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Cos’è l’azione diretta? D. Graberg

Cos’è L’azione Diretta? D. Graberg


Negli anni, centinaia di anarchici hanno cercato di rispondere a questa domanda, con pamphlet, discorsi e comizi. Ecco qualche esempio:
L’azione diretta richiede di agire per conto proprio, in modo da poter valutare direttamente il problema che si ha di fronte senza la mediazione dei politici o dei burocrati. Se vedete dei bulldozer che stanno per abbattervi la casa, passate all’azione diretta: intervenite di persona e cercate di fermarli. L’azione diretta contrappone la coscienza etica alla legge ufficiale. […] È espressione della volontà del singolo di combattere, di rivendicare il controllo della sua vita, e di tentare di agire direttamente sul mondo che ci circonda, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni.
(Sans Titres Bulletin, «What Is Direct Action?»)
Un esempio terra terra: se il macellaio appoggia il pollice sulla bilancia insieme alla carne, ci possiamo lamentare e accusarlo di disonestà e rapina; se il macellaio insiste, e noi non facciamo nient’altro, non sono che parole; oppure possiamo chiamare l’Ufficio verifica pesi e misure, e questa è un’azione indiretta; oppure, se non ne veniamo a capo con il dialogo, possiamo chiedere di pesare noi stessi la carne, o portarci una bilancia da casa, o andare a comprare la carne da un’altra parte, o partecipare alla creazione di una cooperativa: queste sono azioni dirette.
(David Wieck, «Habits of Direct Action»)
L’azione diretta mira a conseguire i propri obiettivi agendo in prima persona anziché attraverso le azioni di altri. Significa rivendicare per sé il potere. In questo si distingue da quasi tutte le altre forme di azione politica, come il voto, il lobbismo, il tentativo di esercitare pressione politica tramite le agitazioni sindacali o attraverso i media. Tutte queste attività […] cedono il nostro potere a istituzioni esterne, che ci impediscono di agire in prima persona per modificare lo status quo. L’azione diretta ripudia tale acquiescenza all’ordine costituito e afferma che abbiamo il diritto e il potere di cambiare il mondo. Lo dimostra facendolo. Esempi di azione diretta sono le barricate, i picchetti, il sabotaggio, lo squatting, il tree spiking, le serrate, le occupazioni, gli scioperi a scacchiera, i rallentamenti della produzione, il rivoluzionario sciopero generale. Nella comunità comporta, fra le altre cose, la creazione di organizzazioni proprie come le cooperative alimentari e canali radio e televisivi accessibili alla comunità. […] L’azione diretta non è solo un metodo di protesta ma anche un modo per «costruire il futuro oggi». Ogni circostanza in cui le persone si organizzino per estendere il controllo sulla propria situazione senza far ricorso al capitale o allo Stato costituisce un’azione diretta. […] Quando è coronata dal successo, l’azione diretta dimostra che le persone possono controllare la propria vita: che la società anarchica è possibile.
(Rob Sparrow, «Anarchist Politics and Direct Action»)
Ogni persona che si sia mai ritenuta in diritto di rivendicare qualcosa, e che l’abbia rivendicato con audacia, da solo o insieme ad altri che la pensavano come lui, ha praticato l’azione diretta. […] Ogni persona che abbia mai progettato di fare qualcosa, e l’abbia fatto, o abbia presentato il suo progetto ad altri garantendosi la loro collaborazione, senza chiedere ad autorità esterne di fare quella cosa al posto suo, ha praticato l’azione diretta. […] Ogni persona che mai in vita sua abbia avuto una divergenza di opinioni con qualcuno, e sia andato direttamente da lui per chiarirsi, in modo pacifico oppure no, ha praticato l’azione diretta.
(Voltairine De Cleyre, «Direct Action»)
L’uomo ha tanta libertà quanta è disposto a prenderne. L’anarchismo perciò significa azione diretta, sfida aperta o resistenza a tutte le leggi e vincoli, siano essi di ordine economico, sociale o morale. Ma la sfida e la resistenza sono illegali: e qui risiede la salvezza dell’uomo. Ogni atto illegale richiede integrità, autosufficienza e coraggio. In breve, richiede spiriti liberi e indipendenti, uomini che siano uomini, e abbiano una spina dorsale che non si può trapassare con una mano.
(Emma Goldman, «Anarchism: What It Really Stands For»)
Non è difficile capire perché, da sempre, gli anarchici sono attratti dall’idea dell’azione diretta: gli anarchici rifiutano gli Stati e tutte quelle forme sistematiche di ineguaglianza che gli Stati rendono possibili. Non cercano di far pressione sul governo affinché implementi riforme, e non cercano di rivendicare per sé il potere dello Stato. Desiderano anzi distruggere quel potere, facendo uso di mezzi che siano il più possibile coerenti con i loro fini, che li incarnino. Vogliono «costruire una nuova società nel guscio vuoto della vecchia». L’azione diretta è perfettamente coerente con questo intento, perché nella sua essenza l’azione diretta consiste nell’agire, di fronte a strutture di autorità inique, come se si fosse già liberi. Non sollecita l’aiuto dello Stato, e neppure compie necessariamente grandiosi gesti di sfida: nella misura in cui può e ci riesce, va avanti come se lo Stato non esistesse affatto.
Questa è la differenza di principio tra l’azione diretta e la disobbedienza civile (benché in pratica ci sia spesso una sovrapposizione parziale tra le due). Quando si brucia una «cartolina precetto», si ritira il proprio consenso o cooperazione da una struttura di autorità che si considera illegittima; ma questo gesto è ancora una forma di protesta, un atto pubblico indirizzato almeno in parte alle autorità stesse. Una persona che pratichi la disobbedienza civile solitamente è anche disposta ad accettare le conseguenze giuridiche delle sue azioni. L’azione diretta fa un passo ulteriore: chi pratica l’azione diretta non solo si rifiuta di pagare le tasse per alimentare un sistema scolastico militarizzato, ma unisce le proprie forze a quelle degli altri per cercare di creare un nuovo sistema scolastico che operi in base a principi diversi. Procede come se lo Stato non esistesse, e lascia che siano i rappresentanti dello Stato a decidere se inviare uomini armati a fermarlo.
Al che il lettore potrà obiettare che l’azione diretta in genere comporta uno scontro diretto con i rappresentanti dello Stato. Anche quando non inizia con uno scontro, tutti sono consapevoli che prima o poi avverrà. Ed effettivamente ciò sembra implicare un riconoscimento dell’esistenza dei rappresentanti dello Stato. Ed è così: ma anche qui la questione è più sfumata. Quando avvengono gli scontri, solitamente è perché chi porta avanti l’azione diretta agisce come se i rappresentanti dello Stato non avessero più diritto di chiunque altro a imporre la propria opinione su ciò che è giusto o sbagliato. Se un uomo guida un camion pieno di rifiuti tossici per andare a scaricarli in un fiume, chi ricorre all’azione diretta non valuta se l’azienda rappresentata dal camionista abbia legalmente il diritto di farlo; lo tratta come tratterebbe chiunque altro cercasse di scaricare tonnellate di veleno in una falda acquifera locale. (In quest’ottica, il fatto che chi ricorre all’azione diretta raramente tenti di sopraffare fisicamente l’accusato è una chiara testimonianza della ferma dedizione alla non violenza da parte della maggioranza degli attivisti.) Normalmente, la conclusione è che ogni uomo o donna di coscienza che si trovi nelle vicinanze può legittimamente unire le forze a quelle di altri per tentare di dissuadere il camionista, e se necessario per fermarlo: ad esempio sdraiandosi davanti al camion, o bucandogli le gomme. Se questo accade, e arrivano venti uomini armati in divisa blu a chiedere di sgomberare la strada, costoro non interpretano tale richiesta come un ordine legalmente vincolante, ma la considerano moralmente equivalente a qualsiasi altra richiesta avanzata da un gruppo di normali cittadini. Dunque, se la polizia ordina ai manifestanti di liberare la strada perché deve passare un’ambulanza, quasi sicuramente quelli obbediranno; se la polizia dà quell’ordine solo in virtù della propria autorità giuridica di rappresentante della città, i manifestanti lo ignoreranno; se la polizia minaccia di attaccare, i manifestanti valuteranno se sono disposti ad accollarsi i rischi legati alla resistenza.Il punto cruciale, tuttavia, è che costoro agiscono in ogni caso come se lo Stato non esistesse, almeno in quanto soggetto morale.Inoltre: sarebbe possibile condurre in segreto un’azione diretta, mentre è impossibile per definizione condurre in segreto un atto di disobbedienza civile.
Quanto esposto in queste prime pagine potrebbe essere considerato come la definizione classica di azione diretta, elaborata nel corso di almeno un secolo e mezzo di teoria dell’anarchismo. Oggi, spesso, il termine è usato in senso molto più generico: «azione diretta» diventa ogni forma di resistenza politica esplicita, militante e apertamente polemica, ma al di qua della vera e propria insurrezione militare (cfr. Carter 1973). In questo senso, se una persona fa qualcosa in più che marciare reggendo cartelli, ma non è ancora pronta a rifugiarsi sulle colline brandendo mitra Ak-47, allora quella persona è un praticante dell’azione diretta. Tali azioni tendono a essere militanti e simboliche allo stesso tempo. In questa accezione, il termine «azione diretta» può coprire una vastissima gamma di significati: può indicare qualsiasi cosa, dal rivendicare il diritto a sedersi a un bancone riservato ai bianchi fino all’appiccare il fuoco a quel bancone; dal piazzarsi davanti ai bulldozer in una foresta fino al piantare chiodi negli alberi con il rischio che i taglialegna si feriscano a morte.
Anche gli attivisti si esprimono spesso come se la differenza tra azione diretta e disobbedienza civile fosse soltanto una questione di militanza. Per alcuni dipende dalla volontà o meno di accettare l’arresto. I «disobbedienti civili» possono consegnarsi volontariamente alla polizia; e anche se non lo fanno, quando bloccano l’ingresso alla sede di un’azienda o si sdraiano di fronte a un corteo presidenziale, agiscono aspettandosi di finire in prigione; e quando arriva la polizia ad arrestarli non fuggono e resistono solo passivamente, o non resistono affatto. I praticanti dell’azione diretta invece, sia che spacchino vetrine col favore delle tenebre o sigillino le porte delle fabbriche occupate, fanno del loro meglio per passarla liscia. In alternativa, la distinzione può essere ravvisata nella vicinanza o nella distanza delle tattiche a cui si ricorre alla definizione convenzionale di «violenza». Quando le suffragette inglesi rifiutavano di pagare le tasse, la loro azione veniva solitamente definita una forma di disobbedienza civile; quando iniziarono a fracassare sistematicamente le vetrine dei negozi, solitamente si diceva che erano passate all’azione diretta. Ovviamente, in base alle definizioni proprie dell’anarchismo classico, spaccare le vetrine per indurre il governo a implementare una riforma del diritto di voto non è definibile in alcun senso come un’azione diretta – è indiretta a tutti gli effetti – ma quest’uso dimostra quanto il termine sia diventato sinonimo di un certo grado di militanza.
Tutto ciò chiarisce perché la questione dell’«azione diretta» sia tornata così spesso al centro del dibattito politico.
È importante sottolineare che la pratica del sabotaggio non fu mai considerata particolarmente scandalosa, almeno da parte dei lavoratori. La distruzione di beni di proprietà delle aziende, le occupazioni, il lavoro intenzionalmente malfatto, i rallentamenti della produzione: tutto ciò fa parte, da secoli, del repertorio, della generica cassetta degli attrezzi, potremmo dire, del movimento operaio. Ed è così ancora oggi: io stesso sono cresciuto in un palazzo di Manhattan in cui l’impianto idraulico era malfunzionante a causa di sabotaggi risalenti a qualche disputa sindacale dei tardi anni Cinquanta. Gli scioperanti americani sono soliti bucare pneumatici e persino dare fuoco a macchinari di proprietà delle aziende; nulla di ciò, tuttavia, rientra nelle linee guida ufficiali dei sindacati. I dirigenti dei sindacati condannano sempre queste azioni, o negano che siano avvenute. E uno dei motivi per cui le condannano è che hanno il permesso di scioperare. Paradossalmente, i sindacati sono le uniche organizzazioni statunitensi a essere legalmente autorizzate a praticare l’azione diretta, ma possono praticarla solo se non la chiamano così; e solo a patto di accettare complesse e interminabili regolamentazioni su come e quando possono scioperare, su che genere di picchetti possono organizzare e dove, sull’impiego di altre tattiche come i boicottaggi secondari o anche le campagne di sensibilizzazione. Tutto ciò che esula da questi vincoli tende a essere definito «azione diretta» ed è ufficialmente proibito. Questo è il motivo per cui, come vedremo, i leader sindacali fanno sempre tutto ciò che è in loro potere per accertarsi che i propri iscritti non partecipino ad azioni dirette come quelle avvenute a Seattle e a Québec City. Se gli iscritti al sindacato – in quanto tali – avessero contribuito all’abbattimento del muro in Québec, per esempio, non solo avrebbero commesso azioni illegali, ma avrebbero messo a rischio i buoni rapporti dei loro leader con lo Stato.
Chi continua a operare entro la tradizione sindacalista obietterà, com’è naturale, a questa identificazione tra azione diretta e mera militanza, e tenderà invece a preferire definizioni come quelle che ho elencato all’inizio di questo capitolo. Proprio per questo motivo alcuni si sono spinti fino a sostenere che le azioni su larga scala come quelle a Seattle e in Québec non fossero affatto azioni dirette. Poco dopo la chiusura della conferenza ministeriale del Wto a Seattle, nel novembre 1999, un anarco-sindacalista norvegese di nome Harald Beyer-Arnesen scrisse un articolo per dimostrare che quella di Seattle non era stata un’azione diretta in quanto le persone coinvolte non avevano agito direttamente per trasformare nell’immediato la propria condizione.
Durante la campagna per invitare i lavoratori salariati a iscriversi al sindacato Iww (Industrial Workers of the World), nel dicembre del 1905, Eugene V. Debs disse: «I capitalisti possiedono i mezzi di produzione che non usano, e i lavoratori usano i mezzi che non possiedono». Si potrebbe aggiungere: a volte l’azione diretta può significare smettere di usare gli strumenti che non possediamo, a volte può significare metterli all’opera per le nostre esigenze e gli obiettivi che ci siamo scelti. In ultima istanza, può significare soltanto: agire come se gli strumenti fossero nostri (Beyer-Arnesen 2000, p. 11).
Di nuovo, l’azione diretta significa: sforzarsi di agire come se si fosse già liberi. Per questo, sostiene Beyer-Arnesen, essa sta al cuore del «progetto anarchico di rivoluzione sociale»: è il mezzo con cui le classi lavoratrici possono emanciparsi con i propri sforzi, e non sotto la guida di un’avanguardia rivoluzionaria o di un’élite.
Da questo punto di vista possiamo definire l’azione diretta come un’azione compiuta per conto di nessun altro al di fuori di noi stessi, e in cui i mezzi coincidono con i fini, o, come nel caso di uno sciopero finalizzato a rivendicazioni salariali, non sono mediati da alcuna burocrazia sindacale, per cui i mezzi (ridurre i profitti del datore di lavoro smettendo di lavorare, e quindi ridurre il potere del datore di lavoro) sono in relazione diretta con gli obiettivi da noi fissati (aumentare il nostro salario ed estendere il nostro potere). Un’azione diretta che riscuota successo conduce a un riassetto immediato delle condizioni di vita, tramite l’impegno congiunto delle persone direttamente coinvolte (ibidem).

Riassumendo: l’azione diretta rappresenta un certo ideale, che nella sua forma più pura è probabilmente inattingibile. È una forma di azione in cui mezzi e fini diventano in sostanza indistinguibili; un modo per interagire attivamente con il mondo al fine di stimolare il cambiamento, e in cui la forma dell’azione – o almeno la sua organizzazione – è già in sé un modello del cambiamento che si intende realizzare. Nella sua forma più basilare, riflette un’idea molto semplice dell’anarchismo: non si può creare una società libera attraverso la disciplina militare, non si può creare una società democratica dando ordini, non si può creare una società felice attraverso il sofferto sacrificio di sé. Nella sua forma più elaborata, la struttura dell’azione compiuta diventa una sorta di microutopia, un modello concreto della propria concezione di una società libera. Come osservava Emma Goldman (e altri con lei), il fatto che le autorità definiscano questi atti come reati non è un problema; nella misura in cui serve a rammentare continuamente a chi agisce di assumere la responsabilità delle proprie azioni, e di comportarsi con coraggio e integrità, l’azione diretta può rappresentare un grande vantaggio. I problemi sorgono quando si va oltre il confronto, verso altre forme di interazione con un mondo che è organizzato secondo principi diversi.
Una strategia rivoluzionaria che si basi sull’azione diretta può avere successo soltanto se i principi dell’azione diretta vengono istituzionalizzati: le sfere di autonomia temporanea devono gradualmente trasformarsi in comunità permanenti e libere. Tuttavia, a tal fine, quelle comunità non possono esistere nell’isolamento totale; né possono avere una relazione di pura ostilità verso tutte quelle che le circondano. Devono trovare un modo per interagire con sistemi economici, sociali o politici esterni a loro. Questa è la difficoltà principale, perché si è scoperto che è difficilissimo, per chi è organizzato secondo principi radicalmente democratici, integrarsi a fondo in strutture più ampie senza dover scendere a infiniti compromessi sui principi fondanti. Per i gruppi che praticano l’azione diretta, anche l’alleanza con Ong radicali o con i sindacati ha creato spesso problemi apparentemente insormontabili. A un livello più immediato, la strategia dipende dalla diffusione del modello: la maggior parte degli anarchici, per esempio, non si considera un’avanguardia il cui ruolo storico consista nell’«organizzare» altre comunità, ma piuttosto come un’unica comunità che offre un esempio imitabile da altri. Questo approccio – spesso chiamato «contaminazionismo» – si basa sulla premessa che l’esperienza della libertà sia contagiosa, che chiunque prenda parte a un’azione diretta probabilmente ne verrà trasformato per sempre, e vorrà ripetere l’esperienza. Spesso va così, ma resta la questione di come spiegarlo agli altri. Quella che per i partecipanti è un’esperienza profonda e trasformativa, vista da fuori, appare spesso tutt’al più insolita, o nel peggiore dei casi ricorda il comportamento delle sette religiose. Questo a sua volta fa sorgere la questione dei media. Ma sollevando questi problemi di ordine strategico, mi sto spostando da una disamina dell’azione diretta al tema più generale dell’anarchismo.



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