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Quei bravi ragazzi recensione film di Martin Scorsese con Robert De Niro e Joe Pesci

Quei bravi ragazzi recensione del film di Martin Scorsese con Robert De Niro, Joe Pesci, Ray Liotta, Lorraine Bracco e Paul Sorvino

Sessant’anni di carriera e un opus filmico variopinto quello di Martin Scorsese, capace di passare da manifesti storici come Gangs of New York (2002) e L’età dell’innocenza (1993), a opere con cui raccontare della solitudine dell’individuo tra il caos della metropoli e in una notte di follia tra Taxi Driver (1976), Re per una notte (1982) e Fuori orario (1985). Biopic atipici come The Wolf of Wall Street (2013), e altri con cui declinare lettere d’amore al cinema tra The Aviator (2004) e Hugo Cabret (2011); ma è soprattutto il cinema gangster ad aver permeato totalmente la produzione filmica di Scorsese. Da Mean Streets – Domenica in chiesa lunedì all’inferno (1973) a The Irishman (2019) infatti, passando proprio per Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995), il cineasta italo-americano ha saputo raccontare meglio di chiunque altro la spensieratezza del gangster.

Violenza, potere e gloria, un percorso filmico lastricato, però, di un’implicita speranza per una vita migliore, retta; in una finestra di tempo per cambiare che Scorsese riduce gradualmente, di pellicola in pellicola. Dalla giovinezza di Mean Streets, il cui contrasto ontologico rappresenta perfino la base narrativa della dicotomia tra il Charlie di Keitel e il Johnny di De Niro, a The Irishman, dove il gangster Sheeran scende a patti con il dolore (e le conseguenze) di una vita violenta.

Ray Liotta, Robert De Niro, Joe Pesci, Paul Sorvino e Martin Scorsese in una foto promozionale de Quei bravi ragazzi

Nel mezzo però, c’è Quei bravi ragazzi, tratto dal romanzo Wiseguy (1986) di Nicholas Pileggi, candidato a 6 Oscar nel 1991 tra cui Miglior film, che rilegge il mob movie secondo un’accezione nuova, innovativa. Attraverso un approccio antropologico alla vita criminale, Scorsese racconta ascesa e rovinosa di Henry Hill; non perdendo mai, però, l’entusiasmo, e l’insito ottimismo di una vita sregolata. Un punto di vista narrativo, che se per dei canoni ordinari rappresenterebbe quello di un’anti-eroe, il racconto di Quei bravi ragazzi ne ribalta l’inerzia. Un eroe “alla rovescia” di una contro-epica che pur nella rovinosa caduta non perde mai stile e classe; grazie a un linguaggio filmico vivace con cui consegnarsi alla storia del cinema e divenendo, al contempo, principale ispirazione tematica de I Soprano (1999-2007) di David Chase.

L’opera con protagonista assoluto James Gandolfini, autentica pietra miliare e punto di svolta della serialità moderna, deve moltissimo al tono del racconto di Quei bravi ragazzi; in una continua celebrazione che passa dagli agenti scenici della Dott.ssa Melfi della Bracco, il Paulie di Sirico e il Christopher di Imperioli, alle continue reference, di cui alcune realmente esplicite. Un concept che ha fatto la storia quindi, ora come lungometraggio scorsesiano, ora come pioniere della serialità moderna.

Nel cast figurano Robert De Niro, Joe Pesci, Ray Liotta, Lorraine Bracco e Paul Sorvino; e ancora Frank Vincent, Debi Mazar, Michael Imperioli, Tony Sirico e Samuel L. Jackson.

Quei bravi ragazzi: sinossi

1955, New York. Henry Hill (Ray Liotta) è un adolescente di Brownsville, quartiere malfamato di Brooklyn. Affascinato da tutta una vita dal ruolo del gangster, Hill entra a far parte della banda della famiglia Lucchese di Paul Cicero (Paul Sorvino); in un’ascesa straordinaria che gli porterà gloria, rispetto e fortuna. L’incontro con il rampante Jimmy Conway (Robert De Niro), e l’esplosivo Tommy De Vito (Joe Pesci) creerà un legame; una squadra d’azione che agisce in modo preciso e violento, ricorrendo a qualunque mezzo per ottenere un risultato.

Otto anni più tardi, Henry adulto si gode i vantaggi della vita criminale tra vacanze di lusso e notti infuocate; una sera però Henry conosce Karen (Lorraine Bracco), un incontro che farà entrare l’amore nella sua vita. Tra il celeberrimo colpo alla Lufthansa e guerre di mafia, Henry scoprirà il rovescio della medaglia dell’essere un gangster tra tradimenti, amanti e i federali con il fiato sul collo.

Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci in una scena di Quei bravi ragazzi

La mitologia del gangster secondo Martin Scorsese

Una Pontiac nera corre lungo l’autostrada, tre uomini al loro interno e un rantolio da dentro il bagagliaio. L’auto si ferma, il bagagliaio viene aperto e al suo interno un uomo sanguinante. Tra attese, pugnalate e colpi di pistola si apre il racconto di Quei bravi ragazzi, attraverso cui Scorsese codifica un’apertura efficace, semplice, che ben rappresenta gli agenti scenici. Il Jimmy di De Niro, risoluto, professionale, freddo e dal grilletto facile; il Tommy di Pesci, esplosivo e caotico e non ultimo l’Henry di Liotta. A lui Scorsese affida il punto di vista del racconto, dandovi le chiavi della coscienza scenica, della voce narrativa; espediente che trova valorizzazione nella combinazione digressione temporale e monologo d’apertura:

Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster. Per me fare il gangster è sempre stato meglio che fare il presidente degli Stati Uniti. […] Quando cominciai a bazzicare alla stazione dei taxi; e a fare dei lavoretti dopo la scuola ho sentito che volevo essere dei loro. Fu là che capii che cosa significa far parte di un “gruppo”. Per me significava essere qualcuno in un quartiere pieno di gente che non era nessuno. “Loro” non erano mica come tutti gli altri; “loro” facevano quello che volevano, e nessuno chiamava mai la polizia. I ragazzi arrivavano in Cadillac e me le lasciavano parcheggiare. Giorno per giorno imparavo come si campava a sbafo; un dollaro qua un dollaro là. Vivevo come in un sogno.

Christopher Serrano in Quei bravi ragazzi

Monologo essenziale nell’economia del racconto, con cui Quei bravi ragazzi costruisce la mitologia del contesto scenico di Henry Hill e dell’America degli anni cinquanta. Così facendo, Scorsese dispiega un background solido fatto di dinamiche familiari problematiche, che di riflesso vanno ad arricchire di contro-valore la condizione del gangster.

Tra coming-of-age e contro-epica del self-made-man

Ne emerge così una sorprendente natura da coming-of-age, in cui diventare gangster non era soltanto porsi in una condizione elitaria, ma anche prendere in mano la propria vita dinanzi allo squallore dell’ordinarietà e della violenza familiare. Il punto di vista di Henry è innovativo perché nella sua visione fanciullesca, essere gangster è protezione, rispetto degli altrui; dove la tangente e gli atti di ritorsione erano elementi unicamente funzionale al ruolo d’onore. Espediente efficace attraverso cui il cineasta di Shutter island (2010) rilegge il mob movie attraverso un linguaggio filmico vivace, innovativo; valorizzando così la natura filmica di Quei bravi ragazzi come autentico capolavoro postmoderno.

Lo sviluppo del racconto permette l’ingresso scenico del Paulie di un misurato Sorvino, e del sopracitato Jimmy di De Niro detto L’irlandese. Un’insolita veste da deuteragonista per il primo feticcio attoriale di Scorsese; in una presenza che irradia la scena, e a cui il regista di Silence (2016) cuce addosso un ruolo magnetico, competente e sopra le righe. Jimmy “al cinema faceva il tifo per i cattivi”, e nell’economia del racconto assurge al ruolo di mentore di Henry; fungendovi così da guida in una contro-epica del self-made-man dove il primo arresto è una laurea, e al posto dei rimproveri arrivano gli applausi.

Buffo come? Che ci trovi di buffo?

Per noi vivere in qualsiasi altro modo era da matti. Per noi quella brava gente che faceva lavoretti di merda per una busta paga di merda, e andava a lavorare tutti i giorni con la metropolitana e stava sempre in pena per i conti da pagare; erano dei cadaveri, erano fessacchiotti, gente senza palle. Noi, se ci serviva una cosa, ce la prendevamo. Se uno si lamentava più di una volta che l’avevamo pizzicato aveva finito di lamentarsi per sempre; era ordinaria amministrazione, non ci pensavamo due volte.”

Una soggettiva intelligente in piano sequenza; e una sequela di personaggi coloriti e pellicce in freezer. Scorsese costruisce l’immaginario mitico e giocoso del gangster tra zoomate, primi piani e una regia vivace e dinamica; gli intenti rivoluzionari del linguaggio filmico di Quei bravi ragazzi trovano così conferme nell’ingresso scenico del sopracitato Tommy di Pesci. Autentica mina vagante, tanto che il suo brillante interprete vinse l’Oscar al miglior attore non protagonista, con cui Scorsese alza la cifra tecnica e stilistica del racconto tra aneddoti, “ping, pum” e “come sarebbe buffo?”.

Joe Pesci “il buffo” in una scena di Quei bravi ragazzi

Ilarità a parte, la sequenza è essenziale per comprendere il senso del racconto. In violenza mafiosa, pizzo e prevaricazioni che grazie al punto di vista di Henry diventano invece momenti buffi, perfino da slapstick comedy; non per questo sminuendone però la portata emotiva. Un contrasto che va ad arricchire di senso il racconto de Quei bravi ragazzi tra appuntamenti combinati e locali bruciati, partite a poker e piedi frantumati.

La criticità del ruolo del gangster e la nuova coscienza del racconto

In un piano sequenza storico in semi-soggettiva dalla regia avvolgente, Scorsese passa dal retrobottega a un “tavolo vergine”, codificando così un grandioso momento di cinema che racchiude l’essenza stessa del racconto e che ne rappresenta l’apogeo oltre che “l’inizio della fine”. L’ingresso scenico della Karen della Bracco infatti, allarga le maglie relazionali e innalza la posta in gioco; dispiegando così un sottotesto romantico di cruda realtà matrimoniale con cui far crescere la dimensione caratteriale dell’Henry di Liotta e al contempo depotenziare gradualmente il ruolo del gangster.

Lo sviluppo della dinamica relazionale infatti, fa scendere a patti Henry con il suo ruolo da gangster, e Karen con il suo essere “moglie di un gangster”. Dispiegando così una fitta rete di bugie e comportamenti equivoci da cui emerge la dimensione scenica di Karen; Scorsese ne strumentalizza infatti il punto di vista rendendola nel secondo atto voce narrante e “nuova coscienza scenica” – amplificando così la ratio documentaristica del racconto.

Ray Liotta e Lorraine Bracco in una scena de Quei bravi ragazzi

Così facendo il cineasta de Toro scatenato (1980) arricchisce il racconto della sua dimensione antropologica mafiosa; allargando le maglie del contesto scenico tra giustificazioni e la criticità del ruolo di moglie nell’inclusività dell’organizzazione. Raggiungendo il punto di non ritorno in uno stallo fatto di primissimi piani in campo e controcampo e dettagli del calcio della pistola; e in un rapporto a distanza fatto di regole ferree e promiscuità carceraria.

Evolve così il racconto di Quei bravi ragazzi, tra tavolate di lasagne e spaghetti con le polpette e chili di cocaina; in una componente contro-fiabesca che muta il tono del racconto da giocoso a tristemente cupo, vero. Avvolto il tutto in una solida narrazione che vive di regia dinamica, d’intenzioni sceniche; e di una colonna sonora pop-rock che va dai The Crystals, ai Cream e i Derek & the Dominos, e ancora Sex Pistols, Aretha Franklin e Tony Bennett. Scorsese rilegge così il cinema mob della lunga tradizione de Il Padrino (1972) in chiave pop, leggera, contemporanea; opponendo al tono aulico dell’epica “per atti” di Coppola, un autentico show postmoderno di paranoia, ribaltamenti di fronte e vita da rockstar del crimine:

Ci trattavano come delle stelle del cinema, ma eravamo più potenti, noi avevamo tutto“.

“Eravamo bravi ragazzi, ragazzi svegli”

La climax di Quei bravi ragazzi certifica la fine del (contro)sogno americano; di una controepica che pur presentataci dal punto di vista dei “cattivi”, cede il passo alla giustizia e ai “buoni”. Una narrazione atipica da self-made-man che crolla su sé stessa perché così vuole la storia; dove gli spaghetti alla marinara diventano fettuccine col ketchup e dove per riuscire nella vita non ci sono scorciatoie: bisogna rimboccarsi le maniche. Scorsese però non ci sta del tutto, serra le fila, rompe la quarta parete; e dispiega l’ultima grande testimonianza-lezione di un ispirato Liotta:

Noi gestivamo tutto: pagavamo gli sbirri, pagavamo gli avvocati, pagavamo i giudici. Stavano sempre con la mano tesa, le cose appartenevano a chi se le prendeva. E adesso è tutto finito. È questa la parte più dura, oggi è tutto diverso. Non ci si diverte più; io devo fare la fila come tutti gli altri e si mangia anche di schifo. Appena arrivato ordinai un piatto di spaghetti alla marinara e mi portarono le fettuccine col Ketchup. Sono diventato una normale nullità. Vivrò tutta la vita come uno stro**o qualsiasi.”

Siamo nel 1990, Scorsese ricalibra il gangster movie secondo parametri più leggeri e meno compassati, svecchiati; prosegue nel suo personale percorso filmico d’indagine antropologica del criminale, lo infarcisce di elementi pop che tutti hanno cercato d’imitare (senza successo), consegna Joe Pesci e Ray Liotta all’immortalità artistica e fa la storia del cinema.

La locandina di Quei Bravi Ragazzi

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