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Apocalypse Now recensione film di Francis Ford Coppola con Martin Sheen, Marlon Brando e Robert Duvall [Flashback Friday]

Apocalypse Now recensione del film di Francis Ford Coppola con Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Harrison Ford, Dennis Hopper e Sam Bottoms

Il leggendario documentario Hearts of Darkness (1991), sul making-of di Apocalypse Now (1979), apre con la celebre frase che Francis Ford Coppola pronunciò alla conferenza stampa di presentazione al 32° Festival di Cannes, cristallizzando così – in poche parole – l’intera ratio filmica della propria opera:

Il mio film non è un film. Il mio film non riguarda il Vietnam. È il Vietnam.

Un’opposizione quasi dicotomica con l’opinione di molti critici e cinefili, secondo cui l’opera di Coppola esula dall’abituale cinema bellico; incanalandolo piuttosto verso binari altri, esistenzialistici e certamente più elevati. A differenza de Il cacciatore (1978) di Michael Cimino infatti – che muoveva piuttosto verso il valore narrativo del reduce e dell’incapacità ad abbandonare l’orrore del Vietnam –  il Cuore di tenebra coppoliano vive dello sporco del Vietnam; buttandocisi dentro l’orrore, lasciandovi scorie nella dicotomia bene/male alla base del racconto, senza saperne l’esito nella vita civile.

Martin Sheen in una scena di Apocalypse Now

La frase de il cineasta de Il Padrino (1972), che sembra perfino una provocazione, è figlia di una delle lavorazioni più tortuose della storia del cinema. Nel 1976 infatti, un tifone distrusse i set allestiti, dovendo così ricominciare da zero. Martin Sheen fu colpito da un infarto a causa dell’abuso di alcool; tanto che – nella scena del prologo – era visibilmente ubriaco, ferendosi realmente la mano contro lo specchio.

Non ultimo, il Governo americano ne osteggiò la produzione ritenendo la pellicola antimilitarista –  e di riflesso – antiamericana; spingendo così Coppola, dall’equilibrio psichico compromesso dall’abuso di droghe che circolava sul set, nel baratro della depressione, sino alle soglie del tentato suicidio.

La genesi creativa di Apocalypse Now: John Milius e George Lucas

Le premesse, in realtà, lasciavano presagire ben altro. La genesi creativa di Apocalypse Now poggia le sue radici alla fine degli anni sessanta. Durante la lavorazione de Non torno a casa stasera (1969) infatti, George Lucas e Steven Spielberg incoraggiarono John Milius a scrivere un film sul Vietnam; spinto dall’entusiasmo, il cineasta de Conan Il Barbaro (1982) adattò Cuore di Tenebra (1899) di Joseph Conrad in chiave moderna. Coppola finanziò così il progetto, dando a Milius quindicimila dollari più dieci se avesse avuto il via dalla produzione; il risultato fu una rappresentazione allegorica del testo conradiano, dal titolo The Psychedelic Soldier.

Francis Ford Coppola durante la lavorazione de Apocalypse Now

Nonostante i finanziamenti e l’interesse, Milius in realtà pensò a Lucas come regista ideale per portare in scena lo script; tanto che ipotizzarono già il potenziale budget e il location scouting. Gli impegni con American Graffiti (1973) e Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza (1977) fecero slittare tutto; dando così il verde alla visione di Coppola fatta di temi etici avvolti in un racconto dalla forte carica esperienziale dall’ironica definizione:

Una commedia e una storia terrificante di un thriller psicologico.”

Nel cast figurano Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Harrison Ford, Dennis Hopper e Sam Bottoms; e ancora Laurence Fishburne, Scott Glenn, Albert Hall, Frederic Forrest, G.D. Spradlin, R. Lee Ermey, James Keane, Jerry Ziesmer.

Apocalypse Now: sinossi

1969, al culmine del conflitto vietnamita, il Capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen) è di ritorno a Saigon per una missione speciale. Il Generale Corman (G.D. Spradlin), il Colonnello Lucas (Harrison Ford) e un informatore della CIA (Jerry Ziesmer) incaricano Willard di terminare il Colonnello Walter E. Kurtz (Marlon Brando); ritenuto dall’intelligence e dal Governo federale, una seria minaccia per l’intero Vietnam.

Willard dovrà così dirigersi lungo il fiume Nung fino alle remote regioni della Cambogia, al fine di scovare l’ex alto ufficiale dei Berretti Verdi; prossimo al grado di Generale, ma disertore, che si scopre essere stato uno dei più decorati soldati dello Zio Sam. Il Capitano scoprirà infatti che Kurtz è a capo di un battaglione di sbandati cambogiani; auto-nominatosi loro Dio e Signore della guerra. Ciò di cui Willard non è a conoscenza però, è la limpida lucidità della sua “preda”; ritrovandosi a discutere di molte delle sue certezze. A bordo di un Patrol Boat River, e assieme a uno squadrone di giovani reclute inesperte, Willard scenderà così sino negli abissi cambogiani, per un viaggio che lo cambierà totalmente.

Uno scorcio vietnamita in Apocalypse Now

Tra Redux e Final Cut: le versioni di Apocalypse Now editate da Francis Ford Coppola

Non c’è dubbio alcuno che Apocalypse Now sia il progetto più caro al cineasta italoamericano; non a caso, è quello che è stato soggetto a un massiccio lavoro di editing nel corso delle decadi, e non parliamo, chiaramente, di post-produzione. È dei primi anni del duemila infatti, la prima rilettura operata da Coppola della sua opera; quel Apocalypse Now Redux (2001) dal minutaggio complessivo di 203 minuti (47 in più della versione originale) che conferisce al racconto una marcata differenza tematica ed espressiva.

Emerge infatti maggior umanità degli agenti scenici, a partire dal Kilgore di Duvall, la cui caratterizzazione risulta decisamente addolcita. Redux è anche l’occasione per dilatare alcuni momenti filmici, dando così maggior peso al ruolo scenico delle Conigliette di Playboy; infine introducendo personaggi tagliati dalla versione originale, come la famiglia De Marais, con cui meglio comprendere le scelte “spietate” di Kurtz e teorizzare sugli errori del colonialismo francese.

Apocalypse Now, Apocalypse Now Redux, Apocalypse Now Final Cut

Diciotto anni dopo Redux, il cineasta de Il Padrino – Parte II (1974) torna a rieditare la sua opera filmica, dando così vita ad Apocalypse Now Final Cut (2019); da intendersi, con i suoi 183 minuti (30 in più rispetto alla versione originale), come figlia “dell’incompiutezza” del capostipite, e totale ricalibratura di Redux, e della sua eccessiva lunghezza. Presentato al Tribeca Film Festival e in anteprima nazionale, il 28 giugno 2019, nell’ambito della rassegna Il cinema ritrovato; Coppola ha spiegato così la ratio del suo ultimo intervento di editing:

Per il quarantesimo anniversario del film ho cercato la lunghezza perfetta; un po’ di più dell’originale ma un po’ meno di Redux. Ho lasciato quindi quelle che credo siano le sequenze essenziali che rendono il film migliore.

E poi in tutto, qualità del suono, delle musiche, delle immagini; Apocalypse Now Final Cut sarà sorprendente.

Willard e Kurtz: la dicotomia velatamente classica alla base di Apocalypse Now

Fumo giallo in camera fissa su di uno scorcio di foresta vietnamita; il suono rallentato di un elicottero in volo; The End dei The Doors in crescendo e in perfetto sync con il napalm sganciato. Nella dissolvenza incrociata sul primo piano del volto del Capitano Willard di Sheen si apre il racconto di Apocalypse Now. Un formidabile contro-raccordo d’immagini con le pale di un ventilatore e fuoco e fiamme, con cui Coppola costruisce background caratteriale e traumatico del suo agente scenico che è pura costruzione d’immagine e di sensazioni.

Tra soggettive argute e carrellate delicatamente dissolte di rum, pistole, sigarette ed elicotteri in volo; Coppola dà vita a una presentazione antologica nello squallore di quattro mura d’albergo tra sequenze oniriche e pura psicosi che dà così il via alla digressione temporale in voice over:

Saigon. Me*da. Sono ancora soltanto a Saigon. Ogni volta penso che mi risveglierò di nuovo nella giungla. Quando ero a casa, dopo il mio primo viaggio, era anche peggio; mi svegliavo e c’era il vuoto. A mia moglie non dissi una parola finché non dissi si al divorzio.

Quand’ero qui volevo essere lì. Quand’ero là, pensavo solo a tornare nella giungla. Adesso sono qui da una settimana; in attesa di una missione. Ogni minuto che passo in questa stanza divento più debole; e Charlie ogni minuto che passa accovacciato nella giungla diventa più forte. Ogni volta che mi guardavo intorno le pareti mi stringevano sempre più da vicino.

Martin Sheen in una scena di Apocalypse Now

Il Willard borderline di Sheen, va così ad arricchire di senso il viaggio dell’eroe straordinario lungo il fiume Nung dispiegatosi; espediente rilevante nell’economia del racconto, attraverso cui Coppola declina il topos classico del viaggio fordiano in chiave postmoderna e bellica. Il viaggio di Willard diventa infatti, esplicazione del suo arco di trasformazione, evolvendo così da soldato traumatizzato a eroe di guerra nel suo agire in maniera gloriosa “e con estrema determinazione”.

Una dicotomia bene/male diluita, opposta e speculare

A partire dalla tipica chiamata dell’eroe “conviviale” – tra roastbeef e gamberoni vietnamiti – Coppola introduce “di riflesso” l’aura magnetica del Colonello Kurtz di Brando tra idee malsane, sogni e incubi; e “strisciare lungo il filo del rasoio” tra cattive tentazioni che agiscono sopra i buoni angeli della nostra indole e punti di rottura.

Ne deriva così una dicotomia bene/male Willard/Kurtz, che è anch’essa classica nella sua struttura apparente, ma al contempo sfumata nei contorni con il dispiego dell’intreccio. Willard e Kurtz infatti non sono che lo stesso volto del soldato glorioso e gloriato. Due viaggi dell’eroe opposti ma speculari che la narrazione di Apocalypse Now pone agli angoli più remoti della polarità dicotomica della scacchiera strutturale.

Martin Sheen in una scena di Apocalypse Now

Il viaggio alla base del conflitto scenico intrapreso da un Willard in crisi d’identità s’arricchisce così di senso; divenendo al contempo ricerca di sé, ricostruzione della propria identità e annientamento dei propri fantasmi impersonati allegoricamente dal delirante semi-dio autonominato Kurtz.

Le tante sfumature di Apocalypse Now

Quante persone avevo già ucciso. C’erano quelle sei di cui ero sicuro, così vicine da esalarmi quell’ultimo respiro in faccia; ma questa volta era un americano, un ufficiale. Non avrebbe dovuto avere importanza per me, ma la ebbe. Cristo, accusare un uomo di omicidio quaggiù era come fare contravvenzioni per eccesso di velocità alla 500 miglia di Indianapolis.

Tra scorci vietnamiti di pura composizione d’immagine al tramonto, tra grandangoli e panoramiche che testimoniano le intenzioni “colossali” del racconto – prende così vita il nodo gordiano di Apocalypse Now; quel viaggio dell’eroe di Willard che a fronte di un’altrimenti fissità scenica, diventa per Coppola l’opportunità di allargare le maglie relazionali, introducendo così gli agenti scenici dello Chef di Forrest, il Lance di Bottoms, Mr Clean di Fishburne e il Phillips di Hall. Così facendo il cineasta de La conversazione (1974) arricchisce il sottotesto della narrazione e al contempo ne alleggerisce la carica epica.

Martin Sheen e Sam Bottoms in una scena di Apocalypse Now

Nello sviluppo delle dinamiche relazionali lungo tutto il secondo atto infatti, Coppola gioca con i punti di vista scenici, raccontando così, oltre che del conflitto interiore di Willard, di come le atrocità della guerra incidano sulla purezza degli individui; ora strappandoli alla vita dopo stermini gratuiti di navi peschereccio e portando sous-chef alla disperazione; ora, infine, trasformandoli da patiti del surf a guerriglieri.

Charlie non fa il surf!

Intenti di alleggerimento del tono del racconto che trovano valorizzazione, conferma e apogeo nell’ingresso scenico del Colonnello Kilgore di Duvall; Coppola trapianta infatti un cowboy fordiano nella giungla vietnamita che teorizza sul surf, sull’odore del napalm al mattino e assalta i villaggi con La cavalcata delle valchirie di Richard Wagner:

Napalm, figliolo. Non c’è nient’altro al mondo che odora così. Mi piace l’odore del napalm di mattina. Una volta, una collina, la bombardammo per dodici ore; e finita l’azione andai lì sopra. Non ci trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di Viet. Ma quell’odore si sentiva quell’odore di benzina. Tutta la collina odorava di… di vittoria. Prima o poi questa guerra finirà.

Robert Duvall in una scena di Apocalypse Now

Il cineasta de Tucker: un uomo e il suo sogno (1988) gioca così con la sua immensa creatura narrativa tra campi e controcampi di elicotteri schierati, strategia bellica in semi-soggettiva e soggettive immersive. Tutti elementi di un linguaggio filmico moderno, sempre attuale, praticamente immortale che vive di montaggio frenetico, regia solida dal respiro scenico mutevole; e perfino di effetto doppler con cui amplificare le azioni sceniche e far trasudare dallo schermo il terrore dei Viet-Cong.

Realizzando così un affresco culturale tra fumogeni, spettacoli di conigliette e strazianti nastri magnetici; in un odore di morte crescente di cadaveri penzolanti e teste mozzate con l’avvicinarsi all’avamposto di Kurtz che prende vita e colore, grazie alla fiabesca fotografia di Storaro.

L’orrore di Kurtz e la climax purificatrice

È nel terzo atto che Coppola ricostruisce la dimensione epica della sua narrazione, valorizzato dall’ingresso scenico del Kurtz di Brando nella penombra strategica e in uno scambio dialogico netto, incisivo. Proprio come accaduto con il Kilgore di Duvall, Kurtz ruba la scena, riduce la dimensione scenica di Willard ad agente passivo depotenziandone la carica eroica; dispiegando così tutta la carica esistenzialista di Apocalypse Now teorizzando sulla libertà in luce dorata e sugli orrori della guerra:

Ha mai pensato seriamente a delle reali forme di libertà? La libertà dall’opinione degli altri; persino dalla propria opinione. […] Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì; ma non avete il diritto di giudicarmi.

Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere; sono i veri nemici. Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra siano passati mille secoli.

Marlon Brando in una scena di Apocalypse Now

Per poi proseguire nel raggiungimento di una psicotica epifania:

Che genio c’era in quell’atto (mutilare le braccia vaccinate dei bambini ndr). La volontà di compiere quel gesto: perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. Allora ho realizzato che loro erano più forti di noi perché riuscivano a sopportarlo; non erano mostri erano uomini, squadre addestrate.

Questi uomini avevano un cuore, avevano famiglia; avevano bambini erano colmi d’amore, ma avevano avuto la forza di farlo.

Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così, i nostri problemi sarebbero finiti da tempo. C’è bisogno di uomini con un senso morale; e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere senza sentimenti, senza passione, senza giudizio perché è il giudizio che ci indebolisce.

Il cineasta de The Cotton Club (1984) codifica così una climax suggestiva puramente funzionale in modo semplice, netto, perfino sbrigativo; non conta tanto l’evento delittuoso in sé, quanto il senso allegorico di un gesto che è il mescolamento di ciò che è bene e male, raziocinio e follia, normalità e ribellione. In una velata ciclicità tematica con ancora The End dei The Doors sullo sfondo, Coppola realizza una totale rilettura dell’ordinaria dicotomia bene/male; nell’espletamento di una missione che ricodifica i ruoli narrativi, riscrive i valori e permea l’eroe dell’orrore della guerra.

La Palma D’Oro e i rimandi ex post/ex ante al cinema di Herzog

È abbastanza chiaro quindi, come Apocalypse Now rappresenti molte cose e tante altre ancora. Culmine esperienziale del cinema postmoderno americano inaugurato “ufficialmente” con Una nuova speranza; nonché consolidamento definitivo del cinema kolossale di Francis Ford Coppola. Se con la saga de Il Padrino (1972-1990) il cineasta de Dracula di Bram Stoker (1992) ricevette infatti, gli Oscar al Miglior film, alla Miglior regia e perfino alla Miglior sceneggiatura non originale; è grazie alla sua opera bellica che riuscì ad essere insignito della prestigiosa Palma d’Oro a Cannes.

Vincitore, inoltre, di due Oscar (Miglior fotografia e Miglior sonoro) a fronte di otto nomination all’edizione 1980 tra cui Miglior film e Miglior regia; Apocalypse Now vive e prospera nei suoi quarant’anni di vita rielaborando la lezione antimilitarista de Il dottor stranamore (1964) in un topos del viaggio ora fordiano, ora dalla connotazione herzoghiana. Nel declinare infatti, il rapporto tra la ragione degli uomini, gli autoctoni e la natura, sono molteplici i rimandi ad Aguirre furore di Dio (1972) di Werner Herzog, il quale, a sua volta, s’ispirerà proprio ad Apocalypse Now per la connotazione fluviale del successivo Fitzcarraldo (1982); una chiusa del cerchio tra l’orrore, i sogni e la follia, che è ciclicità ed eterno ritorno del cinema autoriale.

La locandina di Apocalypse Now

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