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TAMARRI CUBANI


 
Se chi legge crede che il denaro sia il metro per misurare lo stato di benessere e di felicità di un popolo, gli consiglio di interrompere qui la lettura. Nessuna demonizzazione del denaro, figurarsi, ma è un’analisi molto semplice: servono cifre sul Pil, sul reddito medio e il gioco è fatto. Perseguendo invece il buon-demone, e cioè percorrendo un tratto di una prospettiva eudemonica, cerco di dire due o tre cose che so di lei. Di Cuba, intendo, paese dove vivo e lavoro.
Sta cambiando? Sembra di sì. Aperture, dialoghi, collaborazioni economiche, forti investimenti. E’ ragionevole pensare che nei prossimi decenni il popolo Cubano avrà il portafoglio più pieno e maggiori possibilità di scelta tra prodotti ed opportunità. Ora la domanda è: quando c’è più denaro c’è più felicità? Non lo so. Non in modo così automatico. Credo che il denaro possa concorrere a costruire un senso di soddisfazione, di non preoccupazione, di pace. E su questo terreno fertile credo possa attecchire qualche forma di felicità. Ma gli anni e l’esperienza mi dicono che procurarsi questa ricchezza ha un prezzo da pagare. Un prezzo che rema contro proprio a quella ricerca della felicità che si persegue.
E’ qui il nodo, a mio parere, più importante. L’iniziativa privata, la conseguente divisione in classi, chi può e chi non può, “to have and to have not” direbbe Hemingway, la tanto celebrata concorrenza, sono elementi che infiacchiscono (in Italia lo sappiamo bene, io credo) fino ad uccidere ogni tipo di rete sociale, di buona comunicazione, di senso profondo di una comunità, in una parola sola: di sensibilità umana. Questo è il modello che tanto facilmente sta facendo proseliti a Cuba, un individualismo ottuso, e dai suoi primi esordi non promette nulla di buono.
Si sta affermando rapidamente una classe di nuovi “ricchi” cafoni e ignoranti. Sono parole dure ma è giusto chiamare lo cose col proprio nome. Si sta delineando la figura del tamarro (a Roma sarebbe il coatto, altrove avrebbe altri nomi) caraibico, così tanto a tinte disperatamente forti che Antonio Cassano al confronto è un pacato signore dai gusti raffinati. Ironizzo ma parlo di un cafone senza neanche duemila anni di storia e cultura a mitigare la sua tracotanza.
In occasione della visita di Obama, un amico giornalista che veniva da New York mi diceva con sconcerto: “Alessandro, da quello che vedo, i cubani giovani sono una massa di coatti allucinanti…”. Io mi chiudevo in un silenzio meditabondo. Il Tamarro Cubano ha la sua immancabile macchinona lavata, la sua musica di riferimento, il reggaeton, che gli conferma i suoi valori e i suoi principi, il suo concetto di un femminile imbarazzante, le sue puttane, il suo cinismo, il suo rifiuto per la cultura in ogni forma. Flirta con l’America di Fast and furious, stima tale Pitbull, si mette la croce al collo perchè l’ha visto fare a un dj e sogna denaro e ancora denaro. Ah, e ovviamente ha rimosso sessant’anni di rivoluzione come fossero un incubo terrificante che complottava contro l’affermazione del suo meraviglioso ego sul pianera terra.
Ometti da nulla, si potrebbe dire, se non fossero già la maggioranza. E il tamarro cubano è felice? No, credo che nel suo caso (come in quello di tutti i tamarri del mondo) non si possa neanche parlare di felicità. Stiamo ad un livello pre-umano nel quale felicità e infelicità si attestano ad un grado di elaborazione elementare come caldo-freddo, duro-morbido, ruvido-liscio. Ecco, il grosso rischio, a mio giudizio, è che i valori della Rivoluzione Cubana vengano messi in soffitta in una manciata di mesi da questo tipo di individui.
Cuba è una paese come mille altri dell’area. Non ha nulla di particolare. Non è più bello di altri. Spiagge, architettura coloniale anche un po’ sfasciata, belle ragazze. Punto. Per me l’unico, per molti versi incredibile, elemento di discontinuità nel moto perpetuo delle chiappe delle mulatte, dei ballerini con il ritmo nel sangue, dei dittatorelli con la faccia d’ananas, dei negretti sdentati che ti lustrano le scarpe, è stata la Rivoluzione Cubana.
Nelle sue mille contraddizioni e storture ha creato generazioni colte e solidali, strade personalissime nelle arti, nella ricerca scientifica, nella ricerca di quella che, in ultima analisi, è la meta di tutti, la felicità appunto. Ha sdoganato e reso alta la cultura negra, di per sè cultura della schiavitù, dell’animismo e della superstizione. Una cultura che senza la rivoluzione torna ad essere la zucca di Cenerentola senza la fatina. Ha integrato masse di esclusi, le ha istruite e le ha fatte sedere al grande tavolo della cosa comune per la firma del contratto sociale.
Ecco, tutto questo terrorizza il grande tamarro cubano, tutto questo è vissuto come un grande ostacolo alla realizzazione individuale dal grande tamarro cubano. Per lui chi studia è un coglione (mi ricorda qualcosa…), chi vuole fare le cose per bene, senza bustarelle e commissioni e pagando le tasse è un coglione (mi ricorda ancora qualcosa…), per lui chi dice timidamente che Fast and furious è immondizia è un coglione, retrogrado e conservatore. Bene. Credo (temo) che il giovane cubano nei prossimi anni avrà più soldi nel portafoglio ma li spenderà tutti per assicurarsi il cofanetto completo di Pitbull o la crema che promette di sterminare la cellulite di un intero quartiere e sarà roso dal sospetto costante di aver perso qualcosa per strada, forse le chiavi di casa, o forse qualcosa di più importante che proprio non riesce a ricordare.
Di: Alessandro Zarlatti
Con Alessandro, autore del blog IL BELLO DELL’AVANA capita ogni tanto di condividere qualche pensiero via mail o messaggio.
Leggo il suo blog, lui legge il mio.
Lui e’ uno scrittore a tutto tondo, io un’umile scriba che condivide il 10% della sua vita, soprattutto quella cubana, con chi ha il piacere di leggere.
Alessandro vive e lavora nella capitale di tutti i cubani e questo, gia’ di per se provoca un leggero moto d’invidia.
La sua analisi e’ in gran parte condivisibile.
La felicita’, in questo tipo di mondo, si conquista se hai la possibilita’ di disporre di mezzi.
I mezzi o li hai ereditati oppure te li devi guadagnare lavorando.
Se per l’ottenere certe condizioni di vita devi lavorare 14 ore al giorno, allora mi chiedo dove sia finita la felicita’.
Lavoriamo per avere cose che, quasi sempre, non abbiamo il tempo di goderci.
Questo aspetta i cubani nel prossimo futuro.
Tamarro e’ una definizione italiana, forse romana.
Si tende spesso ad identificare un certo tipo di personaggio dal suo luogo di provenienza, ma 30 anni in giro per il mondo mi hanno insegnato che questa e’ una mera cazzata.
Ho conosciuto, in Italia e a Cuba, tamarri bergamaschi come siciliani, piemontesi come calabresi.
Li ho visti in giro con la loro faccia da culo e la maglietta di 3 taglie piu’ piccola del necessario, per aeroporti, discoteche, piazze, locali ecc….
E’ chiaro che questa nuova generazione di tamarri cubani deve avere avuto delle fonti di ispirazione.
Probabilmente noi italiani e un certo tipo di cubano americani.
Alessandro teme i che i valori della Rivoluzione vengano messi in soffitta in pochi mesi a causa anche dell'atteggiamento di simili personaggi.
Ma se bastano 4 idioti a mettere in soffitta quei valori….quanto valgono davvero quei valori stessi?
La Rivoluzione, purtroppo, non ha saputo parlare alle nuove generazioni, si e’ intestardita sulla sua matrice ideologica senza evolversi verso il mondo che tutto intorno stava cambiando.
Chiaro che ora esiste il pericolo concreto che tutto salti in aria, che il tamarro cubano sia l’abitante dell’isola del futuro.
Il cubano quando e’ in Italia raramente prende come riferimento i modelli positivi, finendo per sommare le negativita’ dei due popoli, esattamente come accade con l’italiano che vive a Cuba.
Quello che perderanno, oltre alla dignita’ di un popolo, lo scopriranno soltanto anni dopo, quando finira’ questa sbornia di modernismo che e’ stata loro, ingiustamente, vietata per decenni.
Allora forse si ricorderanno che in una certa Rivoluzione non tutto era da buttare e che a volte IO deve essere sostituito da NOI, come avviene nei paesi che hanno la vera coscienza di essere una nazione.
Comunque lo scopriremo solo vivendo.


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