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Gadda e la radiofonia

Gadda E La Radiofonia

Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio. La mancata osservanza di dette norme e cautele, può rendere «intrasmissibile» uno scritto anche se per altri aspetti eccellente. La Direzione del Programma si viene a trovare, in tal caso, nella ingrata condizione di non poterlo mandare in onda. Notiamo che le regole fondamentali del parlato radiofonico esprimono una esigenza tecnica – intrinseca adattabilità dello scritto al mezzo che lo diffonde – oltreché un diritto economico e mentale del radioascoltatore abbonato, il quale, pagando un «servigio», chiede che questo «servigio» venga reso nei termini dovuti.
Per il radioascolto i termini sono: accessibilità fisica, cioè acustica, e intellettiva della radiotrasmissione, chiarezza, limpidità del dettato, gradevole ritmo.
Da ciò discendono le seguenti osservazioni:

La sopportabilità massima del parlato-unito, in Italia, è di Quindici Minuti. La Voce unica e fusa erogata dal graticcio del radioapparecchio, in quanto non soccorsa dalla prestanza fisica, dalla gestizione o dall’atteggiamento di chi parla, annoia l’ascoltatore italiano dopo quindici minuti, quali che siano la forma o il contenuto dell’allocuzione. A quindici minuti di parlato corrispondono centottanta righi dattiloscritti. Nessuna conversazione da trasmettere «a una voce» può superare questo limite.

Ove si preveda una conversazione di maggior durata, bisogna costruirne il testo in modo da poterlo «dire» a due Voci, a tre voci, a più voci. Chi predispone il testo deve elaborarlo in forma di dialogo, sia ricorrendo alla dialettica domanda-risposta, sia a quella per tesi-antitesi, sia ancora (più blandamente) a una successione di fasi espressive di cui l’una consegua all’altra con un certo distacco sviluppandola e completandola. Per portare avanti il dialogo, negli scritti di carattere narrativo destinati alle stampe, è di comune impiego il verbo «soggiungere»: «ne sarà felice!», soggiunse Teresa. Il parlato radiofonico a due o più voci può risultare da una consecuzione di momenti espressivi di cui l’uno venga idealmente «soggiunto» all’altro, a cura dell’autore. In tal modo, affidando i successivi periodi ovvero momenti espressivi a voci alterne, è possibile ottenere ascolto fino a trenta-quaranta minuti.

Un’altra soluzione del problema «durata», un accorgimento che permette, usando voci multiple e alterne, di protrarre il «conversato radio» fino a trenta-quaranta minuti senza tedio di chi ascolta, è il metodo della citazione, frammessa al discorso di chi parla. Appare ovvio che l’allocuzione al microfono, quand’anche sia sorretta e portata avanti da un solo dicitore, può tuttavia comportare adduzioni di testimonianze, esempi, modelli, prove, a sostegno o a conferma o a rincalzo dell’asserzione fatta. I passi per tal modo citati offriranno un appiglio naturale all’alternanza delle voci. Si tratterà di riferire dei giudizi altrui, dei brani di lettera, delle pagine di diario, di richiamare dei proclami, dei canti popolari, delle note diplomatiche, delle invettive, le due quartine d’un sonetto; di affidare pertanto a una diversa voce ogni tratto che risulti concettualmente e però foneticamente caratterizzato: voce per Ugo Foscolo, voce per i proclami del Bonaparte, voce per le lettere di Giuseppe Verdi, voce femminile per quelle della di lui consorte signora Giuseppina Strepponi in Verdi. Il passo citato, i versi sciolti, la confessione, la lettera, il mezzo sonetto, il diploma, il proclama, saranno detti, o letti, da una voce seconda o terza o quarta, giusta l’opportunità; la quale o le quali voci si alterneranno alla prima, cui è affidato il discorso principale, il testo dell’autore.

Nel caso tipico e in certo modo esemplare di allocuzione radiofonica da cui venga presentato un autore o un gruppo di autori (poeti, politici, scienziati, romanzieri, filosofi) con cui si intenda tratteggiare il carattere di un maestro del pensiero o dell’arte, o di una scuola filosofica, o di un ambiente, o di un’epoca della cultura, le testimonianze addotte, cioè i versi o le prose, gli espunti da diari o memorie o lettere dell’autore o degli autori di cui si discorre, devono superare in estensione il commento critico, l’esposto informativo: il quadro, in altri termini, non dev’esser sopraffatto dalla cornice. L’espositore non prevalga sulla sua vittima!: è questo il memento primo e assoluto. Oggettivo, tempestivo, parco, elegante, l’esposto è bene non oltrepassi un terzo o al massimo i due quinti della durata (del minutaggio) totale disponibile. Due terzi o al minimo tre quinti siano serbati alle testimonianze «poetiche», cioè alla erogazione diretta dell’autore, degli autori. In un omaggio a Goethe, in un ritratto di Victor Hugo, in uno studio leopardiano o dantesco, «parlino» Goethe e Victor Hugo, parlino Dante e il Leopardi per i due terzi o, al minimo, per i tre quinti del tempo. Compito del presentatore è quello di rendere, del commemorato o dei commemorati, un’immagine evidente e in quanto possibile obiettiva, non quello di insabbiarne l’effigie col polverino della propria autorità. Un eccesso di autorevolezza viene a cancellare quelle fattezze appunto alle quali si voleva conferire evidenza e risalto. Il pubblico, se pure si interessa al presentatore, vuol conoscere il presentato; vuole prosa da chi racconta, vuole versi dal poeta: testimonianze dirette.

Se accade che la conversazione abbia fonti prevalentemente bibliografiche o verta su tema dottrinale o comunque erudito, è bene dissimulare la qualità delle fonti o la natura del tema, dar corpo di più concrete ed evidenti immagini all’esposto tecnico, alla silloge astratta. Il microfono mal sopporta un’allocuzione di origine «mentale» e di timbro didattico, domanda piuttosto una recensione informativa (e sia pure acuta, nei giudizi che dalla informazione si desumano) redatta in forma chiara, spedita, elegante. Meglio se il redattore potrà studiarsi di attingere da più fonti, riuscendo l’una fonte di antidoto, o viceversa di conforto critico, all’altra.

Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrenza, potrà ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del «discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi» (Carducci) o la bronzea sintassi de «L’opera di Dante» (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la «orazione» è alquanto decaduta nel gusto del pubblico. La «orazione per la morte di Giuseppe Verdi» recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono «per la morte di Arnold Schoenberg».

Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di «persone singole», di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di «pochi intimi». Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già stati enunciati dal nome, dalla «firma». Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio Italiana invita al microfono i «grandi» e le «grandi», vale a dire i competenti.



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