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Franco Fortini

Franco Fortini

Verifica dei poteri

  1. I luoghi dell’opinione e del gusto letterario sono stati sorpresi nel giro di pochi anni dall’insorgere ed estendersi di forme per noi nuove di industria della cultura che hanno mutato aspetto e funzione ai tradizionali organi di mediazione fra scrittori e pubblico, come l’editoria, le librerie, i giornali, le riviste, i gruppi politici e d’opinione. Alla motorizzazione la società letteraria ha resistito anche meno dei nostri storici centri urbani. Gli scrittori non hanno saputo adattarsi, cioè reagire all’ambiente, come i loro colleghi stranieri di più vecchia modernità. Gli elementi più arretrati della società italiana contribuiscono poi ad addolcire la brutalità del trapasso, che così perde qualsiasi valore pedagogico. A differenza di quanto accadde nella Parigi di cento o cinquant’anni fa o in età più recente negli Stati Uniti (e, sebbene con tutt’altra motivazione, nell’Unione Sovietica dello stalinismo), l’asservimento esplicito dell’intellettuale e dell’artista, e quindi del critico, agli interessi della classe dominante nella fase dell’industria culturale di massa non ha avuto da noi una fase tragica. «Lo sfruttamento palese, senza pudore e senza viscere» che trasforma «il poeta, lo scienziato» in «lavoratori salariati», secondo il vecchio Manifesto, trova ogni giorno chi gli rida «viscere» e «pudore».
    Come non c’è stata una emigrazione antifascista negli scrittori italiani paragonabile a quella tedesca o spagnola, così l’industria culturale dello scorso decennio ha trovato mille forme per mantenere l’illusione della indipendenza critica. Perfino i blocchi politici vi hanno contribuito. Assorti negli immobili conflitti di tendenza, taluni intellettuali e critici hanno potuto credere, per attimi, di assumere da noi il medesimo ruolo che avevano ancora e per poco, in Francia, i Sartre, i Camus, i Mauriac; in Francia dove, pur nella generale decadenza della élite letteraria e critica, l’organizzazione e la stratificazione degli strumenti culturali dura quasi immutata da tanto tempo che autori e critici la considerano una verità di natura, come fosse il corso della Loira. Da noi invece, fino ad ieri almeno, molti critici militanti credevano ancora di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di aver già stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari.

Non vogliamo qui tener conto dei critici a un tanto al rigo, più o meno consapevolmente corrotti [… ] tuttavia la massa di pennivendoli scadenti e corrotti crea lo sfondo [… ] degli oggetti delle nostre considerazioni [… ]. Né la posizione del Critico di vocazione verso la letteratura contemporanea né la posizione del vero scrittore verso la critica contemporanea possono restar immuni dagli influssi esercitati da questo sfondo: esso determina, che essi ne abbiano coscienza o no, l’atmosfera della reciproca valutazione complessiva1.

Il saggio che contiene queste parole è del 1939. Non ha perduto nulla della sua attualità. Solo questi nostri ultimi anni mostrano anzi da noi, con estrema chiarezza, che «l’irrequieto oscillare tra il modo astrattamente contenutistico (sociale e politico) e un modo soggettivistico e formalistico di considerare la letteratura è un moto apparente e non già una feconda evoluzione» e che «l’indagine sociologica della letteratura non può dunque indicare, nemmeno alla critica, una via d’uscita dall’angusto soggettivismo estetizzante»2. Perché in verità oggi nel linguaggio critico assistiamo tanto alla formalizzazione dell’indagine sociologica (le classificazioni di provenienza sociologica, che sono una preziosa attrezzatura per il momento filologico-linguistico, tendono a perdere memoria della propria origine, a costituirsi in categorie critiche come ad esempio i «piani» linguistici, le «scelte» semantiche, le «aree», ecc.) quanto, inversamente, alla sociologizzazione e alla pedante classificazione pseudoscientifica dell’inverificabile vitalismo o dell’intuizionismo ricorrente che, vergognoso della propria nudità culturale, veste ora (ma come mezzo secolo fa) panni di provenienza positivista, presi a prestito dalla terminologia delle sciences humaines. Naturalmente c’è sociologia e sociologia, c’è formalismo e formalismo; altro è il sociologismo di un Barthes, altro quello imparato da anziani desiderosi di ringiovanire o da giovani desiderosi di invecchiare. E soprattutto ci sono gradi diversi di preparazione, di sensibilità e intelligenza. Qui non interessa l’eccezione ma la regola, la media. E la media riproduce, aggiornate e reciprocamente integrate, quelle morte antitesi di cui Lukács parlava oltre vent’anni fa e che da noi erano state ritardate dalla dittatura crociana (esempio di come un «ritardo» possa essere talvolta più positivo di un «progresso» giunto tardi… ) e dagli anni del pur incerto gramscismo; antitesi che solo il dispiegarsi della condizione attuale ha dato di vedere ad occhio nudo. Il campo della critica letteraria, ad esempio, è uno di quelli – parlo sempre della «media» – dove la ricerca severa di uomini come G. Preti rischia la volgarizzazione, quando non la volgarità. Se P. Citati annuncia l’agonia e l’utile morte della società letteraria quale da noi si è configurata fino a ieri, chiede in realtà solo quel riconoscimento del mondo moderno già compiuto dove – cadute le ipocrite illusioni del ribellismo e dell’indipendenza – non esiste nessuna società letteraria nel senso nostro o francese o spagnolo della parola ma, come in Usa o in Inghilterra, i produttori di letteratura o di critica accettano le regole del giuoco commerciale e sociale o, se non le accettano, non lo fanno in quanto artisti o critici ma in quanto privati cittadini e sul fondamento di opinioni e interessi non già di una particolare professione intellettuale. Potrebbe darsi che quelle proposte di Citati tendessero in verità solo a ricostruire la società letteraria ad un livello più elevato; ad elevare le quote di iscrizione al Jockey dell’alta letteratura internazionale. Se la nausea per le false aristocrazie è un nobile sentimento, non conosco però aristocrazia più dubbia di quella che afferma l’esistenza di valori invisibili all’occhio mondano e insieme si attribuisce, o attribuisce a qualcuno, l’attitudine a distinguerli che è partecipazione a quei valori supremi. L’equivoca aristocrazia dell’intuito, del dono, dell’irrelato, della grazia, c’è una spia infallibile per identificarla: assimila i valori alle persone più che alle opere. Alle persone e alle corporazioni di persone (i «grandi» scrittori, ad esempio) e non alle opere loro, che sono sempre di collaborazione, tanto nella loro genesi quanto nel loro consumo.

  1. La possibilità di una critica che non si professi agnostica o indifferente alle «concezioni del mondo» né d’altra parte si neghi nella cosiddetta «scienza della letteratura»? Certo che esiste. Ma respinto tanto dalla presunzione neopositivistica quanto dalla povertà dello scientismo pseudomarxista, il contemporaneista trova tutto pronto ad accogliere un suo discorso corrente d’una ben collaudata pratica tuttofare, misto di cinismo, moralismo e intuizionismo. L’industria culturale, come abbiamo detto, ha bisogno di questo tipo di eclettismo; almeno quanto ha bisogno di fabbricare le nuove avanguardie. Più strumentalizza ed umilia a mero elemento di profitto lo screditatissimo intellettuale – che, grazie al noto privilegio dell’autocoscienza, si umilia e si esalta, da sé si eclissa e da sé torna a splendere – più ha bisogno di inventare minoranze apparentemente irriducibili o aristocratiche. Uno degli interessi più vivi dei gruppi dirigenti economici e politici è di mantenere l’illusione della spontaneità e della indipendenza, fondamento morale del sistema.
    Essa è prevista nei bilanci pubblicitari e nei preventivi degli industriali della cultura; che valutano con esattezza a quanto ammonti in ogni circostanza la richiesta di freschezza e di autenticità da parte dei ceti che quotidianamente ne privano se stessi e gli altri.
    Intanto le differenze più appariscenti fra critica accademica, critica di primo intervento e pubblicistica militante sono di molto diminuite. Al linguaggio sensibilistico e intuizionistico della critica postidealista o ermetizzante si sono sostituiti quello dei neofilologi (a livello universitario) e quello – oscillante fra stilcritica, semanticismo e sociologismo – della critica corrente.
    Le differenze di un tempo non sono già diminuite per un moto verso una maggiore omogeneità del linguaggio e del metodo critico, che dalla critica accademica mutui l’autorità e la fondatezza filologica e dalle altre forme di critica la scioltezza o la forza di intervento sull’opinione. Se quel moto si avviò nell’immediato dopoguerra nella pubblicistica di sinistra, venne presto a consumazione: furono i fugaci anni dei professori in terza pagina e degli esteti pentiti e percossi nel cuore dalla terribilità degli eventi bellici. La rinuncia all’idea di una critica unitaria, il rifiuto d’ogni idea unitaria della critica – dovuto alla pur giustificata reazione contro il verbalismo della critica tardo-idealista e contro la scarsa consistenza dell’ideologismo di tipo marxista; ma, vedi caso, in coincidenza con un mutamento dei rapporti di forze nel campo politico – hanno condotto in sede accademica alla ripresa neofilologica e in sede di critica militante a mimare modi e risultati della critica anglosassone. In verità, per quanto concerne la contemporaneistica, i nuovi soggettivismi che sono tornati a spuntare sulla «destra» della critica e i nuovi oggettivismi, pretendenti ad una scienza della letteratura che inglobi e liquidi le esigenze marxiste, sono due aspetti d’uno stesso ripiegamento. I primi accettano il mondo com’è e assegnano allo scrittore e al critico un compito vile e grandioso, dove peccare e pentirsi; la servitù e grandezza della tradizionale clericatura. Poco vi contano le sfumature di gusto, di preparazione e di intelligenza: che uno viva di patetica nostalgia, l’altro di vibrante scetticismo e il terzo di snobismo sprezzante, non fa gran differenza. L’essenziale è che la morte al mondo, annunciata da quelle scritture, è sempre morte ad un mondo e accettazione di un altro, reale, concreto; e provvisoriamente potente… Della generazione che li ha preceduti sono più informati, hanno più studi e letture. Ma la loro posizione all’interno della società italiana è proporzionalmente la medesima, e sarà la medesima, dei Serra, dei Cecchi, dei Pancrazi, e dei De Robertis: l’umanesimo zoppo.
    E anche i secondi, quelli di una sinistra per tutte le borse, accettano il mondo com’è, dal momento che demandano alle specialità e alle tecniche il compito di mutarlo. Anch’essi credono nella Provvidenza. Ma mentre per gli uni (i Pampaloni, i Citati, i… ), la Provvidenza è di tipo cristiano o manicheo, è Iddio o il Principe di Questo Mondo, per i nostri neoilluministi vige una sorta di ottimismo combinatorio, ciascuno zappi il suo giardino, qualcuno si curerà della sintesi.
    I pochissimi esempi in contrario paiono appartenere c’avvero a una specie in via d’estinzione; o di rinascita. Il critico che del suo compito si faccia più o meno l’idea che mi faccio io – cioè quella della maggior critica romantica e postromantica, fino a Lukács – si trova privato della sua destinazione politica e respinto di fatto (penso a un Cesare Cases, ma anche ai momenti migliori di un Bàrberi Squarotti o di un Luigi Baldacci) ai due estremi: la saggistica accademica e l’informazione; illudendosi talvolta che così non sia. Cases, ad esempio, nasconde accuratamente la disperazione sotto l’apparenza del solido ottimismo delle «convenzioni». E, più o meno consciamente, colloca i suoi «valori» nelle cassette blindate della conservazione, in odio a tutte le avanguardie, dimenticando che Lukács parlava di Goethe da un paese avviato al socialismo, fra due piani quinquennali, e che due persone (tanto più due critici) che dicono la stessa cosa non dicono la stessa cosa.
  2. Oggi una parte essenziale dell’attività critica è invisibile. Le scelte fondamentali si compiono nelle direzioni editoriali, dove confluiscono quei giudizi dal cui equilibrio o squilibrio scaturisce l’atto di politica culturale e commerciale (e insieme di indicazione critica) che è la pubblicazione d’una o di più opere letterarie. Non voglio dire, con questo, che la vera critica sia quella esercitata dai lettori delle case editrici o dai critici e letterati che esse impiegano; e che la verità critica sia quella depositata negli archivi degli editori. Non voglio dirlo, perché il carattere cerimoniale e convenzionale dell’articolo e del saggio ha pur una sua ragione critica, proprio per l’ossequio formale preteso dalla sua pubblicità, quale non può esistere nella cosiddetta schiettezza del giudizio privato. Ma non c’è dubbio che oggi il critico svolga, se non sempre almeno spesso, una indispensabile funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’atto di esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche in misura infinitamente più responsabile di quanto non facciano il narratore o il poeta. Chiunque esercita una funzione critica nei grandi organismi editoriali o in altri organismi culturali di massa, come quotidiani e settimanali, fosse anche mosso dalla più disinteressata ricerca del valore non può non sapere che l’industria culturale non sopravviverebbe, almeno nelle forme attuali, senza quella massa di libri inutili o cattivi che ingombra il suo tavolo.
    In Francia, ci dice Robert Escarpit (Sociologie de la littérature, Paris 1958), dal 60 al 70% della produzione libraria cade senza aver raggiunto un volume di vendita redditizio. Supponendo che la medesima cosa sia vera per l’Italia, si può inferirne che proprio quel 60 o 70% di insuccessi di libreria garantisce la relativa indipendenza del critico. Infatti se l’economia editoriale non consentisse che il successo di un libro compensasse l’insuccesso di tre né esisterebbe la produzione editoriale di prestigio (i «fiori all’occhiello» di tanti editori) né il critico potrebbe permettersi il lusso di occuparsi ogni tanto, sulle colonne del quotidiano, o del settimanale, di libri che interessano solo lui e i suoi amici. Il caos dei gusti è la condizione del «buon gusto», l’idiozia è la base dell’intelligenza, eccetera. Le eccezioni confermano la regola. Non c’è critico che, oltre alla pubblica scala di valori, non ne abbia una privata o per pochi intimi. La lascia intravvedere, di tanto in tanto, come una sacra immagine, anche ai suoi volgari lettori; a quelli cioè che pagano per saper che cosa egli pensa.
    Troviamo il critico in tutte le fasi della produzione e circolazione culturale: dalla fase della conversazione, della cerchia letteraria o mondana, di élite o semipolitica, o della rivista per pochi, dove si elaborano determinate tendenze o tirannie del gusto, dalla consulenza editoriale al quotidiano, al periodico, alla radio Tv, ecc., che decidono e influiscono direttamente sul successo di questa o quella iniziativa editoriale fino alla fase finale della consumazione e della sistemazione. È chiaro che la critica scritta è appena la parte emersa di quella attività.
    In ognuna di quelle fasi il critico è delegato di gruppi ideologici, politici ed economici. Vi sono dei critici che partecipano di più momenti, senatori e sottosegretari della critica che, come certi scrittori, credono di rispondere ai voleri della Nazione: e sono a un tempo insegnanti universitari, direttori o consulenti di collane editoriali, autori di prefazioni, traduzioni, saggi introduttivi, critici permanenti di quotidiani e settimanali, direttori o redattori di riviste letterarie, membri di giurie di premi letterari, conferenzieri, consiglieri di gruppi sociali o mondani. Grandi Elemosinieri delle ideologie al potere o di quelle dell’opposizione costituzionale e complice, parlano talvolta ai grandi sulla vanità del mondo, come Bossuet. Zelatori della severa distinzione (o confusione; che fa lo stesso) tra letteratura e politica si assicurano così l’irresponsabilità, e l’impunità, in tutti e due i settori. I loro accenti, anche quando si dicono socialisti, somigliano a quelli degli articoli liberisti sui fogli della Confindustria.
    Ma si dice, o mi dico: queste condizioni, per quanto penose e pericolose, non toccano, chi voglia possederla, la capacità di esercitare le virtù critiche. In verità non è stato forse mai possibile scrivere senza credere che a questo mondo c’è giustizia finalmente e che il buon lavoro, il lavoro fatto coscienziosamente, finisce col portar frutto, assumere autorità, essere riconosciuto.
    In questo senso, il critico non può non partecipare, nella nostra società almeno, di quella condizione di morte vivente che è forse necessaria all’esercizio di qualsiasi virtù. Ma per il critico i pericoli sono più gravi che per il poeta: che egli è per definizione un intermediario, un medio, un luogo di transito e incontro; ha bisogno di una conversazione, di una società. E siccome il consentimento alla morte è necessariamente intermittente, in pratica, quando sia vietato un reale scambio, sul piccolo gruppo che tuttavia residua fioriranno i vizi delle cricche, la mistica delle minoranze, la tendenza all’arbitrio. Che è poi consentimento alla volgarità del maggior numero. Si sa: chi creda basti, per separarsene, denunciare la volgarità altrui ne sarà contaminato proprio nelle sue più aristocratiche pretese.
    Non riesco a persuadermi che virtù supreme d’un critico siano la preveggenza e l’attitudine a puntar su titoli ben quotati nei listini di borsa dell’avvenire. Non solo per un ragionevole scetticismo sulla saggezza dell’avvenire. Ma soprattutto perché è una qualità inverificabile. Non si possono rifiutare i propri giudici naturali, cioè i contemporanei, e poi pretendere che ci ascoltino. Il poeta può fare appello alla giustizia avvenire, non il criticò. Il critico è legato da un rapporto vitale, diretto, con i contemporanei; un rapporto che solo in determinate epoche è privilegio, e pericolo, del romanziere e del poeta. Tutti sappiamo che c’è un modo di sbagliarsi (di Lessing, per esempio, su Corneille o di Lukács su Proust o Brecht) che è più ricco e vero di tante minori verità.
    Oggi dunque il critico potrà esser giudicato anche dalla misura del consenso ad una condizione che deforma il suo intento. Non diversamente dal poeta o dal narratore, tutti gli elementi del suo lavoro – argomento, tipo di scelta e di motivazioni, struttura del suo testo, elementi stilistici – sono a un tempo espressione e comunicazione di una concezione del mondo, del presente e dell’avvenire. Il critico giudica se stesso molto più di quanto non giudichi altri. Anzi, è proprio questo a fondare la legittimità del giudizio di valore, che molta critica tende oggi a rifiutare. E per lui il motto evangelico: «Beato chi non condanna se stesso in quello che approva».
    A chi finalmente mi chieda quale sia la funzione del critico del nostro paese, dovrei rispondere: compiere scelte, individuare argomenti, costruire discorsi, impiegare linguaggi che siano scelte, argomenti, discorsi e linguaggi tendenzialmente augurabili ad una società nella quale «il libero sviluppo di ciascuno condizioni il libero sviluppo di tutti». Da questa prospettiva della tradizione umanistico-marxista, che è di una «provincia pedagogica» e d’una educazione d’ogni uomo ad opera d’ogni altro, il critico è tenuto, quando la condivida, a situarsi fin d’ora al livello del discorso comune; che, naturalmente, non ha nulla a che fare col discorso qualsiasi, ma che è comune anzi e proprio perché cerca una comunanza di oggetti e di argomenti al di là della mistificazione indotta dalla falsa democrazia culturale. Però, in quanto è critico a partire da una specialità – la specialità letteraria – quindi, in un certo senso, in quanto la rappresenta, dovrà anche essere, in ogni momento, critico della letteratura, della posizione che la letteratura occupa nell’insieme della vita umana e della cultura, critico degli istituti letterari, e degli istituti senza aggettivo, insomma della società: politico.
    Questo è il critico-filosofo e il critico-scrittore di cui ci parla Lukács nel suo saggio; e il critico-storico, di cui Lukács medesimo è esempio. Quest’idea della critica che si ostina a non abbandonarci è, in sostanza, quella che ebbe l’umanesimo romantico e che continua, in altri umanesimi, fino ai giorni nostri. Si fonda su di un perseguimento della dignità passata, presente o possibile dell’uomo, sulla sua unità. Il critico letterario ha come oggetto un’opera che, proprio perché non-discorsiva, non-analitica, ma sintetica, ha o pretende avere la complessità stessa «del mondo», della «vita» e dell’«uomo». Esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di «scienza della letteratura»; è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le «scienze» particolari, da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro.
    Invece la definizione di Sainte-Beuve, del critico come colui che sa leggere e insegna a leggere agli altri, oltre a dimenticare l’ovvia reciproca, mantiene la tipica formula reazionaria del mediatore fra i ceti o caste o classi; laddove mediazione positiva può aversi, mi sembra, solo fra uno e altro momento della sovrastruttura ideologica. Proprio perché sa che le opere di cui parla non sono soltanto discorsi privati ed inverificabili, ma portato e immagine di reali modi d’essere degli uomini fra loro, in un primo momento il critico si vieta di saperne, del mondo, più di quanto il suo autore gli dica; ma si investe poi del diritto, che è di ogni lettore, di confrontare alle proprie quelle esperienze per giudicarne senso, coerenza, implicazione; e nelle contraddizioni fra quell’universo organizzato di parole, espressioni, immagini e pensieri, la propria «visione del mondo» e la circolazione delle diverse interpretazioni del reale nella società in cui vive, stabilisce reazioni e rapporti, situa il discorso proprio; e finalmente lo affida ad una forma che, se per un verso tende alla lucidità e coerenza della discorsività storiografica e scientifica, per un altro verso accetta come suo momento necessario anche quello della espressività, un margine di arbitrio che può essere una più profonda adesione ed interpretazione dell’oggetto, cioè dell’opera letteraria considerata e della realtà comune all’autore e al critico.
    Il critico di cui sto parlando non si distingue veramente dal saggista. So benissimo che oggi si guarda alla nozione tradizionale di saggismo con ragionevole ripugnanza, per quella che è stata, almeno da noi, una tradizione di arbitrio, false eleganze, bellettrismo. Mi chiedo tuttavia se è possibile che ad una formalizzazione del discorso critico o « scienza » della letteratura possa non corrispondere anche una «forma», nel senso letterario della parola. M’è sempre parso che, almeno da noi, lo studio della saggistica come forma sia stato trascurato. Molti saggisti italiani che hanno scritto come se, esiliati da Parigi o da Oxford, fossero costretti a spiegare le belle maniere a un mondo di provinciali, non sentivano di doversi porre 0 problema della legittimità e funzionalità delle forme saggistiche; erano saggisti per diritto letterario, cioè per nascita. D’altro canto, la cosiddetta sinistra ha sempre considerato inutili formalismi quelle ricerche e ha sempre avuto a modello (lo senti bene in un Muscetta e in un Cases) la saggistica democratica e socialista, tedesca e russa, dell’Ottocento, spesso con effetti stilistici che, non me ne vogliano i due amici, mi evocano il personaggio di Ehrenfried Kumpf, il teologo corpacciuto e allegrone del Doctor Faustus.
    Secondo me non c’è invece nessuna contraddizione fra la difesa del saggio, come forma del discorso critico proprio all’idea del critico ora esposta, ed una sua «scientificità», intesa anche nel senso di adeguazione ai suoi destinatari, oltre che di rigore lessicale-espressivo.
  3. Riassumendo il contributo marxista alla critica letteraria, Goldmann ha scritto che gli strumenti essenziali creati dal pensiero marxista gli sembrano essere:

1) il concetto di struttura significante (o strutturalismo dinamico universale) che implica quelli di visione coerente del mondo o di coscienza possibile;
2) quello di realismo socialista che, nonostante gli abusi dello stalinismo rimane valido come affermazione del rapporto fra contenuto dell’opera e realtà sociale globale (o grado di adeguazione) e quindi come necessità di «distinguere fra opere che rivelano e opere che, quella realtà sociale, mascherano». Socialista perché nella misura in cui il realismo di oggi forza «l’apparenza fenomenale statica» non può non rilevare delle linee tendenziali del socialismo, assunto dal marxista come fattore essenziale di progresso;
3) la nozione di struttura unitaria della forma e del contenuto, mantenendo nondimeno la nozione d’una dipendenza di quella da questo e quindi d’una distinzione concettuale.

Se il punto terzo lascia ovviamente perplessi, il primo sembra essere condiviso da varie correnti strutturalistiche anche se – nota lo stesso Goldmann – esse non insistono sul carattere significativo delle strutture umane e tendono a ridurre le «visioni del mondo» a fenomeni psicologici e culturali. Cito queste formule di Goldmann perché mi pare che esse stiano ad indicare una tendenza sempre più importante di una parte della critica francese che, senza ricorrere ad una interessata «liquidazione» del marxismo, tenta di saldare insieme discorso storico, discorso sociologico e valutazione estetica in una specie di interminabile addizione e integrazione che, se da un lato implica contributi da tutte le sciences humaines, d’altro lato non esclude la mise en forme della prosa critica, nel doppio significato – a chi scrive particolarmente caro – di forma logico-scientifica e di forma letteraria o, come si suol dire, «scrittura».
Un critico di tutt’altra formazione, Maurice Blanchot, propugna invece un’altra concezione dell’atto critico, la quale è stata molto sentita, vent’anni fa, nel nostro paese. Vi si incontrano – senza unirsi – la vocazione irrazionalistica ad una comunicazione universale (o mimesi del flusso vitale-spirituale e quella – che bisognerebbe chiamare cripto o pseudomarxista – del superamento della divisione del lavoro (e delle specialità) in nome dell’unità umana. La prima componente – che è d’origine ereticale, iperromantica e ieri surrealista – è in sostanza una tendenza all’anarchia, una rivendicazione del sottosuolo, della antistoricità ed antistituzionalità profonda della vita che proprio rifiutando i valori pone se stessa come valore supremo. Per questa componente, solo negativo è l’irrigidimento. E dunque per essa la critica sarà semmai un fiume d’Averno, parallelo a quello della vita e della letteratura. La semantica generalizzata porta alle medesime conseguenze e poco importa che alla oscura «vita» sia sostituito il moto browniano dei «segni»: l’universo diventa una prodigiosa serie metaforica senza oggetto, che è perché è. La circolarità del discorso critico è poi scambiata, naturalmente, per una unità indistinta.
La posizione di Goldmann e quella di Blanchot, da noi, non hanno equivalenti: a che la prima si sviluppasse ha fatto ostacolo tanto la tradizione crociana quanto l’insufficiente fondatezza di studi e di ricerche della critica letteraria di tipo marxista, almeno fino a pochi anni fa; mentre il secondo atteggiamento, pur così largamente presente nella tradizione ermetizzante, ha sempre avuto da noi una esplicita connotazione ideologica conservatrice o apertamente reazionaria.

  1. Anche a chi creda compito del critico quello da me riassunto, la situazione presente offre insomma due vie divergenti: quella della critica di pretesti e quella della critica di sistemazione. La prima tenderà a passare oltre i giudizi di valore, a circuirli; la seconda a fermarcisi.
    La modificazione intervenuta fra l’età di Lukács e la nostra è proprio questa; che, allora, il critico marxista poteva, simultaneamente, eseguire l’una e l’altra specie di critica. Ma da allora ad oggi, se il «donde» è rimasto lo stesso, il «dove» si è modificato e allontanato all’orizzonte. Tutta la tematica lukacsciana di questi ultimi anni, quella del «realismo critico» (con i suoi evidenti caratteri di compromesso), è la conseguenza dell’indebolimento o meglio della trasformazione subita dall’ente che mediava, allora, il discorso del critico: voglio dire, il Partito. Combattuto dagli zdanovisti, il realismo lukacsciano poteva pur sempre invocare o aspettare le svolte dialettiche del Partito e attraverso quello indicare pur sempre la prospettiva socialista. Ma nella lotta per la pace, nella distensione, nella coesistenza, il «dove» del socialismo è rinviato, trasformato: dev’essere ridefinito e ancora non lo è. Il critico marxista, oggi, continuerà a rispondere che la prospettiva del genere umano è il socialismo ma saprà molto meno dei marxisti delle generazioni precedenti che cosa quella affermazione implichi; dalla grande prospettiva universale è tornato a guardare gli avvenimenti della sua nazione; si chiede che cosa possa significare socialismo per noi. Si avvede che la maggior parte delle informazioni sulla società in cui vive non gli viene dalla parte che ha scelto come propria: ma da quella avversaria. La sua resistenza all’ideologia avversaria sembra diminuire ogni giorno e si trasforma – come sempre in questi casi – in fedeltà ai principi, cioè in regime di doppia verità.
    Il critico che si rifiuti di collaborare con chi può fornirgli alcuni elementi e dati sociologici sugli oggetti del suo discorso rischia di credere, ad esempio, che un romanzo pubblicato oggi sia la stessa cosa di un romanzo pubblicato cent’anni fa ed occupi il medesimo spazio letterario, culturale e sociale; rischia di cadere nell’errore di chi, studiando una data produzione artigianale esistente da molti secoli, volesse ignorare che in seguito alla produzione in serie quei prodotti artigiani vengono lavorati ed acquistati ormai per essere destinati ad ornamento. E quando egli affermi che tutto questo non sopprime perciò il qui-e-ora dell’oggetto critico, e il dialogo fra critico e opera, né finalmente l’obbiettività del reale nel quale autore, critico e pubblico comunicano, bisognerà dirgli: non ti avvedi che così facendo, ed esercitando il tuo mestiere sul prodotto finito, giunto sul tuo tavolo con l’etichetta di opera letteraria, mentre da una parte pretendi operare scelte in base a un metodo e a un criterio di valore, dall’altra ti limiti a confermare il sistema che quelle opere produce?
    Di qui, direi, non s’esce: o si considera l’oggetto della contemporaneistica come un pretesto, una occasione, uno spunto per un discorso e allora il metodo non viene esercitato per una scelta di valore o, tutt’al più, è impiegato nella scelta del pretesto (e di fatto, molto spesso, è così); o invece il libro, l’autore di cui si parla, vogliamo inserirlo in un ordine storico, ideologico, estetico, e allora quello schema, quell’ordine, debbono essere continuamente verificati sul contesto sociale, produttivo, culturale, che quel libro, quegli autori, produce e riceve. Come si può oggi, nel nostro paese, riferirsi, per l’osservazione di un’opera letteraria, alle normali condizioni di temperatura e di pressione? Come prender per buono il moto apparente degli astri alla latitudine di Roma o di Milano? Badate, qui non si tratta di metodologia ma di semplice filologia. Si tratta di registrare gli strumenti critici, di verificarne i poteri, di decidere a quale livello dal mare cominciano i nostri calcoli, entro quale arco di meridiani e di paralleli consideriamo validi i nostri discorsi. Gli scrittori, questi problemi se li pongono talvolta di istinto, perché per essi i venticinque o i venticinque milioni di lettori sono spesso semplici metafore; ma per il critico i venticinque lettori (escludo i venticinque milioni) sono davvero venticinque persone non metaforiche; e se il poeta può davvero far miracoli, il critico non deve.
    Mi si risponderà che non c’è critica senza storia e filologia; questo vai quanto dire che non basta allora una «concezione del mondo» ma che occorre, tutt’intorno al critico, una serie di ricerche, di intenti, studi, interpretazioni che abbiano un certo grado di omogeneità ideologica e che non possono essere dedotti dai principi o dai classici. Carmina possunt vel coelo deducere lunam; ma il critico deve sapere che cosa dicono i giornali del mattino. Se è vero quanto sopra ho detto sulla condizione attuale del nostro paese, quella elaborazione culturale ideologicamente coerente dovrà essere intorno al critico, la sua patria, il suo luogo vitale, quel luogo dove si integrano le conoscenze e le azioni. Non può essere sostituita da postulazioni di coscienza, da culti privati. Ossia, per riprendere una vecchia formula, non si dà critica fuori di una organizzazione cui il critico partecipi, che egli contribuisca a determinare, e che sia tendenzialmente egemone. Mentre oggi, purtroppo, il principio cuius regio eius et religio, fondamento della più ipocrita coesistenza, sembra ufficiale anche per la critica italiana.
    Che, critico, io compia una scelta nel corpo delle lettere italiane, metodologicamente motivata fin che si voglia, dicendo, ad esempio, Cassola se, Pavese ma, Calvino eh, Lampedusa no, eccetera; o invece sostenga la sterminata grandezza del Pasticciaccio, della Romana o del Gattopardo; senza che questo mio discorso tenga conto della struttura della società letteraria, editoriale ed economica italiana che questi autori promuove invece di altri, e della reale condizione di lettura che viene fatta a quelle opere, nella loro rilevanza rispetto ad altre opere delle letterature contemporanee, ecc.; senza che io critico elegga, denoti, appelli i miei collaboratori e delimiti l’area cui mi rivolgo (elezione e delimitazione che si compie soprattutto con la scelta di un linguaggio critico), questo significa semplicemente aver rinunciato di fatto a quella idea della critica che ho sopra ricordato e illustrato; e confidare la propria ricerca alla risultante delle forze storiche. Come la bouteille à la mer di Vigny, Dieu la prendra du doigt pour la conduire au port. Lo so, mi si risponderà che questa distanza, lukacscianamente mantenuta, fra le grandi curve storico-ideologiche e le onde corte o cortissime della rilevazione sociologico-politica, è la sola che garantisca grande ampiezza di campo visivo e, alla lunga, reale efficacia: ma allora non si fa contemporaneistica. O, se ci si occupa di contemporanei, essi diventeranno dei pretesti, dei personaggi araldici, come sono Mann o Kafka per Lukács, e si vorranno fornire solo dei «cartoni» perché gli «aiuti» eseguano i particolari.
    Ma noi non siamo né vogliamo essere i Marescialli della Grande Critica; e il pretesto, allora, è tentatore come un ripiegamento, lo spazio che esso ci concede di intermettere fra le circostanze e il giudizio può assomigliare alle mura d’aria, più impenetrabili di quelle d’avorio, che la disperazione leva tra la pagina nostra e il mondo.
    Così da alcuni anni fra noi si seguitano con ostinazione puerile a proporre e riproporre programmi di lavoro, o piani di gruppo che tendono ad una possibile omogeneità di metodo, unificazione tendenziale del linguaggio critico, reintegrazione delle maggiori realtà letterarie del passato e del presente; sottoponendo a controllo tutte le diverse istanze e mediazioni del discorso critico. E a fantasticare della rivista che dovrebbe dare un esempio di disciplina «politica», di «università democratica», di autorità indipendente dai grossi affari editoriali, dalle luminarie delle mode. Ma contemporaneamente c’è, in chi scrive queste parole, una sfiducia sempre più grande nella possibilità di risalire dalla valle della falsa spontaneità e della falsa organizzazione nella quale siamo discesi, un senso di inutilità e stanchezza per l’insuccesso d’ogni tentativo e la prudente pigrizia, o – diciamo – omertà dei coetanei, il dubbio d’un errore di lettura della realtà sociale circostante: che tolgono il respiro.
    L’interrogativo sulla possibilità di star commettendo un errore di metodo critico, di poetica, e finalmente di vita, fa tutt’uno con quello (che ha sempre perseguito i migliori politici dell’opposizione rivoluzionaria) sul possibile errore di metodo nell’intento di «trasformare il mondo». La resistenza al «mondo», creduta eroica, sembra per attimi, con orrore, infantile rifiuto dell’arido vero. La delusione scatena passioni autopunitrici. Scevola si gloria dell’errore nell’atto con cui si rende impotente a ripararlo… «Che cosa pretendi da noi alla fine?» ci dicono spesso i più generosi. E non si osa rispondere, come si dovrebbe: «la grandezza», cioè: «la verità». Oppure: «Ma non chiedere una vita immortale e datti ad opere che ti sia concesso di compiere», dicono altri, citando il Pindaro di Valéry, forse più intelligenti; e a questi ultimi, che rispondere non si sa. La pagina e l’intenzione critica, mosse dapprima verso l’oggetto, il pubblico, il discorso (come si usa dire) verificabile, piegano verso il diario, la confessione; il pretesto dunque, ancora una volta. E presto si arriva alle memorie del manoscritto, all’oltretomba nella bottiglia. Verso quel che più si è detestato, il limbo dove sorridono di scherno o rimorso i vecchi nemici confusi ai vecchi compagni. Non rimane se non la speranza, davvero non infondata, che malgrado tutto alcune delle nostre lettere di prigionieri, scarabocchiate sul retro di falliti piani d’operazioni o di progetti di fortificazioni travolte, testimonino, se lette da tutte due le parti del foglio, di una verità obbiettiva che non si sapeva, o appena in sogno, di possedere.
    1960.

1 Lukács, Lo scrittore e il critico, in Il marxismo e la critica letteraria, Torino 1953, p. 436.
2 Ibid., p. 439.



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Franco Fortini

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