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Vi ricordate? Macchine fotografiche a rullino…

Le macchine fotografiche a rullino possono oggi sembrare desuete, rottami e vecchiume, ma in realtà mantengono ancora un certo fascino perché rimandano ad un epoca di attese, dove Ogni singolo scatto imponeva calcoli precisi e diverso tempo per avere prova della correttezza visiva di ogni inquadratura. Certo, le pellicole hanno un costo e questo può scoraggiare il fotografo, ma non è questo un incentivo in più per non deludere le proprie aspettative con foto banali? Le fotocamere analogiche sono divertenti perché vogliono sfidare il fotografo e quindi… perché non adottarne una?

Propagandosi con moto ondulatorio e viaggiando in linea retta, il comportamento della Luce è stato alla base degli studi di tutti i principali tecnici che si sono occupati dello sviluppo di prototipi fotografici. Parallelamente ai progressi fatti dalla tecnica fotografica, che permisero agli operatori di uscire dagli atelier, si traccia anche un secondo studio di perfezionamento dei procedimenti chimici di riproduzione che hanno reso la cattura e il lavoro in camera oscura molto più semplice. I progettisti che hanno saputo, a cavallo tra ‘800 e inizio ‘900, coniugare concretamente in una fotocamera le innovazione fisico-ottiche e chimiche si sono trovati a fare i conti con una clientela affamata di immagini, ghiotta di fotografie e pronta a spendere per immortalare pochi attimi di vita. Dalle idee degli artigiani e dai loro piccoli laboratori si è arrivati all’industria fotografica che continua a favorire in ogni modo il fotoamatore, proponendogli macchine e obiettivi sempre più performanti e di livello professionale.

Breve storia della pellicola fotografica

Per scorrevolezza e limiti di pagina questo articolo non può riportare, in modo ordinato, i più grandi inventori dei sistemi di cattura della luce, ma, con un salto metaforico, ci permette di arrivare direttamente a colui che trasformò la fotografia in un vero business: George Eastman.

L’americano George Eastman, già fondatore della Kodak, dimostrò di possedere un grande intuito commerciale e un notevole talento quando nel 1886 commercializzò un apparecchio fotografico dotato di un rocchetto di Pellicola fotosensibile di gelatina appoggiata alla carta: per la prima volta si scattava su un supporto che permetteva il processo negativo/positivo. Con ogni rocchetto carico si riprendevano 48 inquadrature di dimensioni 10 x 12,5 cm. Al di là degli inconvenienti qualitativi riguardanti il supporto in carta, poi risolti con l’american film, la grande intuizione commerciale di Eastman fu quella di organizzare un servizio di sviluppo e stampa nella sua fabbrica, togliendo così al cliente ogni preoccupazione e rispedendogli la fotocamera nuovamente caricata con pellicola vergine: Voi premete il bottone e noi facciamo il resto.

Le pellicola fabbricate da Eastman, nel corso dell’evoluzione, sono state notevolmente migliorate grazie all’ausilio della celluloide, materiale fondamentale anche per la nascita del cinema. Ma per parlare di una macchina fotografica a rullino, come la intendiamo oggi, dobbiamo aspettare il 1925 quando sul mercato tedesco viene venduta la Leica. Pensata già nel 1914 dal tecnico tedesco Oskar Barnack e poi messa in un cassetto per l’avvento del primo conflitto mondiale, la fotocamera tedesca adotta una pellicola 35 mm e produce inquadrature di dimensioni 24 x 36 mm: piccoli negativi per grandi immagini. É così leggera da consentire per la prima volta la foto a mano libera e quindi lo sviluppo dei grandi reportage di viaggi.

Risulta paradossale, osservando un sofisticato equipaggiamento fotografico moderno, ma in fin dei conti una macchina fotografica altro non è che una scatola con un obiettivo davanti e una pellicola nella parte opposta. Eppure le prime fotocamere, da ripassare anche il caso già trattato delle stenopeiche, altro non erano che scatole in legno dotate di un obiettivo telescopico montato sul davanti e un telaio per il materiale fotosensibile sulla parete opposta.

Meccanica delle macchine fotografiche a rullino

L’attuale produzione può essere divisa in quattro categorie: le macchine a banco ottico, le compatte, le reflex bioculari e le reflex monoculari; allo stesso tempo possiamo classificare gli apparecchi in tre formati: grande formato (le pellicola piane), medio formato (pellicole in rullo) e piccolo formato (rullini da 35 mm). In ogni caso, qualunque sia il formato del negativo o il tipo di modello, una macchina fotografica a pellicola deve avere un sistema di puntamento per il controllo dell’inquadratura, una precisa messa a fuoco dell’obiettivo con diaframmatura e un otturatore in grado di assicurare il controllo del momento e della durata dell’esposizione. Tra i requisiti per il corretto funzionamento possiamo aggiungere un sistema di caricamento, trascinamento e recupero della pellicola a prova di luce insieme ad un esposimetro che ci aiuti ad impostare la corretta esposizione ad ogni scatto.

A differenza delle macchine digitale, le analogiche devono poterci consentire di sostituire la pellicola senza esporla alla luce. Nel caso dei modelli di piccolo formato il materiale sensibile rimane protetto durante il caricamento perché è racchiuso in caricatore a tenuta di luce, il cosiddetto rullino, con la fessura d’uscita rivestita di velluto nero. Al termine delle riprese la pellicola da 35 mm, che nel frattempo era avvolta intorno alla bobina raccoglitrice, viene riavvolta da un motore, o con una manovellina mossa dal fotografo, direttamente nel suo caricatore di origine in quale viene poi rimosso dalla fotocamera.

Lo sviluppo della pellicola

Una pellicola normalmente esposta differisce da una vergine esclusivamente a livello di struttura atomica, poiché già mantiene nei suoi scatti l’immagine invisibile. Come abbiamo già avuto modo di trattare in altri articoli, lo sviluppo chimico va eseguito nell’oscurità e consente di trasformare l’immagine latente in una fotografia visibile e stabile, inalterabile dalla luce. Le varie soluzioni chimiche utilizzate per processare la pellicola in camera oscura, sono allo stato liquido e vengono utilizzate a seconda del trattamento che stiamo svolgendo. La prima soluzione serve a trasformare le aree colpite dalla luce in grani d’argento nero (bagno di sviluppo), mentre la seconda elimina i granuli di sali d’argento rimasti inalterati perché non colpiti dalla luce (bagno di fissaggio). Dopo il lavaggio e l’asciugatura l’immagine è il negativo del soggetto ripreso, dove le parti più dense corrispondono alle parti in luce, mentre le trasparenti alle parti scure e che quindi hanno lasciato l’emulsione inalterata.

A questo punto possiamo ritornare in camera oscura ed inserire la pellicola nell’ingranditore, ovvero un apparecchio in grado di proiettare, a varie distanze, ogni singolo fotogramma presente sulla pellicola. Anche qui si effettua un’esposizione durante la quale la carta riceve più luce in corrispondenza delle zone chiare del negativo e meno luce in corrispondenza di quelle più dense. Sarà proprio il negativo del negativo, ottenuto sviluppando la fotografia latente sul foglio di carta fotosensibile, a riportarci al positivo e quindi all’analogo del soggetto che abbiamo ripreso.



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