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Dalla Cina con furore recensione film con Bruce Lee

Dalla Cina con furore recensione del film diretto da Wei Lo e scritto da Ni Kuang con Bruce Lee, Nora Miao, James Tien e Maria Yi

Le opere postume, la morte accidentale, il successo internazionale e il figlio Brandon segnato anch’esso da un fato insolito; quella di Bruce Lee è una leggenda fatta uomo. Non a caso infatti, a quasi quarant’anni da quel florido periodo cinematografico, continuiamo a parlare del suo cinema; andato, così, a gettare le basi della codifica di una specifica grammatica filmica del cinema di arti marziali. Un processo di raffinamento delle estetiche – similare negli intenti – a quello compiuto da Akira Kurosawa per i jidai-geki, John Ford per il western e Sergio Leone per gli Spaghetti; che nel cinema di Bruce Lee va a codificare narrazioni semplici con cui veicolare messaggi rilevanti, avvolte nel crudo realismo di caratterizzazioni sporche e stunt spettacolari. Dalla Cina con furore (1972) di Wei Lo, in tal senso, ne rappresenta una delle più valide espressioni filmiche.

Un modo di fare cinema che troverà poi consacrazione nel successivo (e contemporaneo) L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente (1972) e l’iconica scena del Colosseo con Chuck Norris – di cui Lee firmerà anche regia e sceneggiatura. L’opera di Wei Lo invece, vive in Italia di un misunderstanding. Pur essendo infatti il secondo dei film realizzati da Lee in madrepatria, per via della distribuzione dell’epoca che lo rilasciò in sala prima de Il furore della Cina colpisce ancora (1971), Dalla Cina con furore viene così spesso, considerato, il primo film di Kung-fu di Lee; e per via dei toni più maturi, per l’affinamento dell’estetica, e per la semplicità di racconto che unisce una solida narrazione, per certi versi lo è.

Bruce Lee in una scena di Dalla Cina con furore

Il successo fu infatti clamoroso, in larga parte garantito dalla figura del Chen Jeh di Bruce Lee, un eroe moderno cavalleresco che combatte stoicamente contro l’invasore straniero dell’occupazione giapponese in Cina; trovando così, una cristallizzazione nell’immaginario collettivo in quel fermo immagine che chiude il racconto – rievocante in parte quello utilizzato da George Roy Hill per Butch Cassidy & The Sundance Kid (1969). Un fermo immagine che ferma il tempo, la narrazione, non ci lascia vedere l’esito del colpo; lasciandolo così, ai posteri, e a futura memoria.

Dalla Cina con furore, scritto ( ma non accreditato) da Ni Kuang, il più prolifico sceneggiatore del filone, gettò le basi del sottogenere “rival schools”, e della caratterizzazione accentuata dei personaggi; a partire dal Chen di Lee che non è soltanto l’eroe, ma “il buono” per antonomasia – espediente con cui giocare anche a livello cromatico, come nella scena della cerimonia funebre nella scuola. Un simulacro funzionale ed efficace, da aprire la strada a una maggior semplicità narrativa nel cinema orientale; garantendo così le fortune di attori come Jackie Chan (che qui peraltro compare in un breve cameo) e Jet Li.

Dalla Cina con furore: sinossi 

Shanghai, 1910. Il maestro di arti marziali Huo Yuanjia, fondatore della scuola Jingwu Tiyu Hui, muore in circostanze misteriose. Chen (Bruce Lee) sconvolto dall’avvenimento, sospetta che la morte del suo maestro sia tutt’altro che un evento naturale; piuttosto un complotto degli invasori giapponesi per spazzare via una delle ultimi, nobili, tradizioni cinesi.

I sospetti trovano conferma il giorno della cerimonia funebre, quando l’arrivo di alcuni rappresentanti di una scuola giapponese di Jujitsu romperà l’armonia del ricordo; minacciando i presenti e spiattellando in faccia a Chen uno striscione con su scritto: “Marionette dell’Asia“. Attraverso un’accurata indagine, tra trasformismo, momenti romantici e botte da orbi, Chen farà di tutto per vendicare il proprio Maestro – ma potrebbe non bastare.

Bruce Lee in una scena di Dalla Cina con furore

L’urlo di Chen terrorizza l’Oriente: il divario sociale tra cinesi e giapponesi

La nostra storia ha inizio con la morte di Huo Yuanjia, leggendario eroe cinese famoso per aver sconfitto il campione di lotta russo e molti giapponesi campioni di Bushido. Fu avvelenato, ma da chi? Perché? Tra le molte ipotesi questa che vi narriamo è la versione più popolare.

Un risciò arriva sin alle soglie di una casa, un uomo vestito di bianco si precipita dentro; un altare funerario, poi una tromba e un funerale; una bara rossa seppellita dai suoi discepoli. Tra ombrelli rossi e azzurri, e mani con cui scavare per terra; un evento traumatico di cui sentiamo tangibili gli effetti ma non le modalità, apre il racconto di Dalla Cina con furore.

In un silenzio funebre tra piani medi in campo e controcampo, con cui Wei, disegna la dimensione caratteriale dello Chen di Lee, tra improvvise esplosioni emotive e una mimica caricata a livello espressivo. Wei pone così le basi di un conflitto che, con lo sviluppo del racconto, vede diradare la fitta nebbia avvolta alla morte di Huo; a cui Wei cuce un solido background scenico tra il prologo testuale e la dimensione mitica dei suoi insegnamenti – in un agire volto ad arricchire non soltanto la mente ma anche il fisico dei giovani allievi. La sequenza della commemorazione, risulta essenziale nell’economia narrativa; in uno scarto tonale con cui il cineasta cinese delinea il turning point portante alla base del racconto, innalzando sensibilmente la posta in gioco.

Una scena di Dalla Cina con furore

Espediente con cui Wei gioca con l’arena scenica e le sue componenti; ora nell’opposizione cromatica tra il candore nel vestiario di Lee e il resto delle tuniche nere, ora nel guanto di sfida dei rivali cinesi. Momento scenico che Wei carica di significato; in una regia fluida che indugia sulla rabbia che cova il Chen di Lee tra primi piani zoomati del volto, e dettagli dei pugni che si stringono.

L’intera sequenza, nel depotenziamento degli allievi di Huo, risulta funzionale al fine di scatenare, di riflesso, quella del Chen di Lee; in un duello leggendario che funge da sequenza-madre del secondo atto, con cui Wei costruisce la dimensione del Chen macchina da guerra. Tra i celebri suoni da guerra di Lee, in una panoramica dall’alto con tutti a cerchio, Wei scatena “l’urlo di Chen” in una serie di colpi micidiali di rara leggiadria e perfezione filmica. Dalla Cina con furore valorizza così la componente fisica del suo racconto tra letali colpi di nunchaku – il cui successo cinematografico è proprio opera di Lee – e una sagace Leone zoomata; realizzando appieno la dimensione caratteriale del suo formidabile interprete.

Sul solco di Huo Yuanjia, tra tradizione e contemporaneità

Nel dispiego del racconto, Wei riequilibra il divario tra cinesi e giapponesi, radicando l’elemento sociale dell’occupazione giapponese in Cina tra ritorsioni e provocazioni; attraverso un linguaggio filmico semplice e immediato con cui Wei strumentalizza così il “perfetto combattente” Chen, gettando le basi del ruolo scenico-epico di “salvatore”. Espediente efficace, quasi scolastico negli intenti, con cui non soltanto Wei delinea caratterizzazioni sporche e brutali dei villain scenici; ma anche in un agire di riflesso con cui approfondire e arricchire il contesto narrativo.

Declinando così un racconto dall’andamento teso, e in un incedere ritmico netto e spedito; attraverso cui Wei realizza una struttura narrativa fortemente caratteristica che vive dell’opposizione di momenti stucchevolmente malinconici, ad altri vivaci, vibranti, di pura adrenalina. Tutti sublimati e avvolti nella mimica autoironica e trasformista di Bruce Lee, tra camuffamenti, tenacia e botte da orbi.

Bruce Lee in una scena di Dalla Cina con furore

Ma è nella climax che Dalla Cina con furore scatena la sua anima sociale. Oltre a denunciare i soprusi dell’occupazione giapponese, Wei cuce al suo racconto una narrazione che è punto d’incontro tra innovazione e tradizione – arricchendone così la significazione. Espediente che il regista cinese dispiega attraverso la ricostruzione – indiretta – della leggenda di Hua per mezzo del volto – e delle abilità – del Chen di Lee; sgominando prima il Petrov di Baker e poi il Suzuki di Hashimoto e i suoi seguaci – ovvero un “russo” e dei “campioni giapponesi di Bushido”.

Dalla Cina con furore: il “vero” inizio dell’ascesa di Bruce Lee

La carriera cinematografica di Lee ebbe inizio nel 1941 – ad appena tre mesi – in Golden Gate Girl; poi tante partecipazioni in film minori, fino alla ribalta americana con The Green Hornet (1966-1967), con il deuteragonista Kato – dalla valenza narrativa perfino superiore al Britt Reid di Van Williams. Laddove Lee avrebbe potuto continuare il suo percorso in America, l’abile guerriero cinese ebbe la lungimiranza di tornare in patria; acquistando consapevolezza e consacrandosi come interprete intelligente, vivace, che sapeva ben gestire il tono del momento filmico.

Il successo porterà poi all’apice, e a quel I 3 dell’Operazione Drago (1973) con il compianto John Saxon, che avrebbe potuto rappresentare la definitiva svolta americana nella carriera – ma che finisce con l’essere, ironicamente e disgraziatamente, la sua conclusione. Tralasciando opere postume come La furia del drago (1974), Superdraghi della notte (1976) e quei L’ultimo combattimento di Chen (1978) e L’ultima sfida di Bruce Lee (1981) di cattivissimo gusto i cui risvolti di trama finiscono con il farsi beffe della morte e della vita reale; di Bruce Lee ci restano le sue opere reali e “vive”, volute e non create per meri scopi commerciali mascherati da celebrazioni. E proprio quel Dalla Cina con furore che tra tradizione e innovazione ha rappresentato, per davvero, l’inizio “dell’ascesa cinese”, di un atleta intelligente e spontaneo, unico e rivoluzionario.

La locandina di Dalla Cina con furore

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