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Siamo pur sempre coinvolti

Dieci anni un mese ed una settimana fa un tumore, figlio delle sue eterne sigarette, a loro volta figlie della sua insicurezza, si portava via Fabrizio De André, il più grande poeta fra i cantautori italiani. Data inconsueta per ricordare un morto (di solito si celebrano il decennio, ventennio, secolo della data di nascita o morte, non il decennio + 38 giorni), lo faccio oggi perché gli organizzatori del Festival di Sanremo hanno deciso una celebrazione del decennio della morte, il giorno però della nascita, cadendo questo a fagiolo con la loro kermesse canora.
Ho avuto paura, vedendo scendere la PFM a cantare De André. Ho avuto paura perché De André è stato un cantante politico, è vero, ed il più grande fra questi, ma non un banale cantante politico. Nelle sue canzoni ha cantato gli emarginati, i diversi, i condannati dal senso comune. Le sue prostitute, i suoi vicoli, abitati da bambine le cui «capacità» verranno accresciute dall’«esperienza» con chi le condanna di giorno, e sbava loro dietro di notte, aspettando il 27; i suoi rom; le sue donne “libere” di amare condannate da cagnette e da chi dispensa saggezza perché «non può più dare il cattivo esempio»; i suoi drogati e bombaroli fanno di De André un cantante scomodissimo per i temi cantati. Eppurtuttavia non è facile, per la bellezza dei testi e della musica, non cantare delle canzoni immortali, in cui anche verso quelli che il poeta condanna, i giudici, incarnazione e mano armata dei nostri pregiudizi, e tutti noi «signori benpensanti» che abbiamo paura ad aprire le porte a chi scappa dalle pantere, e vogliamo tuttavia crederci assolti, vi è una condanna mista a pietà, per le nostre miserie. Noi, coi nostri santi sempre pronti a benedire i nostri sforzi per il pane, con il nostro bambino biondo a cui abbiamo donato una pistola per Natale, […] e gli occhiali che fra un po’ dovremo cambiare, noi, noi com’è che non riusciamo più a volare*?

Ecco, io, bambino cresciuto da mia madré con La guerra di Piero, ho avuto paura che, in un contenitore così commerciale e perbenista, De André fosse ricordato per le sue bellissime canzoni d’amore, normalizzato, e quindi in fondo dimenticato. Quelli della PFM non l’hanno fatto. L’hanno ricordato per le sue donne libere, e per il suo pescatore, capace di dare il vino ed il pane, ed anche il calore di un momento, ed il rimpianto di un aprile d’infanzia, anche a chi gli dice che ha sete ed è un assassino.

Grazie, Fabrizio, per averci cantato che, nonostante vogliamo credere di non avere «più niente per poterci vergognare», «siamo Pur Sempre coinvolti». E grazie, PFM, per non aver snaturato un ricordo.

*Da Canzone per l’estate, F. De André – F. De Gregori




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