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La pioggia prima che cada

Chiunque voglia scrivere in Gran Bretagna oggi deve fare i conti con Virginia Woolf. Così come per gli americani è l’ingombrante presenza di Hemingway ancora tutta da smaltire, vecchio residuo di culture e società che non ci sono più. Non fidatevi di chi vi dice che James Joyce è stato l’autore più importante del Novecento, sta mentendo e ne è consapevole. Joyce è stato uno scrittore medio che ha saputo fare sue in modo fine doti e invenzioni stilistiche non sue (Dorothy Richardson, Gertrude Stein, Sylvia Beach, Djuna Barnes et al.) in un’epoca pre-creative commons.
Virginia Woolf, si diceva, è il personaggio con cui gli scrittori britannici devono necessariamente confrontarsi. Maschi e femmine. Ora, se buona parte di quegli scrittori maschi contemporanei sembra essere ossessionato dalla mascolinità (quella loro e quella dei loro rivali), si pensi all’ultimo Ian McEwan o a Martin Amis, che di questo tema sta facendo una personale crociata per demonizzare il non-Occidente, ce ne sono alcuni che da questo confronto ne escono rafforzati.
L’ultimo libro di Jonathan Coe, La pioggia prima che cada, non ha nulla di Virginia Woolf, eppure leggendolo non si può non pensare a lei. A lei e a tutte quelle scrittrici che grazie a lei hanno potuto prendere la penna e raccontare la loro storia. Jonathan Coe aveva già recentemente reso omaggio ai classici femminili pubblicati dalla casa editrice Virago, in un
articolo in cui riconosceva che la lettura di quelle scrittrici era stata per lui destabilizzante in quanto lettore e scrittore. In questo romanzo, scritto e narrato con un punto di vista femminile va oltre. E lo fa in modo sorprendente.
Come spesso Coe ci ha abituato, il romanzo racconta una saga familiare. Una famiglia media e comune nella Gran Bretagna della seconda metà del secolo scorso. Alla morte di Rosamond (il cui nome non può non rimandare a Rosamond Lehmnann), sua nipote Gill si ritrova l’ingrato compito di rintracciare una persona conosciuta per caso a una festa qualche anno prima e con la quale deve spartire parte dell’eredità della zia, che era lesbica e non aveva figli suoi. L’intrecciata storia delle tre donne è raccontata dalla stessa Rosamond attraverso la descrizione di venti fotografie e registrata su casetta perché Imogen, la donna da ricercare, è cieca.
Sarebbe, ovviamente, azzardato e impreciso parlare di écriture féminine a proposito di questo romanzo, qui voglio solo prendere in prestito la definizione che ne dà Elaine Showalter, che parla di “iscrizione del corpo femminile e della differenza femminile nel linguaggio e nel testo.” Ecco, questo mi sembra riuscito a fare Jonathan Coe: a iscrivere nel suo testo (scritto da un uomo) un corpo femminile nella sua differenza senza appropriarsene. Come l’incisione su nastro magnetico, supporto ormai definitivamente consegnato ai libri di storia, che riproduce la voce e la vita di una donna attraverso i suoi tempi, che registra pause e silenzi e che è destinato a usurarsi e cancellarsi con il tempo, il romanzo registra la sua storia e la ripete, non all’infinito – nemmeno questo medium è destinato a sopravvivere – ma nel presente, affinché il passato (fatto di storie) non venga cancellato.


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