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Diario di avventure, finestre sulla Terra. Impressioni estive di una Londra, ancora con la sua Regina. Secondo atto.

Una ruota panoramica si specchia nel fiume, il Tamigi, lì dove si rifletté anche Peter Pan insieme agli altri bimbi sperduti. Per me Londra sempre è stata la città di Peter Pan. Dalla mia stanza, oltre al teatro, posso osservare, contornate dal rosso tramonto, le finestre tipiche londinesi, quelle che si sporgono dai tetti spioventi come occhi di gufo. Fatte di legno, possibilmente, sulle quali chissà quante mila di persone, grandi o adolescenti si sono sedute ad osservare le stelle, quando il cielo è senza nuvole, dove si sono poggiate per scrivere, leggere un libro, sognare di volare via, in un’isola sperduta insieme a Peter, o perché no, sole. Arrivare in quest’isola, nel bel mezzo del mare, l’acqua cristallina, incontaminata, una vegetazione alla quale non è stata rubata la sua essenza ed il suo territorio. Un’isola sperduta, lontana dalle preoccupazioni effimere ed inutili e, spesso, stupide, che ci attanagliano la Vita, ancorandola ad un’essenza vuota a rendere, piena di oggetti superflui, la maggior parte dei quali non sappiamo che farcene. Lontani dalle quote dei cellulari, del pc, dalle riunioni senza senso in un ufficio asettico e sterile. Lontano dalle città impersonali che rubano l’anima e la vendono al peggior offerente, aziende di banca dati. Finestre su una vita migliore che ci è stata rubata ma che, a mio avviso è possibile recuperare, giorno dopo giorno, senza paura, con coraggio, lasciando andare via tutto l’inservibile eccesso moderno, la moda, la connettività. Collegarsi nuovamente alla vita vera, quella terrena, fatta di cose semplici che riempiono l’esistenza e la restituisco moltiplicata a mille. La vita nella vita, la vita stessa, condivisa con le persone che sanno ascoltare e raccontare, amare e non essere d’accordo, rispettare. Finestre sulla vita.

Passeggio sul lungofiume, c’è molta gente, bancarelle di libri ben ordinati, di stampe colorate su entrambi i lati. Qualche chiosco di street-food, ragazzi su pattini che fanno evoluzioni sotto un ponte su delle pedane. Cammino in direzione Big Ben, attraverso il ponte che mi separa da lui, lo fotografo, è storico, è storia, ci passo vicino e faccio una foto a dei turisti che mi chiedono il favore, lo faccio volentieri. Mi perdo per il centro, voglio raggiungere il National museum, vedere qualche quadro, alcune opere d’arte. L’ingresso è gratuito, l’ambiente è amichevole e confortevole, dopo una breve fila entro. Inizio a esplorare. Quadri di Monet, una spiaggia dall’aria rilassata, una barca a remi vi si avvicina, è tutto così intenso e denso, pieno di tranquillità. I colori si mescolano perfettamente creando una verisimilitudine impressionante. Vien voglia di entrare dentro, tuffarsi nelle acque limpide e azzurre dipinte da Monet, nel 1864. Stenderti poi al sole, sulla spiaggia rocciosa ed aspettare che il sole faccia il suo corso sui capelli ed il corpo nudo, lasciare che i suoi raggi lo accarezzino e lo asciughino con attenzione e delicatezza. In lontananza qualche nuvola non mi preoccupa. In un’altra sala del museo vengo colpito da un dipinto di Renoir del 1876. Una giovane ragazza è seduta con un mazzo di fiori da campo stretti in mano, un’altra fanciulla alle sue spalle le sussurra chissà quale segreto, davanti a loro una moltitudine di persone. Posso sentirlo il vociare inteso. Stanno in un teatro, magari aspettando che inizi la opera. Loro stessi, essendo l’opera, si ritrovano inconsapevoli dentro un’altra opera, osservati per l’eternità da occhi indiscreti.

Arrivo davanti alla sedia di Van Gogh, una pipa spenta vi è poggiata sopra. Percepisco la volontà e l’impossibilità di trovare riposo e ristoro. La necessità di qualcuno che ti ascolta o che ti racconti un aneddoto, una storia buffa, un racconto di paura al tuo financo. Posso sentire la ricerca disperata, in questa semplice sedia in legno, di trovare riparo dalle intemperie della mente che spesso mente e ci trascina nel vortice di pensieri negativi. Trovare la luce della volontà, della speranza che ci faccia uscire dal buio, apparentemente colorato della nostra stanza chiusa e sola. Saluto Van Gogh con una foto. Mi volto e mi siedo un secondo sulla poltrona rossa, al centro della stanza. Alzo lo sguardo e davanti a me una signora molto anziana, appoggiata al suo carrellino rosso ed un vestito floreale bianco e lilla cammina lentissima davanti ai quadri esposti. Ha i capelli canuti e raccolti, le mani ben salde sul manubrio e, ai piedi, delle scarpe ortopediche nere. Passa davanti ai dipinti appesi alle pareti. Storia su fondo di storia. Storie circondate di altre storie che il tempo scalfisce inesorabile. Nelle pieghe delle sue rughe intravedo la vita che si è sviluppata dentro la vita stessa. Posso sentire le risate di una bambina giocando con uno spago che fa volare nel vento di una campagna londinese. Posso vedere i suoi capelli sciolti e arruffati con una margherita posta su un orecchio. Sulla sua bocca socchiusa ascolto le parole dette in una vita lunga. Il tempo inesorabile dell’essere. Così esposto alle tempeste, alla pioggia, il sole, il vento, la delusione, le felicità, gli spasmi, gli attacchi di gioia e di ira. Il nostro corpo così fragile, appeso al filo sottile del tempo che scorre, scorre, scorre e ci passa accanto, a volte sopra, altre volte invece ci sorpassa. L’arte e la vita. La vita che è arte in sé.

Dopo aver acquistato un paio di cartoline con stampati alcuni dipinti esco in direzione, cibo. Mi dirigo verso il quartiere cinese, voglio mangiare qualcosa di dolce, come la buonissima e spumosa cheesecake, che trovo in una pasticceria eccezionale all’angolo, mi siedo e l’assaporo con calma insieme ad un caffè lungo. Il clima è piacevole, c’è il sole ma non fa caldo, è una primavera amorevole ed affettuosa. Passeggio tutto il pomeriggio per i quartieri del centro, limitrofi alla mia stanza. Soho, China Town, per le viuzze piene di teatri. Kinky Boots, Aladin sono solo un paio di titoli che Londra sta portando in scena in questo momento.

Sono già le 18 circa, ritorno in camera per una doccia fredda, così da dare sollievo alle mie gambe e piedi. Rimango bagnato steso sul letto a riflettere su tutto quello visto durante la giornata. È sorprende come riempie viaggiare, sono profondamente grado di avere questa opportunità e sceglierla giorno dopo giorno. Faccio una videochiamata in Colombia, lì è mattina il giorno è in pieno giorno. Mi addormento felice, pronto per un nuovo giorno di esperienze.

a cura di Michele Terralavoro

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