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Il silenzio sulla pagina

Dell'AIDS e del virus dell'HIV nessuno parla più. Nessuno ne scrive più. Di AIDS, almeno in Occidente, non si muore più: le persone che hanno contratto la sindrome assomigliano ormai a molti altri malati cronici, bisognosi di continue cure mediche specialistiche e trattamenti costosi. A differenza di quello che succede nei paesi emergenti e in via di sviluppo, però, in Europa e negli Stati Uniti gli uomini gay e bisessuali rappresentano ancora la popolazione a maggior rischio di infezione, quella con più persone infette o con HIV non trattato. Nell'Occidente l'HIV/AIDS è ancora una malattia profondamente "gay", che ci piaccia o meno.
    A seguito di queste considerazioni, molti attivisti gay si stanno mobilitando per un nuovo processo di “omosesualizzazione” della prevenzione, in contrasto con l'approccio adottato negli ultimi 15 anni nei confronti dell'AIDS da gran parte delle comunità lgbtq. Il recupero da parte dei gay della malattia servirebbe a fissare obbiettivi di prevenzione e le priorità per le risorse e gli interventi. Recuperare soprattutto la lingua della malattia, riappropriarsene anche come modello narrativo attraverso il quale contrastare l'indicibilità e l'intoccabilità dell'AIDS e mantenere alta l'attenzione.
    Fin dall'inizio la letteratura sull'AIDS, per la sua forte vocazione sociale e moraleggiante, ha tentato di presentare ai suoi lettori i pericoli della malattia, richiamando spesso l'attenzione sulla sicurezza, e in ultima analisi, mostrare la sofferenza e la solitudine delle persone che con la sindrome hanno a che fare. Come altre forme di scrittura di testimonianza, la letteratura sull'AIDS è emersa in reazione alla negazione generale e alla scarsa familiarità con il suo soggetto, una letteratura che chiama i lettori a dichiarare la loro corresponsabilità nel silenzio e a condividere l'onere di testimoniare e commemorare coloro che sono morti.
    Nei paesi anglosassoni, dove per prima si è tentato di rispondere alla malattia anche con la letteratura, molti di questi libri, per lo più romanzi o memoir, hanno effettivamente dato forma all'AIDS, ancor più quando la politica intenzionalmente negava l'evidenza. Così romanzi come Second Son di Robert Ferro del 1988, dove la malattia non veniva mai nominata con il proprio nome, saggi come AIDS and its Metaphors di Susan Sontag del 1989, opere teatrali come Angels in America di Tony Kushner del 1993, hanno restituito ai lettori la complessità dell'esperienza clinica e personale dell'AIDS. La situazione in Italia, come spesso accade, è ben diversa. A parte rare eccezioni, come Camere Separate di Pier Vittorio Tondelli, L'intruso di Brett Shapiro, Kurt sta facendo la farfalla di Alessandro Golinelli, Il male di Dario Bellezza di Maurizio Gregorini, i discorsi letterari e non sull'AIDS sembrano non essere mai attecchiti del tutto e ora sono completamente scomparsi.
    Bisognerebbe forse ripartire, forse, dall'interrogativo che si pone Adam Mars-Jones nell'incipit di un suo racconto, dal titolo 'Monopolies of Loss' incentrato proprio sull'AIDS: “How do you tell a fresh story when the structure is set?”, come si fa a raccontare una storia nuova quando la struttura è data?

[Articolo originariamente pubblicato su Finzioni Magazine il 15 novembre 2012]


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