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Servitori

Il presente scritto è il precipitato di un’esperienza, ciò che per me è stato il Corso di Sensibilizzazione all’approccio Ecologico-Sociale tenutosi ad Aprilia tra il marzo e l’aprile 2023. Non si tratta di un diario clinico, né di una riflessione teorica: è qualcosa tra il personale e il professionale – un po’ come il lavoro di terapeuta. L’intento è quello di condividere una testimonianza che metta in luce il valore dei club multifamiliari in fatto di accessibilità e umanità, aspetti fin troppo necessari quando si ha a che fare con la sofferenza delle persone. Inoltre, c’è il desiderio di ringraziare coloro che hanno reso possibile tale esperienza: gli organizzatori Peppino Nicolucci e Fabio Zitarelli, di ARCAT Regione Lazio, e gli sponsor Korian e Solaris; i servitori-insegnanti, che ci hanno formato, e l’RSA Villa Carla, che ci ha ospitato; infine, i miei compagni di gruppo, i Verdi, e tutti coloro che ci hanno accompagnato in questa traversata nel nome della solidarietà.

Martedì 14 marzo 2023. La voce di Alexa continua nella lettura di Infinite Jest, di David Foster Wallace. Sono a circa un terzo del romanzo e solo ora sento di stare entrando nella storia: si parla di alcolismo, di Ennet House e degli Alcolisti Anonimi di Boston. Una metafora usata dalla voce narrante mi colpisce: “devi affamare il Ragno: devi rinunciare alla tua volontà”.

La fantasia viaggia. Realizzo che non ho mai pensato al lavoro con i gruppi, nonostante le dipendenze siano un problema così diffuso – nei pazienti, nei loro genitori, fratelli e sorelle, parenti più o meno lontani. Ma la finzione narrativa non stimola solo un pensiero sul futuro possibile, ma anche su un passato già segnato. Sul dramma del fratello di nonna, quello che da bambino chiamavo ‘zio Gigi’. Perché lui ci chiamava me, Gigi, e mi diceva che avrei fatto l’astronauta…

È sempre il 14 marzo, da poco sono passate le 18. Il mio terapeuta supervisore, il dottor Cecchini, mi parla di un vecchio amico, Peppino Nicolucci. Mi manda la locandina del suo corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale, e così pure il modulo d’iscrizione. Gli dico che ci penserò, ma in cuor mio ho già deciso – non credo nelle coincidenze. La mattina dopo dichiaro che mi iscriverò.

È il 30 marzo, primo giorno di corso. Mi sento studente per l’ennesima volta. Quello spaesamento inevitabile che si avverte quando si mette piede in un luogo sconosciuto, pieno di estranei, alcuni dei quali sono lì per insegnarci qualcosa. È l’impatto con il nuovo, una sensazione a cui non ci si abitua mai, anche quando si lavora con la novità per antonomasia: l’esperienza umana. Come spesso accade, lo spaesamento porta ad aggrapparsi a delle preconcezioni: possibile che debba essere il primo a dare l’esempio? davvero non c’è differenza tra noi e loro, chi ha il problema e chi è sano?

Certo che no, siamo tutti persone

Eppure, c’è chi i club già li frequenta, anche da molti anni magari. Mentre io sono solo un novizio, uno che, fino al mese scorso, i club non li aveva nemmeno sentiti nominare. Scoppio a ridere quando è il momento dei compiti per casa: facile scaricare il lavoro sugli ultimi arrivati. E i giovani, in fondo, sono gli ultimi arrivati per definizione – se poi ignoranti in materia, qualunque essa sia, tanto meglio.

Il primo giorno di corso è passato. Mi sono fatto carico della delega dei Verdi, metterò al loro servizio la parola: ma sarà la mia parola. Perché ogni delega comporta una rinuncia e ognuno resta segregato nel suo Io, servo soltanto della propria volontà. Quella stessa volontà cui il servitore dovrebbe rinunciare – ripenso al Ragno da affamare di Infinite Jest. Invece mi ci aggrappo forte, nutro il mio Ragno: perché è facile predicare l’uguaglianza del noi, quando poi ognuno pensa per sé e c’è chi resta a fare i compiti…

Il 31 marzo ci sono le prime presentazioni dei gruppi. Ciò che ho scritto piace ai Verdi, anche il resto della classe lo accoglie. Il momento della discussione critica mi lascia sereno. Il mio servizio è stato apprezzato, la restituzione della delega ha dato i suoi frutti. È un passo importante: il gruppo – seppure in modo infinitesimale – ha sortito un cambiamento.

Forse è per questo che a metà mattina di quello stesso 31 marzo mi interrogo ancora, ma la domanda è diversa: perché bevo? D’accordo, bevo solo in compagnia, con moderazione, non sono più un adolescente. Ma perché bevo? per gli altri? Perché sì, direbbero i bambini. Più mi pongo la domanda più non trovo una risposta. Però trovarla è un dovere per noi stessi e chi ci circonda – è una lezione che mi resta impressa dopo il momento di comunità.

Appunto, comunità. Il gruppo, persone che siedono in cerchio… e fanno circolare qualcosa. Individui diversi: diverse l’età, la provenienza, il vissuto, il dolore. Ma per un momento, siamo tutti insieme, divisi solo in apparenza – come i tasselli di un mosaico, i fotogrammi di un film, gli episodi di una stessa storia. Per un momento, ci mettiamo in contatto con qualcos’altro, un’entità più ampia della singola persona: la realtà gruppale.

Il gruppo è accogliente, deve esserlo, per stimolare l’apertura, il dialogo, la condivisione. Ma l’accoglienza non è del gruppo: è di colui che ne fa parte. Tuttavia, non è sempre facile accogliere. Al contrario, di fronte al dolore si ergono mura, recinti elettrificati, si allertano le sentinelle. Quando si mette male, si taglia anche la corda. Perché il gruppo è un contenitore potente, amplifica il contagio – per due persone in una stanza può essere pericoloso: per cinquanta?

Le categorie sembrano l’antidoto: pareti di gomma, basso voltaggio, armi non letali. Ma sono un falso dio, un vitello d’oro che alimenta la divisione. Noi e Loro – è un bisogno innato, ci servono le differenze per distinguerci, sapere chi è l’altro per sapere chi sono io, definire per definirmi. Ma questo non è il club, è ideologia. Alimentare la divisione nella società e nell’animo di chi ne fa parte.

I medici chiuderanno un occhio sul bere perché loro stessi bevono, l’ha detto più volte Nicolucci. Perché in fondo siamo tutti pronti a perdonare ciò che perdoniamo a noi stessi, le piccole e grandi leggerezze in cui indulgiamo. E “solo il medico ferito guarisce”, questo l’ha detto Carl Gustav Jung, ovvero: non è possibile lenire la sofferenza altrui senza, prima di tutto, accogliere la propria.

Ma nel club non ci sono medici o pazienti. Non c’è malattia né guarigione. Individui diversi, sì. Famiglie di una o più persone, nuovi arrivati e affezionati, vecchi amici e piantagrane, uomini e donne, giovani e anziani: è uno spaccato della società. Ci sono dei problemi, tutti vogliono risolverli. Si pongono delle domande e si cerca La Soluzione. E il servitore-insegnante?

Di certo non ha La Soluzione. D’altronde non ha poteri speciali, non si pone al di sopra di nessuno – sarebbe presuntuoso, altrimenti. È un servitore perché offre un servizio e si pone al servizio dell’altro. È un insegnante perché porta fuori da sé stessi, come una levatrice che aiuta a far nascere qualcosa che è già dentro di noi.

È il 15 aprile e mi viene da sorridere. Perché penso che sia Samurai sia Therapòn significano servire, mettersi al servizio. Dall’antica Grecia al Giappone feudale – al netto delle differenze spaziotemporali –, mettersi al servizio dell’altro è considerato un onere e un onore. Porsi al di sotto diventa un compito alto: paradossale, proprio come la figura del servitore-insegnante.

Perché c’è quell’insegnante. Per tirare fuori qualcosa, bisogna sapere qualcosa. Non certo La Soluzione dell’altro – che è un mistero perfino all’altro stesso e può restarlo per lungo tempo –, quanto le proprie soluzioni, con la s minuscola stavolta. Empatia, accoglienza, ascolto, riconoscimento, vicinanza, per citarne alcune. Che sembrerà anche poco a chi non soffre, ma può essere tutto per chi ha perso la speranza.

Il 27 aprile scopro anche un’altra cosa: l’educazione era un compito divino nell’antica Cina, ben sei secoli prima di Cristo – lo trovo scritto nell’I Ching, il testo oracolare che originò taoismo e confucianesimo. Unendo questa nuova consapevolezza a quella della nobiltà del servire, non posso che arrivare a una conclusione: che il servitore-insegnante è prezioso. Non per un suo valore intrinseco – è solo un essere umano –, ma poiché sceglie di agire per l’altro e nell’altro. E non di un altro qualsiasi: dell’altro che soffre.

Sceglie. Perché di scelta si tratta, ed è bene che sia così – il rischio di essere sopraffatti dalla sofferenza è sempre in agguato. Ma il club è sovraordinato al servitore-insegnante, come il gruppo all’individuo e il mare alle onde. Essere immersi insieme significa poter soccombere o venirne fuori come un unico essere: dove non arrivo io arriva l’altro – e se non ci arriviamo oggi ce la faremo, un giorno…

Questa speranza, quasi una fede, non va riposta nel gruppo come entità – una specie di Partito alla 1984 – né tantomeno nella persona del servitore-insegnante che lo accoglie – un Big Brother che tutto sa e tutto vede. È una fede nel cambiamento, nello scambio emotivo circolare che può avvenire nel club, nella singola famiglia e all’interno dell’individuo stesso. Un’oscillazione continua, dentro e fuori di sé, che fa sentire compresi, accuditi, meno soli. Un circolo virtuoso che può spaziare e portare lontano, oltre i confini del club: abbracciare il proprio quartiere, la propria città, un’intera regione.

Sembra un’utopia, ma è solo ecologia. Un fare insieme che parte dal singolo ma ha un impatto su tutto. È qualcosa che ritrovo nel mio lavoro di terapeuta è che sono felice di aver scoperto anche nella realtà dei club. Una realtà alla quale ho deciso di dare fiducia e per la quale voglio prendere un impegno – a proposito di compiti per casa del dottor Nicolucci.

Prima di tutto, mettendo al servizio qualcosa che ho molto caro: la parola. Nella stanza di terapia, proporre i club come approdo – alternativo o ulteriore – a chi si rivolge a me per il proprio dolore, è un punto di partenza per alimentare il lavoro di rete che fa della buona prassi la forza di ogni comunità civile, attenta alle persone e ai loro bisogni.

Ma voglio offrire anche la parola scritta. Un mezzo reso ancora più potente dai media, di cui mi servo per scrivere articoli sul mio blog personale e su quello dell’associazione Lapaginabianca.docx. Questi sono amplificatori tecnologici che non possono essere trascurati, al giorno d’oggi, soprattutto se si vuole arrivare ai giovani: il cuore del cambiamento che verrà.

Infine, riguarda proprio i giovani un altro impegno che voglio onorare. Perché come Therapòn – e fan dei Samurai – ero già un servitore, ma ho sempre voluto anche insegnare. Ecco perché vorrei rivolgermi alle scuole, a partire dal mio vecchio liceo, per trasmettere alle nuove generazioni ciò che il corso di sensibilizzazione ha trasmesso a me.

Per continuare ciò che è stato iniziato e tenere vive e sveglie tutte quelle idee che tendono, di tanto in tanto, a sonnecchiare.

L'articolo Servitori proviene da Ivan Di Marco psicologo.



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