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BOB DYLAN & LIKE A ROLLING STONE

Bob Dylan è una figura importantissima del songwriting americano ma non solo musicalmente, anche a livello socio/politico risulta essere spesse volte determinante nelle sue posizioni, convieni? Se per “posizioni” intendi quello che oggi si chiama endorsement, Dylan non mi sembra più determinante di tanti altri grandi artisti vicini al partito democratico americano. Pezzi storici come Blowin’ in the Wind, The Lonesome Death of Hattie Carrol e Hurricane sono ormai classici della canzone impegnata, ma sarebbe abbastanza riduttivo considerarli come esempi capaci di rappresentare compiutamente la poetica del loro autore. Potremmo dire, in effetti, che ogni canzone dylaniana è a suo modo “politica”, nel senso che presuppone sempre il tentativo di tradurre in termini poetico-musicali gli equilibri sociali del mondo in cui Dylan vive e dinanzi ai quali non può restare indifferente. Questo significa che la sua è una visione della realtà sempre necessariamente ambivalente, metamorfica, autonoma da qualsiasi ideologia e talvolta persino “scorretta” per gli standard odierni. Fin dalla sua comparsa sulla scena nei primi anni Sessanta, Dylan non ha mai accettato di essere “confinato” a una sola categoria, rifiutando tanto il titolo di “poeta” quanto etichette di comodo come quella di “voice of a generation”. Christopher Ricks una volta ha detto che non c’è sentimento che Dylan non abbia messo in musica, dal rancore alla nostalgia, dall’amore all’invidia, e io tendo a concordare. Mi piace pensare alla poetica dylaniana come a una immensa e ininterrotta indagine sull’umano, sulle possibilità che ogni uomo ha di riflettere sul suo destino e di confrontarsi con il suo mistero, sia che questo comporti una tensione religiosa verso l’assoluto sia che questo implichi un attaccamento radicale alla memoria collettiva o alle storie minime di individui comuni. Nel recente documentario Netflix di Martin Scorsese, Dylan dice “life is not about finding yourself or finding anything, life is about creating yourself and creating things”. Chiaramente questo aforisma racconta soltanto la pars construens della questione, la fede un po’ sconsiderata in un sogno americano che viene chiamato in causa per incoraggiare le persone ad agire, a prendere posizione innanzitutto davanti a se stesse. Ma noi sappiamo che Dylan ha evocato spesso anche la demistificazione di questo ideale, in nome del quale la cultura americana ha legittimato secoli di ingiustizia sociale, di soprusi, di violenze, di piccole e grandi menzogne che ogni individuo è avvezzo a raccontarsi per scagionarsi agli occhi di Dio, del potere e della comunità. Il punto è che Dylan non ha mai inteso prescrivere alla società delle “ricette” politiche precostituite e valide in modo incondizionato, preferendo cantare la contraddizione, il dubbio, l’impossibilità di offrire risposte definitive a domande che accomunano gli uomini e le donne di ogni tempo, cultura e classe sociale.

Partiamo dal titolo del tuo libro “Bob Dylan & Like A Rolling Stone” che riprende una pietra miliare nonché un classico del suo repertorio. Perché partire proprio da questo straordinario brano? Le ragioni sono molteplici e riguardano l’importanza storica del brano, il suo ruolo nella poetica dylaniana e soprattutto la possibilità, abbastanza rara nel mondo della popular music, di ricostruire un processo compositivo mettendo a confronto fonti orali e fonti scritte. A questa lista bisogna aggiungere anche un motivo personale, non esplicitato nel libro. Greil Marcus, come è noto, ha pubblicato nel 2005 uno straordinario volume di storia culturale interamente dedicato a questa canzone [Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroads; tradotto in Italia da Donzelli]. Leggendo il libro di Marcus nel 2018, restavo ammirato dalla sua capacità di offrire un resoconto così ben documentato e accessibile tanto agli studiosi quanto ai semplici appassionati. E tuttavia mi sembrava che mancasse qualcosa, che Marcus cioè mi stesse raccontando soltanto una parte della storia, quella parte che mi consentiva, come ascoltatore, di ricondurre le mie esperienze a un paradigma comune, condiviso con milioni di persone che avevano amato Like a Rolling Stone e continuavano a non spiegarsi la ragione profonda della loro “fede” dylaniana. Questa prospettiva “rassicurante” mi consentiva di valorizzare il mio personale legame con il brano non benché non avessi totale coscienza delle tradizioni musicali a cui Marcus faceva riferimento, ma proprio in funzione di quella stessa inconsapevolezza. Come musicista e ancora di più come studioso di poesia, era precisamente il segreto di questo potere che volevo decifrare, ma intendevo farlo con gli strumenti, in tal senso assolutamente “laici”, della filologia d’autore e dell’analisi poetico-musicale. Volevo restituire all’opera una dimensione “artigianale”, priva di biografismo e rivelazioni psicoanalitiche: a interessarmi non era tanto il perché la canzone fosse stata composta, ma piuttosto come era stato possibile farlo. Anche per questa ragione, non avrei mai potuto tentare di rispondere a questa domanda senza la fondamentale assistenza del Dott. Mark Davidson, archivista e direttore del Bob Dylan Archive di Tulsa (Oklahoma), che nel 2019, quando l’archivio era un luogo ancora precluso alla maggioranza degli studiosi, mi ha permesso di consultare la documentazione inedita su Like a Rolling Stone.

In questo lavoro ti approcci con particolare attenzione al rapporto oralità/scrittura. Che correlazione hanno? Ho scelto di dare particolare attenzione al rapporto tra oralità e scrittura perché l’oralistica, proprio come la metricologia, è una disciplina che consente di studiare la “tridimensionalità” dei testi cantati partendo da dati oggettivi desumibili direttamente dall’ascolto di una performance.
Da un punto di vista teorico, inoltre, i concetti di oralità e scrittura sono indipendenti da ogni definizione precostituita di poesia e di cultura “alta” e, almeno in questo contesto, permettono di concepire in modo antigerarchico l’equilibrio tra testo musicale e testo verbale. Quando parliamo di canzoni popular, infatti, una proporzione del tipo “oralità : testo musicale = scrittura : testo verbale” è troppo astratta per rendere conto dei continui meccanismi di contaminazione reciproca alla base delle fonti orali e scritte che uno studioso può avere a sua disposizione. In particolare, il caso di Like a Rolling Stone rivela l’esistenza di un vero e proprio continuum tra le testimonianze visive di una scrittura che vorrebbe innanzitutto farsi “ascoltare” e le evidenze sonore di soluzioni poetico-musicali che vengono ideate o improvvisate oralmente per poi diventare ricorrenti nelle incisioni ufficiali come nelle trascrizioni pubblicate. Questo per dire che, come Dylan, ogni autore-interprete non solo trova sempre il suo personale modo di “scrivere” ciò che canta, ma a un certo punto deve anche affidarsi alla propria voce per “correggere” quanto ha già scritto; per farlo, come sappiamo, può ricorrere a sistemi di distanziazione che solo raramente coincidono con la notazione “colta” e coinvolgono invece la sua personale capacità mnemonica, la scrittura tradizionale e i moderni strumenti di registrazione analogica e digitale. Oserei dire che, se davvero esistesse una costante trans-storica e trans-culturale che accomuna la poesia cantata di qualsiasi epoca, questa, a mio avviso, non dovrebbe essere individuata in una presunta “grammatica compositiva universale”, ma piuttosto nella sensibilità intermediale degli stessi poeti-cantanti, nella loro necessità di delimitare, con la parola cantata, una “terra di mezzo” che solo la voce ha la responsabilità e l’istinto di attraversare. Ora, per discipline come la filologia classica e la provenzalistica, questa terra di mezzo somiglierà sempre a un paradiso perduto, perché l’unica traccia delle performance di aedi e trovatori è impressa su trascrizioni fuorvianti che talvolta attribuiscono al testo un’origine orale fittizia o presuppongono l’emendamento di peculiarità esecutive recepite dai copisti come errori. Alle soglie dell’età contemporanea, la nascita della fonografia e la progressiva canonizzazione di generi come la canzone d’autore hanno per certi versi consentito di legittimare simili “anomalie” e identificare un nuovo tipo di talento compositivo fondato su un delicato compromesso tra autodidattismo e imitazione, tradizioni popolari e modelli letterari, esigenze poetiche personali e industria musicale.

Già nel 2016/2017 avevi collaborato con Alessandro Carrera all’edizione italiana del volume “Bob Dylan. The Lyrics 1961-2012”. Un vero e proprio amore quello per Dylan, sbaglio? Ovviamente ho una grande passione per le canzoni di Dylan, anche se cerco di evitare ogni forma di fanatismo. In realtà, non mi considero neanche un “dylanologo”, almeno non nel senso tradizionale del termine, che spesso implica un’associazione tra lo studio dell’opera e una certa “ossessione” per l’uomo e l’artista. Lo stesso termine Dylanology iniziò a diffondersi alla fine degli anni Sessanta in riferimento allo scrittore e attivista americano A.J. Weberman che, per intenderci, sarebbe presto passato alle cronache per avere “perseguitato” Dylan fino al punto di rovistare nella sua spazzatura. Una simile aneddotica, ecco, dimostra che l’accezione di “dylanologo” non è esattamente un titolo nobilitante come quello, che so, di “dantista” (ma c’è persino di peggio, se pensiamo ai fraintendimenti quotidiani a cui sono esposti ogni giorno gli innocenti studiosi del Tasso). Diciamo anzi che se, come studioso, non posso fare a meno di confrontarmi con la grandezza di Dylan e con le numerose possibilità di ricerca che la sua opera offre, come ascoltatore e come musicista, non amo Dylan più di quanto ami altri grandi esponenti della canzone d’autore internazionale. Come accade da sempre a chiunque conceda all’arte il privilegio (o l’illusione?) di raccontare la propria vita, anche a me, come a milioni di altre persone, Dylan ha insegnato qualcosa, a cominciare dall’intuizione che ogni sentimento cela sempre una verità, per quanto transitoria, imprevedibile e spesso difficile da accettare. Prendete il caso di Idiot Wind, una delle canzoni di non amore più struggenti del Novecento. Idiot Wind è un’invettiva talmente potente da far sembrare Like a Rolling Stone non dico una canzone romantica, ma quasi. Ebbene, dopo sei minuti e mezzo di puro veleno, l’ultimo ritornello trasforma, abbastanza sorprendentemente, il “tu” in “noi” e recita: “We’re idiots, babe, / It’s a wonder we can even feed ourselves”. ”Siamo due idioti, bella mia, ed è già un miracolo che riusciamo a portare il cibo alla bocca”. Anche se sono qui per distruggerti – sta dicendo l’accusatore – l’amara verità è che non posso farlo senza dichiarare, allo stesso tempo, la nostra sconfitta, non solo la tua. Capite ora perché Dylan può risultare così irresistibile? Perché anche la più esibita delle autoliberazioni non comporta mai una semplice autoassoluzione.

Per alcuni anni della sua vita Dylan ha avuto una relazione con la strepitosa Joan Baez, li ho sempre trovati meravigliosamente affini sia sul piano umano che musicale e socio/politico. Non trovi? L’affinità tra Dylan e Baez, a mio avviso, è indiscutibile soprattutto sul piano interpretativo. Si tratta di un’affinità costruita senza dubbio sulla reciproca attrazione di voci timbricamente opposte, che è poi il modo più efficace per fare emergere le peculiarità di interpreti apparentemente incompatibili. La grana vocale di Joan Baez è “angelica”, eterea, tanto sottile e precisa quanto, all’occorrenza, potente e acuta. È cioè una voce perfetta per trasmettere la perfezione degli “alti” ideali che intende celebrare e la nobiltà delle cause che vuole difendere. Il movimento per i diritti civili e i cultori di musica folk, in questo senso, non potevano trovare, nell’accezione anche letterale del termine, una “portavoce” più adatta della loro visione del mondo. Continuando la serie di impressionismi vocali, dobbiamo constatare che la voce di Dylan è esattamente agli antipodi: imprecisa quando non del tutto stonata, sgraziata, cantilenante, trascinata, nasale, provocatoria e limitata per estensione e mantenimento delle singole note. Tuttavia, pur mancando di stabilità e autocontrollo, la voce dylaniana fonda la sua unicità su una impressionante capacità di mimesi emotiva, in buona parte preclusa all’“astrattezza” della voce della Baez. Potremmo dire che, a seconda dei casi, quella di Dylan è una voce potenzialmente sovrapponibile al punto di vista di qualunque tipo di uomo in qualunque situazione della vita. Può essere la voce della sconfitta come quella della recriminazione, la voce del represso come quella del censore, la voce del peccatore come quella del tradito, e via dicendo. Sembra che ogni ideologia sociale e ogni fede religiosa possano essere attraversate da questa voce solo a patto che si tratti di un passaggio temporaneo, perché la possibilità dell’esaltazione incondizionata comporta anche la necessità di una demistificazione altrettanto radicale. Date simili differenze, è chiaro che l’ascolto simultaneo di queste due voci così speculari abbia quasi del “miracoloso”; talvolta, si ha persino l’impressione che l’una cerchi di raggiungere l’altra, desiderando di acquisirne le peculiarità; altre volte, l’intreccio manifesta una sorta di “teatralità istintiva”, diventando un dialogo che racconta la stessa storia da due prospettive opposte. La mia personale opinione di ascoltatore è che la vocalità di Joan Baez sia stata l’unica che Dylan non sia mai riuscito a “rubare” fino in fondo, manifestando quelle stesse doti manipolative di “Zelig vocale” che contraddistinguono il suo rapporto di competizione/appropriazione con altre voci inarrivabili, come quella di Guthrie, Cash o Sinatra. Potrei persino azzardare che la voce della Baez è l’unica voce che Dylan avrebbe voluto avere se l’etichetta di “voice of a generation” non avesse iniziato a tormentarlo così presto all’indomani del suo successo internazionale. Joan Baez, dal canto suo, è rimasta sempre fedele al suo impegno politico, ma non ha mai potuto eguagliare il talento compositivo dell’ex-compagno. È lei stessa a darne prova con Diamonds and Rust, forse l’unico vero capolavoro firmato dalla Baez e, allo stesso tempo, l’unica canzone che intende apertamente esorcizzare il “fantasma” di Dylan dieci anni dopo la fine della loro relazione.

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