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L’appartamento recensione film di Billy Wilder con Jack Lemmon e Shirley MacLaine [Flashback Friday]

L’appartamento recensione del film di Billy Wilder con Jack Lemmon, Shirley MacLaine, Fred MacMurray, Ray Walston, Jack Kruschen, David Lewis e Hope Holiday

Se non fosse che in carriera Billy Wilder ha sfornato opere filmiche una più incisiva dell’altra si potrebbe definire L’appartamento (1960) il capolavoro che vale la carriera. Per certi versi, lo è. Rappresenta infatti un esempio di scrittura multitonale moderna e avanguardistica per l’epoca; qualcosa, per certi versi, rievocante il tono limpido e brillante del cinema di Ernst Lubitsch.

Perché Wilder, in fondo, è sempre stato un maestro nel far cambiare pelle al suo cinema, basti pensare un po’ al suo opus filmico. Accanto a opere noir e marcatamente cupe come La fiamma del peccato (1944) e Giorni perduti (1945) infatti, troviamo quello che Lynch definì come “un film di desideri irrealizzati” – Viale del tramonto (1950), e quel capolavoro di comicità di A qualcuno piace caldo (1959). In tal senso, L’appartamento è un po’ una summa delle correnti mutevoli e contrastanti della visione wilderiana. Quell’intrinseca capacità di giocare con i generi con naturalezza, passando dal noir al comico sino al drammatico, di cui parlava così il suo autore in modo scherzoso:

Non so, quando realizzo un film non lo classifico mai. Non dico è una commedia, aspetto l’anteprima. Se il pubblico ride molto dico che è una commedia; o un film serio; o un film noir. All’epoca non ho mai sentito espressioni simili. Mi sono limitato a fare i film che mi sarebbe piaciuto vedere. Se ero fortunato questo coincideva con i gusti del pubblico.

Jack Lemmon e Shirley MacLaine nella celebre scena degli spaghetti de L’appartamento

Dalle cronache dell’epoca sembra che siano state due le opere che in qualche modo hanno influito nella genesi creativa de L’appartamento: La folla (1928) di King Vidor, e Breve incontro (1945) di David Lean. A detta di Wilder infatti, nell’opera di Vidor è riscontrabile un po’ la visione capitalistica alla base del racconto. Nel gioiello filmico del ’45 di Lean invece, l’escamotage che funge da pietra narrativa così come detto dallo stesso autore:

Ho sempre pensato che ci fosse un personaggio interessante, quello che prestava l’appartamento; un personaggio patetico e divertente, e ho portato questa idea con me.

L’apice del sodalizio Wilder-Diamond, i nani/bambini, l’elenco telefonico di Jack Lemmon, le 40 pagine di script della MacLaine

Per la sceneggiatura Wilder collaborò con I.A.L. Diamond, segnando così la terza collaborazione consecutiva dopo Arianna (1957) e A qualcuno piace caldo. Di lì in avanti, Wilder e Diamond scriveranno sempre assieme, firmando le sceneggiature successive da Uno, due, tre! (1961) a Buddy Buddy (1981); passando per Baciami, stupido (1964); Non per soldi…ma per denaro (1966); Vita privata di Sherlock Holmes (1970).

Nei progetti iniziali, L’appartamento sarebbe dovuto essere una commedia teatrale, salvo poi riconsiderare il concept come cinematografico. Questo per via dell’imponente ufficio al centro del racconto, praticamente impossibile da ricostruire su di un palcoscenico. Leggenda narra che per i campi lunghi a perdita d’occhio dalla prospettiva forzata dell’ufficio assicurativo, Wilder avesse utilizzato scrivanie sempre più piccole; adottando perfino nani e bambini nelle ultime file.

Jack Lemmon, Shirley MacLaine e Fred MacMurray in una foto promozionale de L’appartamento

Il concept fu scritto da Wilder e Diamond considerando Lemmon come assoluto protagonista. L’interprete del “mancato wilderiano” La strana coppia (1968) infatti, accettò subito dopo che Wilder gli ebbe finito di raccontare la trama, e senza leggere una pagina di sceneggiatura. Al riguardo Lemmon dichiarò:

Avrei firmato anche se mi avesse detto che avrei dovuto recitare l’elenco telefonico.

Fred MacMurray invece, di contro, ebbe non poche perplessità sull’accettare la parte. Il ruolo di Jeff Sheldrake era realmente odioso e temeva che avrebbe perso appeal come interprete. Complice comunque il successo del precedente La fiamma del peccato e del “suo” Walter Neff però, non fu difficile convincerlo. La parte, in realtà, era stata concepita da Wilder e Diamond per Paul Douglas, venuto a mancare durante la fase di scrittura.

Nessun problema invece per Shirley MacLaine, prima e unica scelta nel ruolo come per Lemmon. Si narra che, quando le propose la parte, Wilder le diede soltanto quaranta pagine di soggetto, lasciandola del tutto all’oscuro della risoluzione del conflitto scenico e dell’iconica frase “shut up and deal“. Un’alchimia palpabile, quella tra Lemmon e MacLaine, che darà poi seguito al “coloratissimo” e vivace Irma la dolce (1963); anch’esso firmato dalla coppia di sceneggiatori.

Nel cast figurano Jack Lemmon, Shirley MacLaine, Fred MacMurray, Ray Walston, Jack Kruschen, David Lewis e Hope Holiday; e ancora Joan Shawlee, Naomi Stevens, Johnny Seven, Joyce Jameson, Willard Waterman e David White.

L’appartamento: sinossi

Il contabile C.C. Baxter (Jack Lemmon) lavora presso la Consolidated Life, la più grande compagnia d’assicurazioni di New York. Ambizioso ma non così zelante, Baxter cerca di aumentare le sue possibilità di carriera per mezzo di un piccolo espediente. Presta infatti il suo piccolo appartamento “da scapolo” ai suoi dirigenti per incontri extra-coniugali. L’espediente è efficace e calcolato. Baxter ha infatti perfino un calendario con le visite-scappatelle dei suoi dirigenti. Si susseguono così il Sig. Dobisch (Ray Walston); il Sig. Wanderhoff (Willard Waterman); e il Sig. Eichelberger (David White).

Durante le visite, Baxter gira da solo per la città. Di riflesso però, nel condominio in cui vive, cresce la reputazione da super-uomo dongiovannesco, tanto che il suo vicino di casa, il Dr. Dreyfuss (Jack Kruschen) chiede se potesse donare il suo corpo alla scienza all’indomani della morte. Nonostante la sua vita solitaria, Baxter ha in realtà un amore segreto e inconfessato, si tratta dell’ascensorista Fran Kubelik (Shirley MacLaine), a cui non ha mai osato proporsi romanticamente.

Jack Lemmon e Shirley MacLaine in una scena de L’appartamento

Tutto procede secondo i piani per Baxter, l’espediente dell’appartamento inizia a dare i suoi frutti nel ramo lavorativo finché non arriva il grande capo, Jeff Sheldrake (Fred MacMurray). Data la chiave dell’appartamento anche a lui, Baxter scoprirà che la scappatella di Sheldrake è proprio Miss Kubelik, che “tiene sulla corda” da mesi con la promessa di un divorzio dalla moglie. A quel punto, complice anche un evento traumatico, Baxter dovrà decidere tra l’amore e la carriera, e la scelta non sarà per niente facile.

Tra capitalismo e alienazione: l’uomo moderno di Billy Wilder

È un’interessante scelta quella effettuata da Wilder per l’apertura di racconto de L’appartamento. Il regista de L’asso nella manica (1951) la fa vivere infatti dell’accoppiata monologo in voice-over/costruzione d’immagine. Ne deriva un pandemonio di cifre colorite che oltre a dare all’agente scenico di Lemmon un certo “sapore freddo e razionale”, funge un po’ da spiegone. Qualcosa che in un’altra narrazione potrebbe perfino sembrare un’ingenuità, ma che con Wilder diventa funzionale nel delineare il tono del racconto; oltre che nel disegnare il contesto scenico e presentarci la trovata che funge da base drammaturgica del conflitto.

Prende così forma il racconto in un formidabile campo lungo che, accanto alle cifre da bollettino fieramente pronunciate da Lemmon, ci introduce nell’arena del conflitto “a perdita d’occhio”, declamando la grandezza della Consolidated Life; nome fittizio ma comunque plausibile, simulacro del capitalismo e della crescita del benessere nel secondo dopoguerra americano. Poi avviene il colpo di genio: una delicatissima dissolvenza che lascia Baxter al centro dell’arena, intento nel suo straordinario. Nella solitudine dell’ufficio, Wilder maschera il senso d’alienazione dell’individuo nella società moderna attraverso un tono comico-ironico, il cui insito contrasto narrativo, giova al racconto arricchendolo di senso.

Jack Lemmon in una scena de L’appartamento

Wilder ci guida nella vita di Baxter, costruendo un primo atto da manuale. Introducendo la causale del colorito utilizzo dell’appartamento, il cineasta de Testimone d’accusa (1957) alza la posta in gioco ravvivando in più modi il sopracitato contrasto, mostrandoci così Baxter che rassetta il disordine lasciato dal dirigente di turno; che fa cin-cin in solitaria; che mangia cibi precotti davanti la televisione; e che si ritrova, infine, a dormire per strada, vittima del suo stesso gioco.

In quella luce fioca al centro dello schermo, di cui Wilder tiene l’inquadratura il più possibile, c’è un po’ l’uomo moderno, di cui Baxter è il simulacro. Una crisi di valori che, complice le correnti trasformiste socio-culturali, lo rendono spettatore delle vite altrui, senza legami, impegnato com’è nel perseguire l’I Wish alla base del capitalismo. L’espediente è inoltre efficace, perché permettere di ampliare i confini della dimensione caratteriale del Baxter di Lemmon, rendendolo così solitario workaholic e al contempo dongiovanni scapestrato; una duplicità che nonostante l’evidente forbice caratteriale, resterà salda, a dispetto del definitivo collasso dell’escamotage di cui sopra.

L’appartamento: lo specchio rotto e i nuovi equilibri

Lo sviluppo della narrazione de L’appartamento mette lo spettatore di fronte alla mutevolezza della creatura narrativa di Wilder e Diamond. Evolve infatti il tono del racconto da commedia ironica con punte di malinconia, a dramedy romantica. Una crescita favorita dall’insito contrasto ontologico del racconto, codificata attorno a svolte narrative d’equivoci dal sapore di sophisticated-comedy; nonché dall’ingresso scenico della Kubelik della vivace MacLaine e del Sheldrake di un risoluto MacMurray. Nuove maglie relazionali il cui incrocio di archi narrativi permette al regista di Stalag 17 (1953) di costruire l’oggetto di valore di Baxter e al contempo rompere l’equilibrio malsano frutto dell’espediente alla base del racconto, portandolo al limite.

Bastano infatti cento dollari avvolti tra le lacrime; uno specchio rotto; e un evento delittuoso per avvolgere il racconto de L’appartamento nel dramma puro. Wilder getta infatti i suoi protagonisti sino alle porte dell’inferno, per recuperarli poi per i capelli. L’evento risulta però d’enorme rilevanza nell’economia del racconto, dando il via alla rinascita della Kubelik e all’arco di trasformazione di Baxter, fatto di accettazione dei propri errori e ritrovare il Mensch: l’integrità di un uomo d’onore.

Jack Lemmon in una scena de L’appartamento

Nonostante la narrazione de L’appartamento proceda per un andamento decisamente netto lungo la sua struttura a tre atti, è nella costruzione della climax d’epifanie romantiche che vede i suoi intenti “rallentati”. Prima di quel “shut up and deal” che consegna L’appartamento tra i grandi classici della notte di Capodanno, Wilder codifica in modo meticoloso ogni tappa dell’evoluzione.

Procedendo così gradualmente ora riequilibrando il conflitto interiore rinunciando ai privilegi della promozione; ora tagliando di netto i legami nocivi; ma mai rinunciando alla propria aura da dongiovanni, maschera goffmaniana di vergogna per la propria condizione pregressa. Terreno fertile con cui il cineasta de Prima pagina (1974) mette la freccia; avvolge L’appartamento in un più sereno tono da commedia romantica; adagiando infine la climax attorno a un happy ending agognato e perfino insperato che è crollo dei valori della società capitalistica in favore della gioia del vivere semplice.

Il cinema moderno americano al massimo splendore

Vincitore di 5 Oscar 1961 (Miglior film, Miglior regista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior montaggio, Migliore scenografia); 3 Golden Globe (Miglior film commedia, Miglior attore in un film commedia o musicale, Miglior attrice in un film commedia o musicale); Coppa Volpi alla migliore attrice a Venezia21; scelto nel 1994 per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso; abbastanza da certificare l’insita valenza filmica dell’opera di Wilder nel corso delle decadi.

In un cinema moderno in continuo mutamento tra il soffiare del vento di cambiamento della New Hollywood e l’ascesa di nuovi autori stranieri tra Alfred Hitchcock, Akira Kurosawa e Sergio Leone, L’appartamento è forse la sua massima espressione del periodo pre-new hollywoodiano. Quello de Sentieri selvaggi (1956), Il ponte sul fiume Kwai (1957) e West Side Story (1961), grandi storie e grandi interpreti per audience generalizzate e vaste. Una classicità strutturale che vive però della sua modernità fra le righe. Nei cambi di tono, di genere, perfino del modo in cui l’archetipo dell’uomo moderno accantona i valori capitalistici andando in cerca di un nuovo inizio. Un’opera unica e mutevole, progressista e capace di leggere il suo tempo, perfino d’anticiparne i cambiamenti.

La locandina de L’appartamento

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