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Kamala Harris a Monaco per l?Ucraina; Nick Clegg prova a «vendere» Meta; Pechino triplica le testate nucleari

America-Cina Il Punto | La newsletter del Corriere della Sera

Venerdì 18 febbraio 2022

Kamala Harris a Monaco per l’Ucraina; Nick Clegg prova a «vendere» Meta; Pechino triplica le testate nucleari
di Viviana Mazza

Oggi seguiamo la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, dove la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha incontrato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, con l’attenzione rivolta al confine ucraino (aggiornamenti in diretta sul nostro sito). Il presidente Joe Biden discuterà la crisi in videoconferenza nel pomeriggio con i leader alleati.

Nella newsletter di oggi parliamo anche di scontri tra Pechino e i giornalisti che fanno domande sui diritti umani alle Olimpiadi, dell‘intenzione cinese di triplicare le testate nucleari entro il 2030, del ruolo dell’ex politico britannico Nick Clegg nel vendere Meta (di Zuckerberg) in tutto il mondo, di Cumberbatch contro Netflix, delle polemiche per una nomina di Biden, di tendenze narcos e di avvisi ai naviganti.

Buona lettura!

La newsletter AmericaCina è uno dei tre appuntamenti de «Il Punto» del Corriere della Sera. Potete registrarvi qua e scriverci all’indirizzo: [email protected].

1. Ucraina, Kamala Harris incontra gli alleati a Monaco
di Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington

La vicepresidente Kamala Harris e il segretario di Stato Antony Blinken al fianco del presidente Joe Biden durante una conferenza stampa per spiegare le ragioni del ritiro dall’Afghanistan lo scorso agosto (Lapresse)

Ora tocca a Kamala Harris. La vice presidente degli Stati Uniti è atterrata ieri sera a Monaco, in Germania, dove oggi inizia la «Conferenza sulla sicurezza». Harris è accompagnata dal Segretario di Stato, Antony Blinken, reduce da un discorso molto cupo tenuto ieri al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

A Washington domina l’impressione che sarà difficile evitare l’invasione russa dell’Ucraina. Il Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, ieri a Bruxelles per una riunione Nato, ha preso spunto dal colpo di mortaio che ha colpito un asilo nel Donbass: «I russi sono ormai a pochissima distanza dai confini e hanno perfezionato il loro posizionamento nel Mar Nero. Hanno fatto perfino scorta di sangue per le trasfusioni». I consiglieri di Biden e lo stesso Austin sono sempre più convinti che Vladimir Putin stia fabbricando un pretesto per attaccare l’Ucraina.

Le ultime possibilità della diplomazia sono affidate alle iniziative dei leader europei a Mosca, compresa quella di Draghi, e a un possibile incontro tra Blinken e il ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Ha perso decisamente quota, invece, l’ipotesi di un altro vertice tra Biden e Putin.

Harris, invece, avrà il compito di compattare l’alleanza. Nel fine settimana di Monaco vedrà 13 tra Capi di Stato e di governo. Gli incontri più importanti, sabato 19 febbraio, con il cancelliere tedesco Olaf Scholz e con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Oggi, invece, la vice di Biden farà il punto sullo scenario militare con il Segretario della Nato, Jens Stoltenberg. In agenda anche i bilaterali con i vertici dei Paesi baltici.

Per Kamala Harris sarà una missione molto importante anche dal punto di vista personale. La numero due dell’Amministrazione finora non ha brillato, tanto che il suo indice di approvazione è pari solo al 37,7%, secondo la media calcolata dal sito RealClearPolitics. Ancora più basso del 41% accreditato a Biden.

2. Mosca annuncia una maxi esercitazione con missili balistici

Missili e parole. Tensione sempre alta intorno all’Ucraina.

  • Mosca questa mattina ha annunciato il ritiro di qualche carro armato e di dieci caccia dal confine, prima di dare il via libera a una mega-esercitazione militare prevista per domani (manovre di «deterrenza strategica» che di solito si tengono in estate): esercito, aviazione e marina in azione, con il lancio di missili balistici e di crociera e la simulazione della risposta russa a un ipotetico attacco nucleare. Il tutto sotto la supervisione del presidente Vladimir Putin (che oggi al Cremlino al suo tavolo da lavoro chiacchiera con il dittatore bielorusso Lukashenko).
  • A proposito di tavoli: alla Conferenza sulla Sicurezza organizzata dalla Germania grande assente è la delegazione russa.
  • Il filo della diplomazia oggi è appeso alla Finlandia, che questa mattina si è offerta di ospitare il prossimo incontro tra il ministro degli Esteri Lavrov e il Segretario di Stato Blinken annunciato per la settimana prossima.
  • Qui tutti gli aggiornamenti sulla crisi ucraina
  • L’intervista con l’ex capo della Cia Leon Panetta: «La Russia è un target difficile perché Putin è isolato. In fin dei conti ogni decisione è nella sua testa». «Non sono sicuro che l’intelligence avrebbe dovuto predire una data precisa dell’invasione russa dell’Ucraina ma Washington ha fatto bene a mandare a Mosca il segnale che sappiamo esattamente quello che fanno. Sarà difficile per loro mantenere una forza al confine in schieramento. Dovranno decidere se ritirarsi o avanzare».
3. L’INTERVISTA / Osce, l’ambasciatore Usa Carpenter: «Timore che truppe o equipaggiamenti russi restino al confine anche dopo le manovre»

Il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau con l’omologo russo Lavrov: la Polonia ha la presidenza di turno dell’Osce

Michael A. Carpenter, ambasciatore americano all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) è stato direttore per la Russia del National Security Council quando Biden era vicepresidente. L’ambasciatore dice, in un’intervista al Corriere, che la preoccupazione è altissima perché «la Russia ha posto le basi per una operazione “false flag” e per usare un pretesto per invadere l’Ucraina».

Carpenter critica duramente il rifiuto di Mosca di partecipare ad una riunione congiunta speciale dell’Osce richiesta dall’Ucraina nell’ambito del Documento di Vienna, con l’obiettivo di ottenere informazioni dettagliate sullo schieramento di truppe russe.

Un timore è poi «la possibilità che le truppe russe restino in Bielorussia ben oltre la fine delle manovre.C’è anche un altro aspetto: nell’aprile dell’anno scorso, ci fu una ampia mobilitazione di truppe russe e anche se per la maggior parte sono state ritirate, tanti equipaggiamenti sono rimasti».

Leggi l’intervista completa sul sit del Corriere della Sera.

4. Sul web c’è un duello aero-navale parallelo a quello reale

Drone americano o Beryllium russo?

Un account twitter russo (o filorusso) ha postato la foto di un drone subacqueo che sarebbe stato perso da un sottomarino nucleare statunitense della classe Virginia. Episodio avvenuto il 12 febbraio: secondo la versione di Mosca l’unità Usa sarebbe costretta ad abbandonare la zona vicino all’isola di Urup — area del Pacifico — dopo l’intervento della Marina. E durante la manovra evasiva gli americani si sarebbero lasciati dietro il «pezzo» ora studiato dagli avversari. Una ricostruzione smentita da Washington.

Questa mattina è arrivato il parere di H.I. Sutton, grande esperto di sfida sul fondo dei mari. A suo parere l’oggetto sub è in realtà un Beryllium russo, un mezzo per le contromisure, finito su una spiaggia dell’Artico lo scorso anno. Vediamo se arriva una contro-risposta.

Sul web è in corso un grande duello aeronavale, in parallelo a quello reale. Analisti, siti, ricercatori documentano, passo dopo passo, le mosse militari dei due schieramenti. In qualche modo fanno il lavoro pubblico per le intelligence e partecipano, con i loro interventi, alla crisi ucraina.

5. Putin, i leader e l’ossessione del Dna

(Guido Olimpio e Paolo Valentino) Arrivati a Mosca a distanza di una settimana uno dall’altro per incontrare Vladimir Putin, sia Emmanuel Macron che Olaf Scholz hanno entrambi rifiutato di fare il test molecolare per il Covid offerto dai servizi medici del Cremlino. Ma siccome era indispensabile per vedere il presidente russo, il presidente francese e il cancelliere tedesco si sono sottoposti a un Pcr eseguito dai medici delle rispettive ambasciate, con apparecchi portati dalla Francia e dalla Germania. Il personale medico russo è stato invitato ad assistere alla prova. La ragione del rifiuto è che Macron e Scholz non volevano che i russi entrassero in possesso dei loro dna.

Leggi l’articolo completo sul sito del Corriere della Sera.

6. Pechino «perde la pazienza» per le domande sui diritti umani alle Olimpiadi

(Paolo Salom) Il presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach, ha «censurato» il comitato organizzatore dei Giochi invernali di Pechino in seguito a una polemica politica che ha trasformato una conferenza stampa in un battibecco tra giornalisti stranieri e il portavoce di parte cinese, Yan Jiarong, indispettito per le «insistenti» domande dei reporter su questioni quali Il trattamento della minoranza uigura dello Xinjiang e l’indipendenza di Taiwan. «Ho chiarito una volta di più che le Olimpiadi non possono essere trascinate nella polemica politica, i Giochi devono per loro natura rimanere neutrali. E i responsabili cinesi mi hanno assicurato che questo è lo spirito condiviso a Pechino», ha dichiarato Thomas Bach.

Certo non è la prima volta che questioni come i diritti umani o la censura oscurano la pura sportività dei Giochi di Pechino. Gli Stati Uniti, come è noto, per le stesse questioni evocate dai reporter in conferenza stampa, hanno deciso un boicottaggio diplomatico dell’evento. Ma questa è la prima volta che un esponente ufficiale del comitato organizzatore cinese «perde la pazienza» di fronte alle domande dei giornalisti per rispondere, seccato, alle «bugie» sul «genocidio che non c’è» nella remota provincia in Aia Centrale, o sulla «nozione accettata dal mondo intero che esiste una sola Cina e Taiwan ne è una parte integrante». La querelle, tuttavia, non è passata inosservata. Ed è andata ad arricchire le stranezze di Giochi condizionati dalla politica come da una pandemia che ha costretto gli atleti a vivere la festa olimpica in condizioni di virtuale isolamento dal resto del Paese.

7. La Cina triplicherà le testate nucleari entro il 2030

Xi Jinping

Siamo alle porte di una nuova Guerra fredda, con gli Stati Uniti da una parte e Russia e Cina dall’altra? Tensioni e crisi internazionali crescenti farebbero pensare di sì. Ma la situazione sul terreno, spiega Michael Schuman su The Atlantic, sta portando gli schieramenti oltre la dottrina dell’equilibrio strategico: e questa non è certo una buona notizia.

Se la Russia flette platealmente i muscoli in Ucraina, è la riflessione del ricercatore americano, la Cina ha imboccato un sentiero ben più allarmante. Perché riguarda il suo arsenale nucleare. Posto che da anni l’esercito della Repubblica Popolare è in corso di ammodernamento, gli esperti Usa hanno evidenziato la decisione di Pechino di ingrandire i bunker destinati alle testate nucleari. La Cina è una potenza atomica dagli inizi degli anni Sessanta. Ma il numero delle testate in suo possesso è sempre stato trascurabile, almeno se paragonato a quello delle Potenze protagoniste della «parità strategica» che di fatto, dalla crisi di Cuba in poi, ha evitato al mondo la catastrofe termonucleare grazie alla dottrina della «mutua distruzione assicurata». Dunque: 350 testate negli arsenali cinesi contro le oltre seimila russe e le oltre cinquemila americane. Ma ora tutto sta cambiando.

Il presidente Xi Jinping ha dato ordine di triplicare (fonti di intelligence Usa) il numero di ordigni, che diventeranno un migliaio entro il 2030. Sempre poche rispetto a quelle possedute da Mosca e Washington, certo. Tuttavia il problema maggiore, dal punto di vista strategico, e forse è più opportuno definirlo la sfida, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, è la dottrina militare che sarebbe in corso di elaborazione nelle segrete stanze del potere cinese. Secondo Michael Schuman, il mondo si troverebbe al momento in una fase più simile a quella pre-crisi di Cuba, ovvero la fase più pericolosa della crescente rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica, quando un conflitto nucleare sembrava imminente oltre che possibile. Per gli strateghi americani, infatti, la natura dello sviluppo militare cinese — costruzione di numerosi silos per missili intercontinentali a capacità nucleare — non è tanto legata alla ricerca di una parità tra Potenze. Piuttosto — i silos sono individuabili e dunque potrebbero essere oggetto di un attacco preventivo americano che li renderebbe inutili — alla volontà di dare il primo colpo: a questo servirebbero le postazioni fisse missilistiche.

In ogni caso, continua il ragionamento di Schuman su The Atlantic, Pechino sarebbe teoricamente pronta a affrontare il rischio di un conflitto nucleare, magari limitato (per esempio in seguito a una disputa su Taiwan), sapendo di avere i mezzi (e la possibilità teorica) di uscirne in qualche modo vittoriosa. Il punto fondamentale, al di là della fin qui assenza della Cina da qualunque trattato sul contenimento delle testate, è la percezione della disposizione dell’avversario (gli Stati Uniti) ad affrontare i rischi di un tale conflitto per difendere non il suolo nazionale, ma alleati lontani. Dunque, di fatto, tutto si gioca sulla credibilità: e questo aiuta a spiegare la determinazione mostrata da Biden nell’affrontare la crisi ucraina.

Ma i rischi per il mondo in questa nuova era uscita a sorpresa dalla fine della prima Guerra fredda, con il trionfo iniziale dell’America, sono evidenti: una corsa agli armamenti nucleari da parte di Paesi che fin qui si sono trovati sotto l’ombrello Usa (Corea del Sud, Giappone in primis), ma anche un’espansione degli arsenali delle «piccole» Potenze nucleari come India e Pakistan. Il tutto a discapito di un equilibrio strategico che ha garantito per decenni di evitare la catastrofe, ora non più inimmaginabile.

8. Ora tocca a Nick Clegg vendere «Meta» a tutto il mondo
di Massimo Gaggi , da New York

Quando, nel 2018, Nick Clegg lasciò la politica britannica per diventare il responsabile della comunicazione di Facebook, le reazioni incredule furono molte: da leader del partito liberaldemocratico e vicepremier nel governo di David Cameron dal 2010 al 2015 a portavoce di Mark Zuckerberg? In realtà, deluso dalla politica, Nick aveva deciso di seguire un’altra strada: tentare di diventare una figura determinante in un’azienda che, con i suoi miliardi di utenti, conta, ormai, più di uno Stato. Una scommessa che Clegg sta vincendo proprio in questi giorni: sempre più influente in un gruppo con grossi problemi d’immagine (e per questo rinominato Meta), l’ex numero due della politica britannica è ora diventato il numero due del gigante mondiale dei social media. Fin qui vicepresidente del gruppo per comunicazione e affari globali, ora a Clegg viene dato il ruolo di responsabile unico, e autonomo, delle politiche di Meta e del suo rapporto coi governi di tutto il mondo in una riorganizzazione dei vertici che è ben più di un atto formale.

Non che Zuckerberg abbia deciso, come altri creatori di imprese della Silicon Valley, di trasferirsi su un’isola caraibica. Ma il fondatore (e padrone) di Facebook, consapevole dei crescenti problemi politici del suo gruppo, della difficoltà di far assorbire al popolo dei suoi utenti il cambio del modello di business dalle reti sociali al Metaverso, e anche di essere personalmente inviso a molti leader mondiali (governi e mondo della comunicazione), ha deciso di fare un passo indietro. Lo ha spiegato lui stesso: «Abbiamo bisogno di un senior leader al livello mio (che ho la responsabilità di prodotto) e di Sheryl Sandberg (per il business) capace di comandare e di rappresentarci in tutte le questioni politiche globali».

Zuckerberg non rinuncia di certo a guidare il gruppo ma, sfiancato dalle accuse che deve fronteggiare di continuo per i guai combinati da Facebook in giro per il mondo, costretto periodicamente ad affrontare audizioni in Congresso che diventano processi mediatici, preferisce sistemarsi dietro le quinte lasciando Clegg sotto i riflettori. Cosa che inevitabilmente metterà più in ombra il ruolo della Sandberg che per alcuni anni è stata il volto pubblico di Facebook.

Da tempo si mormorava in azienda di uno Zuckerberg deluso. Secondo alcuni un certo peso sulla svolta lo avrebbe avuto anche la frustata di Peter Thiel, il miliardario della tecnologia grande supporter e finanziatore di Trump e dei candidati dell’ultradestra, che, primo investitore di Facebook e mentore di Zuckerberg fin dal 2005, qualche giorno fa ha lasciato il consiglio d’amministrazione del gruppo sbattendo la porta. È noto che Thiel ha criticato aspramente la decisione di Facebook di cominciare a filtrare i messaggi che transitano sulle sue piattaforme bloccando gli account (compreso quello di Donald Trump) che incitano alla violenza e la diffusione delle teorie cospirative più estreme. Un decisione, quella del gruppo californiano, analoga a quella adottata dalle altre reti, da Twitter a YouTube, e difesa dalla Sandberg, che è democratica.

Avvicinandosi le nuove scadenze elettorali, toccherà ora a Clegg decidere se riammettere l’ex presidente e che ruolo assegnare all’Oversight Board, una sorta di Corte suprema all’interno di Facebook-Meta composta da 20 giuristi, accademici e politici di tutto il mondo (c’è anche un ex premier della Danimarca) chiamata a giudicare le controversie internazionali sull’uso delle piattaforme del gruppo.

La scelta di Zuckerberg non è priva di precedenti. Microsoft ha fatto qualcosa di simile nel 2015 quando ha promosso Brad Smith, fin lì consigliere generale e responsabile degli affari legali, nel ruolo di president trasferendo a lui le responsabilità politiche di gruppo fin lì gestite dall’amministratore delegato Satya Nadella. Clegg avrà un compito ben più difficile di quello di Smith: dovrà difendere il gruppo dall’accusa di aver consentito che le sue piattaforme fossero usate per creare interferenze politiche dalle conseguenze gravissime in tutto il mondo — dalla Birmania all’India agli stessi Stati Uniti — e, cosa forse ancor più difficile, dovrà «vendere» a miliardi di utenti il Metaverso: secondo Zuckerberg è il futuro di Meta e del mondo, ma nessuno ha capito ancora bene cosa sia e, soprattutto, non esistono, ancora tutte le tecnologie necessarie per farlo funzionare

9. Captagon e Fentanyl: tendenze narcos

(Guido Olimpio) Tendenze narcos.

  • Giordania. Un alto ufficiale dell’esercito ha lanciato un monito chiaro: chiunque cercherà di contrabbandare droga nel paese «morirà». E non sono parole. Nelle ultime settimane le forze di sicurezza hanno ucciso una trentina di trafficanti, azione durissima dopo la morte di un soldato colpito dai banditi. La minaccia principale per il regno hashemita è costituita dalla droga sintetica, il Captagon, proveniente da Siria e Libano. Dall’inizio dell’anno le autorità hanno sequestrato ben 16 milioni di pillole. Secondo molte inchieste i criminali godono di protezioni da parte del regime di Damasco, un asse che ha permesso di aumentare il flusso verso tutto il Medio Oriente e in particolare il Golfo Persico.
  • Stati Uniti. Pochi giorni fa la Border Patrol ha bloccato un camper a Lukeville, Arizona, al confine con il Messico. Trasportava stupefacenti per 4,4 milioni di dollari, una partita di metanfetamine e fentanyl. La polizia segnala con preoccupazione come quest’ultima droga, spesso mescolata ad altri veleni, sia in crescita. Lo dicono, indirettamente, i sequestri: nel 2016 erano stati sequestrati 200 chilogrammi, nel 2021 si è passati a 5 tonnellate. La sostanza una volta arrivava dalla Cina mentre oggi la producono in Messico. I cartelli importano da Oriente gli ingredienti chimici necessari, la confezionano e poi la spediscono verso Nord.
10. Avviso ai naviganti (e agli acquirenti di Porsche e Bentley)

(Guido Olimpio) Avviso ai naviganti. È scoppiato un incendio a bordo della Felicity Ace, cargo partito da Emden (Germania) e diretto a Davisville, nel Rhode Island. L’incidente si è verificato a 200 miglia dalle Azzorre, in pieno Atlantico ed ha costretto l’equipaggio ad abbandonare la nave (i marinai sono stati evacuati dagli elicotteri). A bordo 4 mila vetture, tra cui un migliaio di Porsche e circa 200 Bentley. Un carico di lusso. Non è per ora chiaro quali siano i danni e se c’è una possibilità di rimorchiare l’unità. Grande apprensione per chi aveva ordinato e pagato le vetture.

11. Sam Brinton, queer: critiche a Biden per la nomina nell’ufficio per l’energia nucleare
12. «Golia uccide Davide». Netflix visto da Cumberbatch
di Paola De Carolis, da Londra

Due settimane nelle sale. Perché così poco? È una domanda che racchiude una profonda riflessione sul futuro del cinema tradizionale quella che attraverso le pagine di Vanity Fair l’attore Dominic Cumberbatch ha posto a Netflix. Il film Il potere del cane, candidato a 12 premi Oscar, ha fatto solo una fugace comparsa sul grande schermo, il tempo necessario a ricevere il nullaosta dall’Academy, ma non a rilanciare le sorti di un settore profondamente colpito dalla pandemia.

Con i suoi 220 milioni di abbonati nel mondo, Netflix è un gigante internazionale: ogni suo passo scuote il mercato, i suoi finanziamenti fanno il buono e il cattivo tempo, le sue scelte plasmano i gusti degli spettatori. È un successo, però, che potrebbe creare una situazione in cui «Golia uccide Davide» sottolinea Cumberbatch, protagonista di Sherlock, che con il film di Jane Campion ha raccolto la seconda nomination all’Oscar come miglior attore (la prima, nel 2014, per il film The imitation game).

«Non potevano permettersi di tenere il film nelle sale più a lungo?» si è domandato l’attore. Un quesito da porre a Ted Sadandos, Scott Stuber e «tutti coloro che dirigono Netflix», ha precisato. «Non è una conversazione che ho avuto con loro ma lo farò», ha precisato il Dottor Strange dell’ultimo film su Spiderman: «La realtà è che oggi senza una star della Marvel è molto, molto, molto difficile finanziare un film, qualsiasi sia la trama, l’importanza della storia, il talento dei protagonisti o la rilevanza della pellicola». «Visto che sono nella pancia della bestia — ha aggiunto — posso cominciare a fare domande».

Se da una parte il cinema indipendente attraversa un momento difficile, dall’altra l’arrivo delle piattaforme di streaming può creare nuove opportunità: Amazon ha rilevato per almeno i prossimi dieci anni gran parte degli studios inglesi di Pinewood, considerati la «casa» di Bond, dove Stanley Kubrick passò circa 400 giorni per girare Eyes Wide Shut con Nicole Kidman e Tom Cruise.



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