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IL FUTURO


ALESSANDRO ZARLATTI 
IL BELLO DELL'AVANA
Parlavo ieri con Alessio, un amico che vive qui all'Avana da molti anni, e ci scambiavamo impressioni e paure sulla situazione. Cuba ha chiuso le frontiere ed era quello che doveva fare, ora non ci resta che attendere. Attendere. Questo soltanto dobbiamo fare adesso: aspettare. Mi diceva "perchè non scrivi qualcosa su questa attesa?", io gli rispondevo che ero parecchio scoglionato, che non ne avevo voglia. Stamattina continuo a non averla la voglia. Ma ci penso all'attesa.
È la dimensione in cui siamo calati tutti, ad ogni latitudine, e non siamo abituati, non ci piace, non mi piace. Carambolati in pochi giorni dall'allucinazione del prendere, dell'afferrare, dal sacrosanto diritto a fare del mondo il territorio della nostra volontà (e rappresentazione), alla posizione difficile del ricevere, del dipendere, della nostra sovranità sospesa e nelle mani degli altri. Gli altri. Quelli che non si lavano le mani. Quelli che non si mettono a due metri di distanza. Quelli che tossiscono. Quelli che non prendono provvedimenti. Quelli che se ne fregano. Gli altri. Noi stessi. Tutti ad aspettare. In questo sistema complesso che mostra tutta l'idiozia di una visione causa-effetto delle cose dell'esistenza. Quando tutto c'insegna che siamo rapporti circolari, interdipendenza. Nient'altro. Odio l'attesa. Il mio ego, quella specie di bossetto della camorra che ognuno di noi si è visto crescere dentro, quello che vede nelle regole, nell'idea di sistema, un attentato alla propria espressione, lotta da sempre contro le attese. Mantra inossidabili come "mai mettersi nelle mani degli altri", "mai imbavagliare quel Leonardo da Vinci che abbiamo dentro" ci attraversano in ogni momento, in ogni frangente, nel lavoro, nell'arte, nei rapporti, nell'amore. Il fastidio sempre rifuggito di essere nelle mani dell'altro, di ciò che non dipende da noi: da un governo, da una malattia, da una selezione. Il mio bossetto ha sempre odiato le file. Mia moglie è disperata quando faccio il giro della città per trovare il negozio senza code, i pagamenti del telefono la domenica pomeriggio, le spiagge adiacenti ad una marana per non trovare la gente, i rientri intelligenti all'alba. Finisce che compro il solito pacchetto di würstel del 1972, che mi immergo nelle cloache, che impicco intere giornate di sole sul patibolo della mia libertà. Mi sembra che sia proprio lì che si giochi questa partita del coronavirus. Mi sembra che sia proprio questa la malattia, il veleno e il vaccino che stiamo scoprendo oggi, ognuno nel proprio laboratorio personale. L'allucinazione dell'io e la realtà delle cose. Siamo costretti dall'attesa a vedere e rivedere e poi rivedere ancora la fragilità della separazione, la stupidità della separazione. Se non altro, questa epidemia ha la forza di uno schiaffone a freddo ai nostri ego che volevano conquistare il mondo. Ognuno il proprio mondo. È un genitore d'altri tempi che ci rimette a sedere, che ci fa capire che a tavola ci sono anche gli altri, che la carne è per tutti. Che bisogna aspettare. Che siamo gli altri. Che senza gli altri non dureremmo neanche un secondo. Che ci fa capire il fraintendimento supremo che essere liberi non è fare quel cazzo che ci pare. Che quella non è libertà ma malattia, è fascismo, è un io, in ultima analisi, minuscolo che soffre, che esercita violenza, violenza radicale su quello che crede essere altro da sè.
Aspettiamo, aspetto, scoglionato, nel mio mondo sospeso, nel viaggio che ho rimandato a data da destinarsi, nei miei libri in pubblicazione che usciranno finita la guerra, nella mia voglia ricacciata dentro di un weekend chissà dove, nelle mie bevute. Aspetto. In questo mondo strano che sullo sfondo, nelle lucine ancora impercettibili che intravedo dall'altra parte del mare, dopo le tragedie che ci scorreranno accanto, appare più bello. Mi piace pensarlo diverso oltre le montagne, come le macchie degli uccelli che d'inverno disegnano geometrie meravigliose nei cieli di Roma, la bellezza di una sincronia di quel milione di esseri che da soli certe opere d'arte non potrebbero neanche immaginarle. Mi piace pensarci diversi dopo questa attesa, dopo questa tragedia, innamorati di nuovo di questo gigantesco "noi" in cui riscoprirci belli.
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Credo che uno dei fattori piu' importanti citati da Alessandro sia quello, assolutamente reale, della perdita della nostra sovranita' personale che e' oggi sospesa nelle mani di altri.
Siamo cresciuti convinti, piu' o meno, di poter fare quello che volevamo senza che nessuno ci dovesse mettere limiti e paletti che non fossero legislativi, a volte neanche quelli.
Oggi invece siamo appesi al prossimo decreto, manteniamo diligentemente le distanze sociali, ci laviamo le mani 20 volte al giorno perche' cosi' ci hanno detto di fare e via dicendo.
Aspettiamo che tutto passi.
Convinti come siamo che ognuno di noi fosse il ducetto di se stesso, che potesse fare tutto cio' di cui aveva la reverenda gana, che gli altri fossero solo uno strumento per raggiungere i nostri scopi, ora ci troviamo costretti ad aggrapparsi agli altri...restandone lontani.
Aggrapparsi ai medici che fino a 2 mesi fa prendevano botte nei pronto soccorso perche' il coglione di turno riteneva che la fidanzata non fosse stata ben curata.
Aggrapparsi agli scienziati che ci sono sempre apparsi come alieni che vivono in un mondo lontano e che ora ci ritroviamo in tv a spiegarci cosa succede 20 ore al giorno.
Aggrappati ai politici, gli stessi di cui non abbiamo mai avuto alcuna fiducia, in attesa che ci comunichino quando e se usciremo da questo incubo.
Aggrappati agli altri, quegli altri che abbiamo messo sempre un paio di gradini sotto noi stessi e che ora, si spera con un briciolo di cervello, non facciano minchiate che potrebbero mettere in rischio la nostra salute.
Aggrappati ai supermercati nella speranza che siano sempre aperti e ben riforniti e magari non con una coda all'entrata di un centinaio di persone.
Perlomeno stiamo riscoprendo quanto ci possono mancare le altre persone, non dico solo la famiglia ma gli amici, anche quelli di cui pensavamo tranquillamente di potere fare a meno.
Scopriamo, come dice l'autore, che ci sono anche gli altri, che essere soli e' bello se e' una nostra scelta, non un imposizione di un governo, un politico, un medico, uno scienziato o un maledetto virus.
E' tutto fermo e siamo tutti sospesi in uno spazio che non conosciamo e a cui non siamo abituati.
Il prossimo viaggio, la prossima palestra, la prossima serata di animazione in villaggio, la prossima partita del Villans, la prossima cena con gli amici di sempre.
Per chi, come molti di noi, ha nel cuore la maggiore delle Antille scoprire che, contrariamente a quello che pensavamo, nulla e' scontato neanche il prossimo viaggio di cui avevamo gia' il biglietto aereo in tasca e che dovremo giocoforza rimandare, come e' accaduto al vostro umile scriba.
Scoprire che poi non e' neanche detto che questo viaggio avverra' in tempi brevi, vista la situazione del mondo, dell'Italia e di Cuba, per la prima volta ti imbatti nell'assoluta impossibilita' di programmare qualunque cosa, qualunque viaggio.
Pero' quel momento, prima o dopo arrivera', dobbiamo soltanto avere pazienza e nel frattempo cercare di campare meglio possibile che, di questi tempi, e' tanta roba.



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