Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Un uomo per tutte le stagioni recensione film di Fred Zinnemann con Paul Scofield, Robert Shaw e Orson Welles

Un uomo per tutte le stagioni recensione del film di Fred Zinnemann con Paul Scofield, Robert Shaw, Wendy Hiller, John Hurt e Orson Welles

In un opus filmico come quello di Fred Zinnemann, un’opera come Un uomo per tutte le stagioni (1966) rappresenta più che un vanto, piuttosto la rinascita di un cineasta che non seppe ripetersi ai livelli della doppietta Mezzogiorno di fuoco/Da qui all’eternità. Dopo il compassato La storia di una monaca (1959) con una straordinaria Audrey Hepburn, I nomadi (1960) con Robert Mitchum e Deborah Kerr; e …E venne il giorno della vendetta (1964) con Gregory Peck, è la volta di Tommaso Moro e della sua imperturbabile moralità.

Tratto dall’omonima pièce teatrale del 1960 di Robert Bolt, il titolo dell’opera è da ricondursi a Robert Whittington; un contemporaneo di Moro che nel 1520 scrisse così di lui, contribuendone a creare l’aura immortale d’eroe tragico:

Tommaso Moro ha l’intelligenza di un angelo e una singolare sapienza: non ne conosco eguale. Perché, dove trovare tanta dolcezza, umiltà, gentilezza? E, secondo che il tempo lo richieda, una grave serietà o una straordinaria allegrezza: un uomo per tutte le stagioni.

Vincitore di 6 Oscar tra cui Miglior film, Miglior regia e Miglior attore protagonista (Paul Scofield), Un uomo per tutte le stagioni fu un successo strepitoso tanto al cinema e in televisione, quanto a teatro. Assieme a My Fair Lady (1964), Tutti insieme appassionatamente (1965) e Amadeus (1984), rientra infatti nelle opere vincitrici dell’Oscar al Miglior film (1967) e del Tony per la Miglior opera teatrale (1962).

I titoli di testa de Un uomo per tutte le stagioni

Spesso si dice che dietro alle grandi opere si celino grandi aneddoti, non fa eccezione Un uomo per tutte le stagioni; a detta del suo cineasta infatti, fu il film “più facile” a cui abbia mai lavorato, questo per via di un cast superbo e consolidato. Tra questi emerge chiaramente Orson Welles, che tuttavia creò più di un grattacapo al cineasta de Il giorno dello sciacallo (1973). A fronte di un minutaggio veramente ridotto per via della sorte del suo agente scenico, Welles girò personalmente le sue scene da Wolsey; e per la scena del confronto con il Moro di Scofield chiese, espressamente, una replica della poltrona del Cardinale britannico.

Nonostante Scofield avesse interpretato già Moro nell’adattamento teatrale (vincendo peraltro il Tony al Miglior attore protagonista), la produzione avrebbe voluto Laurence Olivier, Dirk Bogarde e Richard Burton; quest’ultimo, peraltro, rifiutò la parte in favore di Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966). Giunti alla notte degli Oscar, Scofield non si presentò nemmeno, convinto che avrebbe vinto Burton: vinse lui, e l’Oscar gli fu spedito per posta, salvo rompersi durante la spedizione. Per il ruolo di Enrico VIII, che insignì Robert Shaw della nomination agli Oscar come Miglior attore non protagonista, vennero invece presi in considerazione Richard Harris e Peter O’Toole.

Nel cast figurano Paul Scofield, Robert Shaw, Wendy Hiller, John Hurt, e Orson Welles; e ancora Leo McKern, Susannah York, Nigel Davenport, Colin Blakely, Corin Redgrave, Vanessa Redgrave e Thomas Heathcote.

Un uomo per tutte le stagioni: sinossi 

Nel Cinquecento inglese, nel pieno del suo regno, Enrico VIII (Robert Shaw) è pronto a tutto per divorziare da Caterina d’Aragona e sposare Anna Bolena (Vanessa Redgrave). Il cardinale Thomas Wolsey (Orson Welles), Lord Cancelliere del Re, convoca il filosofo illuminato e moralmente integerrimo Tommaso Moro (Paul Scofield) al fine di trovare una soluzione al problema dinastico del Re. Moro è incline infatti all’avviare una trattativa diplomatica con la Santa Sede per ottenere l’annullamento, ma Wolsey vorrebbe accelerare i tempi.

Di ritorno dall’incontro, Moro incontra il giovane Richard Rich (John Hurt), intellettuale scaltro che lo implora di una raccomandazione, a cui Moro tuttavia si oppone ritenendolo inadeguato alla vita politica, indirizzandolo invece verso la meno prestigiosa via accademica. A seguito della condanna di alto tradimento di Wolsey, Moro vi subentra nel ruolo di Lord Cancelliere; questo tuttavia non cambierà la sua opinione sulle seconde nozze del Re. Nonostante le insistenze del sovrano per avere la sua approvazione, Moro non cede.

Robert Shaw e Vanessa Redgrave in una scena de Un uomo per tutte le stagioni

Incapace di reggere il confronto, Moro si dimette dalla carica insignitagli, ritirandosi dalla vita politica. Il suo successore, Thomas Cromwell (Leo McKern) – assieme all’arcivescovo Thomas Cranmer (Cyril Luckham) – assecondano il Re emanando l’Atto di Supremazia. Osteggiato dagli amici e abbattuto dai rivali, per Moro sarà l’inizio della fine, arrivando a processo e perfino alla forca, ma rimanendo strenuamente fedele ai propri ideali.

Questioni di coscienza e di Corona 

Dettagli di statue mostruose, di draghi, leoni e gargoyle; poi un dettaglio su di un medaglione clericale. La camera scende giù su di una lettera firmata e infine sigillata con una cera rossa come le pareti, le tende, e perfino gli abiti clericali; poi una soggettiva e infine una corsa forsennata in campo lungo. Su di una barca che scorre lungo le rive di un fiume al calar del sole, si apre il racconto de Un uomo per tutte le stagioni; attraverso cui Zinnemann affida a un efficace MacGuffin come la lettera del Cardinale Wolsey di Welles, il compito di introdurci nelle dinamiche di corte, prestandoci così il Tommaso Moro di Scofield con una delicatissima zoomata in primo piano.

In una cura scenografica e di costumi al limite del maniacale, Zinnemann configura in scambi dialogici incisivi, brillanti e dall’elemento linguistico ricercato – con tanto di sagace riferimento aristotelico – il compito di porre i contorni del contesto scenico. Presentandoci così, il focus del racconto inerente alla questione matrimoniale di Enrico VIII e Anna Bolena; oltre che, di riflesso, il peso specifico del Wolsey di Welles, che si ricollega funzionalmente, a doppio filo, alla criticità alla base della narrazione.

Orson Welles in una scena de Un uomo per tutte le stagioni

La posta in gioco si alza così, sensibilmente, nell’incontro – o per meglio dire “scontro” – dialettico tra Moro e Wolsey; caratterizzato da una regia austera che ben si sposa con il tono aulico dell’intera sequenza. Un rigido campo e controcampo in primo piano e campo medio tra Moro e Wosley seduto nel suo trono clericale; in una luce neanche soffusa, ma praticamente assente se non per una flebilissima candela. Wosley è spaventoso, mastodontico, quasi quinlaniano. Tuona la sua voce con tono fermo mentre scrive, mostratoci in una semi-soggettiva falsata su Moro, che dà valore alla profondità di campo da cui emerge un rosso porpora attenuato. Moro emerge dall’ombra, si avvicina. Wosley lo guarda quasi a volerlo incenerire, in una posizione di potere evidente che però viene livellata dalla presenza scenica del Moro di Scofield.

Composizione d’immagine che è puro cinema moderno

Laddove infatti, abitualmente, per dar peso all’aura caratteriale del Wosley di Welles avremmo codificato un inquadratura dal basso verso l’alto; Zinnemann invece li pone sullo stesso piano, giocando così con la configurazione della messa in scena a partire dalla posizione dei suoi agenti scenici. Moro in piedi e Wosley seduto ma su di un trono, da cui emerge una linea dialogica che inquadra, pienamente, la dimensione caratteriale del magnifico agente scenico di Scofield:

Questione di coscienza. Voi (Moro NdR) non mi date che preoccupazioni. Se riusciste a vedere i fatti come sono, senza quell’orrendo aspetto morale; con un po’ di senso comune, voi sareste uno statista.

Un agire di moralità innata che trasuda dallo schermo, quella del Moro di Scofield, di cui Zinnemann ci dà rimandi attraverso il linguaggio del corpo e la mimica del suo interprete; e di un agire pio, ora nel non farsi condizionare nel far favori, ora nel non cedere. Attraverso l’ingresso scenico dell’Enrico VIII di uno straordinario Shaw infatti, Zinnemann agisce ancora tramite presentazioni di riflesso; entrando nel vivo della questione matrimoniale e ponendo, così, le basi del conflitto scenico.

Paul Scofield e Orson Welles in una scena de Un uomo per tutte le stagioni

La criticità alla base di Un uomo per tutte le stagioni è un affare di Dio e dello Stato; di dinastie ed eredi, di fecondità e al contempo sterilità. In uno scambio dialogico incisivo dal ritmo vivace, con cui Zinnemann gioca con le ragioni di senso dei suoi agenti scenici; in un Moro filosofo “illuminato” ma fervente religioso e sostenitore delle ragioni della Chiesa, e in un Wosley Cardinale pragmatico, terreno, carnale.

Il cineasta de Da qui all’eternità (1953) ribalta così le abituali letture dei ruoli scenici, rendendo l’uno il simulacro dei valori dell’altro; in uno scambio dialogico che diventa quindi una discussione sui massimi sistemi con cui Zinnemann configura eroe, villain e la ragion d’essere del conflitto. Espediente da cui emerge la mole narrativa de Un uomo per tutte le stagioni, in un formidabile campo/controcampo di primi piani, resi gloriosi dalle performance di Welles e di uno Scofield sugli scudi:

Vedete, io credo che quando gli statisti trascurano la loro personale coscienza per l’amore dei loro doveri pubblici, portano il Paese per la strada più breve al caos; e allora ripiegheremo sulle mie preghiere.

Tommaso Moro e la sua intrinseca moralità

Lo sviluppo del racconto allarga le maglie relazionali introducendo il Roper di Redgrave, il pretendente della Margaret della York, attraverso cui Zinnemann approfondisce ancora il contesto scenico; disquisendo sul Luteranesimo e sulle ragioni della Riforma protestante, di corruzione e simonia. Una cifra stilistica e di mole narrativa corposa, che s’alza inesorabilmente con l’istrionico Robert Shaw e il “suo” Enrico VIII; il Re salta nel fango – quasi come fosse un maiale che ruzzola – ride sguaiatamente, chiama urlando e seduce parlando in latino.

È soprattutto un uomo alla mano l’Enrico VIII di Shaw, in una componente dialogica manipolatoria e affabile: tra impennate emotive, fiori strappati e riferimenti biblici, Zinnemann dispiega la questione patrimoniale in un saliscendi emozionale. Così facendo il cineasta de Mezzogiorno di fuoco (1952) dispiega l’intreccio e la forza narrativa de Un uomo per tutte le stagioni; nel restare fedele alle proprie ragioni che si oppone a una crescita esponenziale della dimensione caratteriale del Re di uno straripante Shaw.

Paul Scofield e Robert Shaw in una scena de Un uomo per tutte le stagioni

L’evento ha infatti una portata catastrofica nelle dinamiche del racconto, in un No che diventa depotenziamento dell’agente scenico di Scofield che è al contempo ricodifica dello schema eroe/villain di un Enrico VIII da deuteragonista a nemesi. Zinnemann riscrive progressivamente la dimensione scenica di Moro ora come Cancelliere, ora come individuo; agendo sulle dinamiche relazionali di servitori, alleati e amici. Ciò che resta però è la moralità del Moro di Scofield, totalmente imperturbabile:

“Io non cedo perché io non posso cedere. Non è l’orgoglio, non è il fegato; né alcuno dei miei appetiti, ma sono io, IO! C’è, in mezzo a questa massa di muscoli qualche cosa che non serve nessuno degli appetiti di Norfolk, ma che è Norfolk? C’è, sì? Ebbene fallo funzionare, per Diana! Perché altrimenti tu comparirai davanti al Creatore in cattive condizioni! Tanto che a Lui verrà il dubbio che lungo la tua ascendenza ci si sia infilata qualche cagna.

È già un cattivo affare perdere la propria anima in cambio di tutto il mondo, ma per il Galles

Quella de Un uomo per tutte le stagioni è una crescita dal ritmo vivace, netta; in un susseguirsi di forze contrarie e diaboliche nei confronti di un uomo empio e moralmente ineccepibile. Un Giobbe alla corte dei Tudor o forse un britannico Idiota dostoevskijano, di un agire controcorrente rispetto alla società; e gli eventi avversi sulla base di principi e del giusto, la cui ratio trova fondamento in queste parole:

Se qui in Inghilterra la virtù fosse una cosa redditizia; il senso comune ci renderebbe santi. Ma siccome vediamo che l’avidità, la collera, l’orgoglio, la stupidità, rendono molto ma molto più della carità, della modestia, della giustizia e del pensiero; ne deriva che la cosa migliore è puntare i piedi, anche a rischio di diventare eroi.

In una climax totalmente surreale – da campi lunghi sacrali e sontuosi – si consuma un evento delittuoso atroce e insensato, da cui emerge il senso più puro delle parole sopracitate, pronunciate da Moro. Nello spergiuro del Rich di Hurt c’è infatti l’essenza del marcio che c’è nel mondo; in un “perdere la propria anima…per il Galles” di cui Moro si fa beffe del suo tragico destino in una risata a denti stretti di pura rassegnazione dinanzi alla follia istituzionale.

Un uomo per tutte le stagioni… e per tutte le epoche

Accanto alla grande rivoluzione del linguaggio filmico della New Hollywood de Il laureato (1967), Hollywood Party (1968), Bob & Carol & Ted & Alice (1969), Fiore di cactus (1969), Easy Rider (1969), Il mucchio selvaggio (1969), MASH (1970), Harold & Maude (1971); che porteranno poi al cinema di una nuova audience de L’esorcista (1973), Lo squalo (1975), Star Wars (1977) e Apocalypse Now! (1979), vive ancora il cinema delle grandi storie dal respiro classico. Un modo di fare cinema che andrà progressivamente a scemare, o quantomeno evolversi, nel corso delle decadi; ma che tra gli anni Cinquanta e Sessanta risulterà vivo e florido.

È il cinema de Sentieri selvaggi (1956), Il ponte sul fiume Kwai (1957) e Lawrence D’Arabia (1962); di My Fair Lady e Tutti insieme appassionatamente, opere che si cristallizzano nelle memoria con il passare delle decadi. Un uomo per tutte le stagioni vi rientra pienamente, spinto però da quel vento innovativo new-hollywoodiano; nella scelta di raccontare di Enrico VIII e della sua libido regia, dal punto di vista di quel Tommaso Moro, uomo integerrimo, le cui virtù furono oscurate dal peso del celebre regnante.

Due anni dopo Il leone d’inverno (1968) e l’Enrico il plantageneto di O’Toole rievocheranno le atmosfere e il respiro narrativo dell’opera di Zinnemann; Un uomo per tutte le stagioni riesce però ad andare oltre il suo contesto scenico e l’epoca realizzativa. Nel raccontare di uomini d’indubbia moralità – disposti persino a morire pur di restare fedeli ai propri ideali e che periscono dinanzi agli spergiuri – Zinnemann accede al meccanismo della ciclicità della storia, consegnandoci così – nella figura di Tommaso Moro – una preziosa lezione senza tempo sull’importanza del saper prendere posizione nella vita, sempre, specie se si ritiene d’essere nel giusto.

La locandina de Un uomo per tutte le stagioni

L'articolo Un uomo per tutte le stagioni recensione film di Fred Zinnemann con Paul Scofield, Robert Shaw e Orson Welles proviene da MadMass.it Cinema Magazine.



This post first appeared on MadMass.it, please read the originial post: here

Share the post

Un uomo per tutte le stagioni recensione film di Fred Zinnemann con Paul Scofield, Robert Shaw e Orson Welles

×

Subscribe to Madmass.it

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×