kingsley). Il suo ruolo sarà fondamentale perché nonostante le iniziali perplessità, Stern si scoprirà essere un eccellente stratega nel recupero di fondi e nell’anticipare i desideri degli investitori nazisti. Avviata la DEF (Deutsche Emaillewarenfabrik), questa diventerà rapidamente un rifugio sicuro per migliaia di lavoratori ebrei nonostante le ritrosie dello stesso Schindler.

Liam Neeson in una scena de Schindler’s List

Giunto però in città il capitano Amon Goeth (Ralph Fiennes) nell’ambito della cosiddetta Operazione Reinhardt, i piani di Schindler cambieranno bruscamente. Resosi conto delle atrocità perpetrate agli ebrei, l’imprenditore capirà come il vero guadagno non sta nel materiale, ma nello spirituale: salvare una vita per salvare il mondo intero.

Il soggetto impossibile per Roman Polanski, Sidney Lumet e L’uomo del banco dei pegni, la sessualità cattiva di Ralph Fiennes

In principio sarebbe dovuto essere Roman Polanski a dirigere Schindler’s List. Spielberg gli propose la regia ritenendolo il più adatto, salvo dovervi rinunciare alla semplice lettura del soggetto. Per Polanski avrebbe significato rivivere l’infanzia: all’età di 8 anni infatti, fuggì da Cracovia il giorno della liquidazione del Ghetto (13 Marzo 1943). Il regista polacco saprà esorcizzare il suo dolore dieci anni dopo con Il pianista (2002), a suo dire più “leggero”, o comunque meno personale. In ogni caso spenderà parole al miele per Schindler’s List e per il taglio registico scelto da Spielberg, usando questi termini all’indomani della visione:

Non avrei fatto un buon lavoro come Spielberg; non sarei potuto essere così obiettivo come è stato lui.

Altri registi presi in considerazione da Spielberg e Sheinberg corrispondevano al nome di Martin Scorsese, Billy Wilder, nonché Sidney Lumet che dopo L’uomo del banco dei pegni (1964) sentiva di non poter dare di più su di una simile tematica.

Ralph Fiennes in una scena di Schindler’s List

Per la parte di Oskar Schindler inizialmente si pensò a Warren Beatty, Bruno Ganz, Stellan Skarsgard, Mel Gibson, Kevin Costner e perfino Harrison Ford; quest’ultimo rifiutò perché temeva che sarebbe risultato poco credibile in un’opera del genere dopo aver prestato il volto a personaggi come Han Solo, Indiana Jones e Rick Deckard. A spuntarla fu Liam Neeson che ci credeva così poco da accettare un contemporaneo ingaggio a Broadway.

Come Itzhak Stern invece – ruolo poi andato a Ben Kingsley – l’unica vera scelta corrispondeva a Dustin Hoffman. L’interprete di Tootsie (1982) vide però sfumare l’opportunità per via di un qui pro quo telefonico con Spielberg. Riguardo al mostruoso SS/Schultzstaffeln Amon Goeth invece, il regista americano non aveva dubbi su Ralph Fiennes. L’interprete de Quiz Show (1994) e Strange Days (1995), scelto per la sua sessualità cattiva, conquistò la sua attenzione dopo A Dangerous Man – Lawrence after Arabia (1991); sequel de Lawrence D’Arabia (1962), peraltro, il film preferito di Spielberg.

L’esperienza bipolare della post-produzione, l’importanza catartica di Seinfeld e il contributo “comico” di Robin Williams

Nell’accettare di dirigerlo, il regista di Duel (1971) mise in chiaro una condizione ben specifica in termini di piano di lavorazione: prima Jurassic Park e soltanto poi Schindler’s List. Spielberg sentiva che conclusasi la post-produzione non avrebbe più avuto la forza di realizzare un’altra pellicola nell’immediato. Non a caso passeranno ben quattro anni prima di rivederlo in cabina di regia, e proprio con un’altra accoppiata: Il mondo perduto: Jurassic Park e Amistad (1997).

Nonostante questo però, le lavorazioni collimeranno nella post-produzione. Spielberg si ritrovò così a curare la color correction di Schindler’s List e il sound mixing di Jurassic Park nell’arco della stessa giornata; una situazione che lui stesso definirà come:

Un’esperienza bipolare. Ogni grammo d’intuizione su Schindler’s List; ogni grammo di mestiere su Jurassic Park.

Steven Spielberg, Liam Neeson e Ben Kingsley sul set di Schindler’s List

La lavorazione in sé invece, risultò parecchio problematica. Spielberg è ebreo e Schindler’s List lo costrinse a confrontarsi con l’antisemitismo di cui fu vittima anch’egli in gioventù. Inizialmente concepito in lingua originale (ebraico e tedesco con sottotitoli in inglese), proprio per il taglio registico scelto, Spielberg si sentiva più reporter che regista. Influenzato infatti dal documentario Shoah (1985), escluse del tutto dalla lavorazione l’utilizzo di storyboard per lavorare più di spontaneità filmica. Il risultato fu che molte sequenze “forti” furono dirette dalle seconde unità Marek Brodzki e Krzystof Zbieranek.

Per risollevarsi su e ritrovare la concentrazione alla fine di ogni giornata di lavorazione, Spielberg trovava conforto in una lunga telefonata con Robin Williams tra gag e la lettura copione di Aladdin (1992) e nelle puntate della sit-com Seinfeld (1989-1998) in onda su NBC ogni sera. Cosa che poi il suo ideatore, Larry David, celebrerà a suo modo nella diciottesima puntata della quinta stagione: The Raincoats (1994).

La simbolica valenza del colore nella narrazione di Steven Spielberg

Nonostante rimanga impresso il delicatissimo bianco e nero a opera del DoP Janusz Kaminski, Schindler’s List vive di specifici momenti in apertura e chiusura di racconto in cui Spielberg lascia intravedere degli spiragli di luce e colore. Decisione frutto del taglio registico di cui vive l’opera di Spielberg tuttavia non accolta con consensi unanimi dai dirigenti della Universal; nello specifico a Tom Pollock, che fece pressioni affinché lo si girasse interamente a colori. Il regista de Lo squalo (1975) gli si oppose fermamente, a suo dire infatti:

L’Olocausto fu vita senza luce. Per me il simbolo della vita è il colore. Per questo un film che parla dell’Olocausto deve essere in bianco e nero.

La scelta del bianco e nero non è quindi unicamente un vezzo artistico, come può esserlo stato, ad esempio, in opere contemporanee come Roma (2018); Cold War (2018) o The Lighthouse (2019). Risponde piuttosto alla specifica scelta di sottolineare attraverso la composizione d’immagine l’effettiva privazione della vita e lo spazzamento delle radici e delle tradizioni da parte della sistematica Soluzione finale della questione ebraica. Un espediente infatti che Spielberg declina inserendovi una causale che va infine a indurne lo sgorgare nell’immagine costruita.

L’uso del colore in Schindler’s List

Nello specifico, l’apertura di racconto vede una sala da pranzo immersa in una luce fioca; celebrazione dello Shabbat; poi una candela che va progressivamente a spegnersi; passaggio dal bianco e nero; particolare del fumo che sale; match-cut dalla forza narrativa propulsiva degna de 2001: Odissea nello spazio (1968) su di una ciminiera da forno crematorio: in un’unica sequenza Spielberg codifica l’intera ratio filmica di Schindler’s List piantandovi le gemme del sottotesto del racconto:

Iniziare il film con l’accensione delle candele e la celebrazione di un normale Shabbat era come rappresentare la quiete prima della tempesta che travolse gli ebrei.

Il MacGuffin che riecheggia al cinema di Akira Kurosawa

Forse ciò che resta più impresso dall’intera visione di Schindler’s List: la celebre bambina con il cappottino rosso di Olivia Dabrowka. All’epoca appena treenne, con lei il cineasta de Salvate il soldato Ryan (1998) ebbe sul set un atteggiamento protettivo non dissimile da quanto fece Stanley Kubrick con Danny Lloyd in Shining (1980). Fingendo che fosse tutto un gioco (e in fondo il cinema lo è per davvero, seppur molto serio), a lavorazione conclusa Spielberg invitò la Dabrowka a vedere il film solo raggiunta la maggiore età; lei disubbidì e lo fece ad appena undici rimanendo molto scossa dalla violenza delle immagini, ma anni dopo si sentì fiera del suo ruolo.

La particolarità sta in come la nota di colore sulla bambina sia inserita all’interno della narrazione in bianco e nero nel riecheggio di una trovata simile in Anatomia di un rapimento (1963) di Akira Kurosawa. L’espediente è quello che Alfred Hitchcock avrebbe denominato un sagace MacGuffin. L’occhio umano, reso sapientemente da una falsa soggettiva su Schindler, segue la bambina lungo le strade della Cracovia liquidata tra fucilazioni, deportazioni e oggetti lanciati dalla finestra.

Olivia Dabrowska in una scena di Schindler’s List

Sequenza che oltre a porre le basi della trasformazione narrativa dello Schindler di Neeson, aveva anche un retrogusto di denuncia storico-sociale. A differenza di quanto fatto quindi da Kurosawa con il suo fumo rossastro unicamente funzionale al focalizzare lo sguardo in un punto specifico, la bambina dal cappottino rosso viveva di un’intrinseca carica valoriale. Spielberg anni dopo spiegò infatti come la trovata fosse simbolica di quanti, all’epoca, sapessero dei massacri perpetuati ma non fecero nulla:

Era evidente come una bambina con un cappotto rosso che cammina per strada. Nessuno pensò di bombardare le linee ferroviarie tedesche. Nulla fu fatto per fermare l’annientamento degli ebrei europei. Quindi questo è il mio messaggio nel lasciare quel particolare del film a colori.

Schindler’s List: chiunque salva una vita, salva il mondo intero

La storia di Oskar Schindler ha sempre affascinato gli studios tanto da aver spinto la MGM ad accarezzare l’idea di un biopic nel 1964. La suggestione di raccontare dell’Olocausto e dei suoi orrori attraverso un agente scenico di tale atipicità risultava il perfetto incontro narrativo tra tradizione e innovazione. Kubrick, che rinunciò alla realizzazione di Aryan Papers dopo averlo visto, all’indomani del rilascio in sala disse come il focus di Schindler’s List non riguardasse tanto l’Olocausto, bensì tutt’altro:

Pensi che riguardi l’Olocausto? Riguardava il successo, no? L’Olocausto riguarda 6 milione di persone uccise; Schindler’s List su 600 persone che non lo sono state.

Tra i punti di forza di Schindler’s List c’è proprio l’arco di trasformazione dello Schindler di un formidabile Neeson. Un capitalista, Schindler. Un uomo che è parte del problema, che vorrebbe lucrare sugli effetti collaterali del secondo conflitto bellico ma che finisce con il diventarne la soluzione; facilitandone l’esito arrivando perfino a spendere tutto il suo denaro per salvare vite umane.

Liam Neeson e Ben Kingsley in una scena di Schindler’s List

Un’evoluzione caratteriale dapprima rifiutata, rinnegata, infine accettata, il cui sviluppo appare calcolato nel ritmo ma potenziato nelle intenzioni scenico-narrative. Gestito metodicamente da una narrazione la cui struggente climax “da contrappasso” finisce con il sigillarne gli intenti tra un brano del Talmud e un abbraccio il cui calore travalica i confini dello schermo per cristallizzarsi nella memoria comune.

Una narrazione atipica e rischiosa dalla coralità insuperabile

Proprio per il suo carattere atipico però, altrettanto era il rischio di non riuscire a trasporre una simile mole narrativa in un racconto compiuto, organico, totalizzante. La grandezza di Schindler’s List non sta tanto nell’approccio documentaristico con cui Spielberg declina il suo occhio registico, o nell’evoluzione della connotazione scenica della Lista da simulacro di dolore e morte, a gioia e speranza, quanto nella gestione delle tante componenti sceniche.

Kamil Kraviek in una scena de Schindler’s List

Una codifica d’immagini filmiche senza filtri, crude e realistiche, volte a mostrarci le indicibili e molteplici violenze perpetuate agli ebrei; la vita nei campi di concentramento; l’evoluzione di Schindler grazie alla dinamica relazionale con lo Stern di Kingsley, la coscienza del racconto; il volto del male del Goeth di Fiennes, l’altra faccia di una dicotomia bene/male sfumata, insolita e mutevole.

Un’amalgama di elementi volta a rendere Schindler’s List un organo vivente fatto di voci vibranti e pulsanti che gridano dinanzi all’orrore e salvano il mondo, Spielberg fa evolvere l’inerzia della narrazione mutandone i connotati da classico biopic singolo, a corale. Una scelta precisa cui far emergere gli elementi di sfondo per raccontare della dignità del popolo ebraico e dei singoli individui tra tradizioni secolari, sogni e speranze di un mondo migliore, finalmente a colori.

La lista è un bene assoluto. La lista è vita: il capolavoro di Steven Spielberg

Quando visitò Auschwitz per il sopralluogo del location scouting, molti piansero; Spielberg si sentì invece pieno di sdegno e oltraggio. Fu profondamente rispettoso della materia narrativa al punto da decidere di non incassare alcun compenso né come regista, men che meno d’incassi (come sempre floridi, 321 milioni di dollari/nono incasso USA). Scelse infatti di devolvere qualsiasi cifra gli sarebbe spettata alla Shoah Foundation, associazione no-profit avente la finalità di preservare la tragedia dell’Olocausto. Inoltre, Spielberg finanziò un’apposita sezione audio-video dedicata al restauro e alla conservazione di oltre cinquantamila testimonianze di sopravvissuti.

Vincitore di 7 Oscar 1994 tra cui Miglior film e Miglior regia a fronte di 12 nomination; inserito dall’AFI (American Film Institute) al nono posto tra i migliori film statunitensi di tutti i tempi; non si sbaglia nel definire Schindler’s List conferma e consacrazione dell’eclettico (e mutevole) talento del cineasta di Cincinnati. Se Jurassic Park rappresenta infatti l’anima giocosa e visionaria di Spielberg, Schindler’s List è simulacro e massima espressione dell’altra sua anima, quella drammatica ed emotiva: il capolavoro che vale una carriera.

La locandina di Schindler’s List

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