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Orientamento e disorientamento

Quale alchimia lega paziente e terapeuta?

Si tratta di una questione aperta per molti studiosi della Psiche. Carl Gustav Jung la prese piuttosto alla lettera, cercando di rispondere a tale quesito con un’altra domanda: e se gli alchimisti fossero stati i primi psicologi?

Psicologia della traslazione è uno dei testi junghiani che affronta l’argomento, forse quello più ricco di risvolti clinici utili agli aspiranti psicoterapeuti. Infatti, approfondisce proprio il rapporto che si instaura tra terapeuta e paziente, la traslazione: il famigerato transfert di freudiana memoria.

Oggi si sa che tale fenomeno è ben più complesso di come ipotizzato dai padri fondatori della psicologia del profondo. Tanto che non si considera più come un flusso psichico che va dal paziente all’analista, trasformando quest’ultimo in uno dei personaggi che popolano il teatro mentale del primo. Ormai si dà per scontato che questo flusso sia bidirezionale, un transfert/controtransfert. Al punto da non essere più neanche un flusso, quanto una bolla – più correttamente un campo – che avvolge entrambi.

L’argomento è molto vasto e non è mia intenzione affrontarlo in questa sede… o almeno, non così frontalmente. Qui propongo uno specchietto sulla metafora alchemica di Jung, in particolare su un passaggio che descrive come la psiche del terapeuta possa contribuire a orientare quella del paziente.

Nel capitolo L’ascesa dell’anima del libro sopracitato, Jung riporta un’immagine del Rosarium philosophorum – uno dei testi sacri dell’alchimia – in cui si può osservare un omino, un homunculus, che si rifugia in cielo, lasciandosi dietro i cadaveri di un re e di una regina: l’anima abbandona il corpo.

Non è proprio un’immagine allegra, ma è una metafora efficace dal punto di vista Psi per diverse ragioni. Partiamo dal ruolo dell’homunculus nei confronti di re e regina. Nella psicologia complessa, la psiche – mente, anima, soffio vitale – equivale a un processo energetico alimentato dalla tensione tra polarità opposte.

L’immagine parla chiaro: se l’anima/homunculus non fa da ponte tra i poli opposti – re e regina – c’è la morte. Una morte psichica, intesa come assenza di consapevolezza di sé e del mondo. Come se la mancanza dell’homunculus faccia decadere la coppia regale nel regno della materia inerte, privandola della vitalità e del potenziale creativo.

Secondo Jung, questo tipo di condizione può verificarsi quando si viene “posseduti da un archetipo”. Ovvero, quando la dimensione inconscia collettiva – legata alla specie umana più che all’individuo – soppianta la propria soggettività. È come se la mente uscisse fuori dal corpo e non ci fosse più differenza tra un fuori e un dentro: il soggetto che osserva si annulla nell’oggetto infinito che è la realtà.

Può trattarsi di un’esperienza spaventosa, come in uno stato psicotico quando la coscienza perde la propria coesione e sembra frammentarsi nelle sue particelle elementari – ciò che Jung chiama complessi. Eppure ci sono condizioni non patologiche che possono considerarsi allo stesso modo una fuga dell’anima: la meditazione profonda, la trance ipnotica, il viaggio astrale. Tutte out of body experiences – OBE, esperienze extra-corporee – che esemplificano un fatto naturale: la mente tende a dissociarsi. O l’anima ad abbandonare il corpo, avrebbero detto gli alchimisti.

Ciò significa che le particelle elementari della psiche, i complessi, non nascono come un blocco uniforme, ma sono tenute insieme con uno sforzo. La natura di tale sforzo è proprio la tensione degli opposti di cui parla Jung. Così, la mente può essere considerata come un processo di cui noi osserviamo solo il risultato, ovvero la coscienza. Ma la totalità del processo va ben oltre ciò di cui siamo consapevoli e si fonda sulla complementarità di inconscio e coscienza.

Un esempio della complementarità insita nella psiche ci viene dai sogni. Vengono dall’inconscio, non siamo noi a evocarli, ma, da svegli, possiamo indirizzare la coscienza sul ricordo che abbiamo di essi.

Favorire la coesistenza di aspetti coscienti e inconsci, senza che i primi prevalgano sui secondi, rientra nel metodo della psicoterapia junghiana. Una persona che ascolta, stimola, domanda, propone, diventa una possibile àncora per una mente più o meno dissociata, “un’anima fuggitiva”. Soprattutto nei momenti di vulnerabilità, quando eventi esterni o interni possono allentare i legami che tengono insieme la nostra psiche.

“Al disorientamento del paziente deve far fronte l’orientamento del terapeuta”

Carl Gustav Jung, Psicologia della traslazione

Attenzione: orientare non significa indottrinare.

Se si perde il polo inconscio, spontaneo e naturale, e si cede alla tentazione di voler ridurre tutto nell’alveo della coscienza – come vuole una certa psicoanalisi da operetta – si scade in uno psicologese che spiega tutto ma non dice nulla. Le astrazioni intellettuali, come ricorda Jung, servono a capirsi fra colleghi. Con i pazienti è terapeutico restare ancorati alla realtà delle emozioni, riconoscendo che l’esperienza umana va molto al di là di ciò di cui potremmo mai essere consapevoli.

Grazie del tuo tempo e buona navigazione.

L'articolo Orientamento e disorientamento proviene da Ivan Di Marco psicologo.



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