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Fuga da Hollywood recensione [Flashback Friday]

Fuga da Hollywood recensione del film diretto e interpretato da Dennis Hopper con Daniel Aldes, Richmond L. Aguilar, John Alderman, Michael Anderson Jr., Toni Basil Samuel Fuller

Il documentario presentato alla 77.esima Mostra del cinema di Venezia, Hopper/Welles (2020) è certamente uno dei tesori più preziosi per i cinefili contemporanei – al pari di Hitchcock/Truffaut (2015). Rivela infatti di una cena lunga e vivace tra Dennis Hopper e Orson Welles nel lontano 1970; il tutto avvenuto durante una pausa dalle rispettive lavorazioni de Fuga da Hollywood (1971) e The Other Side of the Wind (2018).

Non sorprende che due artisti così, si siano incontrati proprio durante le lavorazioni di film del genere; la testa calda e il leone d’inverno del cinema americano infatti, hanno rappresentato due delle anime filmiche più vivaci e giocose della New Hollywood. Di Orson Welles si potrebbe perfino dire che anticipò le sperimentazioni narrative della New Hollywood di almeno trent’anni con Quarto potere (1941) e L’infernale Quinlan (1958); ma lui era avanti di quaranta rispetto alla sua generazione.

Di Dennis Hopper invece, di un talento registico bruciato troppo presto, ma che tra Easy Rider (1969) e proprio Fuga da Hollywood, ha saputo realizzare due opere narrativamente squilibrate, ma capaci di cogliere l’essenza dell’epoca come poche altre finora.

La locandina di Fuga da Hollywood

Se quindi Hopper/Welles rappresenta un essenziale dialogo per cinefili e cineasti, con cui inquadrare due punti di vista dicotomici ma entrambi innovatori del cinema dell’epoca; ciò che resta a noi spettatori, sono le opere filmiche. Quei Fuga da Hollywood e The Other Side of the Wind tanto geniali quanto agli antipodi; l’opera seconda di un regista consumatosi presto, e quella postuma di uno dei più grandi di tutti i tempi.

Nel cast de Fuga da Hollywood figurano Dennis Hopper, Daniel Aldes, Richmond L. Aguilar, John Alderman; e ancora Michael Anderson Jr., Donna Baccala, Toni Basil, Samuel Fuller e Kris Kristofferson.

Fuga da Hollywood: sinossi

Uno stunt-coordinator Kansas (Dennis Hopper) si occupa dello stato dei cavalli durante la lavorazione di un western in un piccolo villaggio peruviano. Il film in questione è Pat Garrett e Billy the Kid; con protagonisti Dean Stockwell e Rod Cameron, per una regia di Samuel Fuller. Dopo un incidente in cui un attore muore durante uno stunt qualcosa scatta nella sua testa; Kansas decide infatti di chiudere con il cinema, per vivere in Perù con una donna del posto.

Dennis Hopper in una scena de Fuga da Hollywood

Convinto di aver trovato il paradiso, Kansas si dedica alle sperimentazioni, ai viaggi e all’amore libero con Maria (Stella Garcia). L’idillio s’interromperà nel momento in cui i nativi peruviani decideranno di girare il “loro” film con telecamere fatte di stecche di bambù; una situazione tra il grottesco e il surreale da cui Kansas non ha via d’uscita. Se è pur vero che il film dei nativi è una finzione a pieno titolo, la violenza del loro cinema western è vera.

Montgomery Clift, Henry Hathaway e Alejandro Jodorowsky

L’illuminazione per Fuga da Hollywood, arrivò durante la lavorazione de I quattro figli di Katie Elder (1965) in Messico. Hopper rimase affascinato dai rituali della gente locale, così ipotizzò un concept che coniugava il meta-cinema all’esotico; in pratica la sua esperienza sul set del film di Henry Hathaway – che nei piani originali di Hopper, sarebbe dovuto essere il regista del “film nel film”. Nelle idee di Hopper c’era anche di scritturare Montgomery Clift nel ruolo di Kansas, salvo poi dovervi rinunciare per la sua prematura dipartita. Il regista americano propose il ruolo anche a John Wayne, Ben Johnson, Willie Nelson, e perfino Jack Nicholson che fece pure parte della pre-produzione; ma nessuno convinse appieno Hopper che alla fine, scelse di interpretare Kansas egli stesso.

Eppure la genesi di Fuga da Hollywood fu tutt’altro che semplice. Pensate che dopo il successo di Easy Rider, Hopper era letteralmente allo status di leggenda vivente; ma al punto da aver avuto carta bianca dalla Universal per la sua seconda regia – influenzandone perfino le strategie future. La Universal infatti, sull’entusiasmo del successo di Easy Rider, iniziò a finanziare opere sperimentali dando ai registi piena libertà; nacquero così Taking Off (1971) di Forman e American Graffiti (1973) di Lucas.

Il ciak durante la lavorazione di Fuga da Hollywood

Così, nel pieno della libertà creativa, Hopper volò in Perù assieme a Fuller e Kristofferson per girare il film; iniziò così il progetto Chincero che impegnò la troupe per mesi. Conclusasi la lavorazione, Hopper si ritrovò con ore e ore di materiale da montare; decise di isolarsi nella sua casa a Taos, New Mexico al fine di rispettare la deadline. Complice, tuttavia, l’intenzione di Hopper di realizzare un’opera “di rottura” verso le abituali narrazioni hollywoodiane, il progetto Chincero si arenò.

In preda a quello che potremmo definire “il blocco del montatore”, intervenne in suo soccorso l’amico e regista visionario Alejandro Jodorowsky. Il regista di El Topo (1970) realizzò un montaggio in linea con le idee di Hopper, ma ancora troppo lineare. Ispirato dal processo creativo di Jodorowsky, il cineasta americano ripartì da zero con la post-produzione, realizzando l’opera per come tutti la conosciamo.

Fuga da Hollywood: Pat Garrett & Billy the Kid di Samuel Fuller

Un’insolita apertura di racconto quella di Fuga da Hollywood. A partire da una bizzarra processione messicana a cui si aggiunge una sfilata in costume per il casting di un film; un tripudio di colori ed immagini tra statue di Gesù, case semi distrutte, e una cinepresa di cartone. Sacralità e giocosità s’uniscono in una scenografia dai colori pastello, tra canti stonati, teorizzazioni sulla moralità, esplosioni e balli sconclusionati; basta questa curiosa sequenza d’apertura per rendersi conto della ratio narrativa alla base dell’opera di Hopper.

Sulle note di una romantica e delicata cover di Me and Bobby McGee di Kris Kristofferson, si dispiega una narrazione d’immagini dall’andamento schizofrenico e senza un’apparente anima tematica – a metà tra la circolarità narrativa e l’a-linearità. Tra teorizzazioni sul cinema e su Blake Edwards, e canti; e ancora balli, bizzarri rituali e sperimentazioni sessuali, ecco emergere una forte componente meta-cinematografica che ha come giustificazione narrativa un ipotetico Pat Garrett & Billy The Kid diretto da Samuel Fuller – e non da Sam Peckinpah nel ’73.

Dennis Hopper in una scena di Fuga da Hollywood

Partendo dalla sopracitata giustificazione narrativa, che trova come base una delle più classiche epiche western, Hopper carica di significato le ragioni sceniche della sua rottura dagli schemi, rileggendo così topoi “di genere” tra scorci fordiani di prati verdi e cieli azzurri, partite a poker tra bari, tentativi di evasione dalla prigione; ma soprattutto una sparatoria che tra capriole, salti, e spari da ogni angolo possibile dell’arena scenica, è il corrispettivo narrativo dell’inseguimento verso Chicago di The Blues Brothers (1980) di John Landis.

La dissacrazione de “il cinema americano per eccellenza

Tale componente meta-cinematografica permette così a Hopper di declinare una rilettura in chiave parodistica, la cui forza narrativa va ben oltre i semplici topos; piuttosto va a configurarsi in una rilettura del cinema hollywoodiano e i suoi stilemi nella loro interezza. Mostrandoci sequenze cinematograficamente pure e seriose, ma che al suo interno vivono di una vivace giocosità, Hopper le fa sue mediante un linguaggio filmico elaborato, caotico; in un montaggio alternato che incede tra “scene mancanti” e autentiche destrutturazioni di momenti scenici.

Espediente con cui, tra un rallenti con cui mostrarci una caduta nel mezzo di una sparatoria, e una scazzottata destrutturata scena per scena, Hopper rompe la sospensione d’incredulità scenica. Declinando così una sagace opposizione filmica tra la Hollywood che simula la realtà – romanzandola e spettacolarizzandola per ragioni narrative – e la cine-realtà; la differenza, in buona sostanza, tra un cazzotto dato per finta, e per vero.

Dennis Hopper durante la lavorazione di Fuga da Hollywood

Quella operata da Dennis Hopper quindi, non è soltanto una critica alla mancanza di realismo del cinema hollywoodiano. Il cineasta americano amplifica così gli effetti della narrazione di Easy Rider; un processo atto a operare non soltanto a livello scenico, ma anche drammaturgico e nelle componenti stesse del racconto. In tal senso quindi, Fuga da Hollywood è un attacco totale alle linearità narrative del cinema classico e perfino alle artificiose narrazioni di quello moderno. Non è riscontrabile in Fuga da Hollywood né un plot specifico o un conflitto scenico; né tanto meno il delinearsi di una caratterizzazione compiuta del suo eroe protagonista.

Hopper procede realizzando quello che il titolo originale di Fuga da Hollywood definisce “The last movie“, l’ultimo film. Un processo meta-cinematografico con cui dissacrare il genere che Bazin definì “il cinema americano per eccellenza“; privandolo così di una componente di significato nei suoi eroi, di una morale, di uno sviluppo lineare e perfino della dicotomia cowboy-indiani. Realizzando così un’opera che nel suo essere sgangherata e allucinata, è al contempo la più pura espressione della libertà narrativa della New Hollywood.

Dennis Hopper e la più pura libertà creativa della New Hollywood

C’è una sequenza che nel suo passare quasi inosservata funge un po’ da chiave di lettura di Fuga da Hollywood. Il personaggio di Hopper si aggira da una stanza all’altra di una festa vivace, passando per musica sempre più stonata e sgangherata; ed è esattamente questo Fuga da Hollywood. Della musica stonata in sottofondo a una galleria di momenti variegati e misti; ma anche giocosi, vivaci, brillanti, violenti, veri e falsi. Spezzando così la tipicità narrativa del cinema hollywoodiano per lasciare il posto alle immagini, e a suggestioni lisergiche jodorowskyane. Un’opera quasi impossibile da giudicare per i canonici parametri, fuori scala, più un progetto narrativo che non un effettivo lungometraggio – e per questo unica nel suo genere.

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