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Silenzio

Silenzio

Sto invecchiando… ormai non ci sono più dubbi.

Come l’anno scorso, la mia vacanza è stata di Silenzio e relax, quanto più possibile lontano dal caos, dalle serate “trendy” e dalle forme di divertimento (nell’accezione più comune).
Amunì, lo so, sono noioso, ma l’ho detto che sto invecchiando!

Ho avuto modo di riflettere su tutto ciò che non mi è permesso durante l’anno.
Sono tornati i ricordi. In queste due settimane, ho pensato a mio padre, che è venuto a mancare nel 2008, ma con il quale non ho mai smesso di dialogare, sentendolo più vicino in alcuni momenti e in alcuni luoghi, ma soprattutto nel silenzio (Pippo potrà capire al volo!).

Mi piace stare in silenzio.
I momenti di totale ed esclusiva comunione con noi stessi nutrono l’anima. Le parole e i momenti in cui queste mancano coscientemente, i momenti di silenzio consapevole, sono particolarmente importanti per me.

Ma al silenzio si arriva spesso, dopo averne gestito la paura della solitudine, del vuoto e del trovarsi di fronte sè stessi.

Ho cercato l’etimologia della parola “silenzio” ed ho trovato un po’ di tutto.
Non sono un esperto, quindi, “ammuino” e riporto la versione che mi piace di più, anzi ne uso due insieme.
La parola “silenzio”, secondo alcuni, risalirebbe al termine exilium. Quindi il silenzio è inteso come un esilio volontario nella nostra stessa coscienza.
Secondo un’altra interpretazione, il termine “silenzio” ha una radice onomatopeica (ssss è il suono che facciamo per creare silenzio; che ‘significa’ con chiarezza, senza bisogno di parole) e dall’altro una radice indoeuropea, si-, che indica, appunto, il legame.
Insomma, il silenzio è esilio in me stesso, assenza di distrazioni, e strumento per creare un legame con ciò che per me è importante.

In questo silenzio, ho ricordato che ci sono stati dei dialoghi, delle conversazioni nella mia vita che la hanno cambiata e mi hanno trasformato. Sono stati dialoghi con persone che considero guide spirituali e professionali o amiche a me particolarmente vicine, ma anche con persone che (nel bene e nel male) hanno inciso nella vita in maniera determinate (perchè grazie, malgrado o a causa loro, ho preso decisioni e ho voluto/dovuto cambiare la mia vita).

Non possiamo negare che la maggior parte delle nostre felicità e delle nostre sofferenze è legata a chi ci sta attorno; tutti loro (genitori, amici, guide professionali e spirituali, gente buona e meno buona, chi mi ha aiutato e chi mi ha ferito) sono riusciti a lasciarmi qualcosa, compreso il dolore. Ho letto da qualche parte che l’essere umano è prezioso e sacro anche grazie alla sofferenza.

Nel silenzio ho ripensato a come tutto è iniziato.

Alcune persone sono nate con l’idea di Fare l’imprenditore. Beh, io non ero una di queste.

Da piccolo volevo fare il medico (meglio, volevo farlo dopo gli otto anni, prima volevo fare lo stesso lavoro di mio padre e prima ancora credo volessi fare il supereroe – era il periodo di Goldrake, Capitan Harlock e company).
In realtà l’idea di fare qualcosa di mio non mi ha mai sfiorato fino all’università.
Erano gli anni in cui si iniziava a parlare di fare impresa come di qualcosa alla portata, un’alternativa al lavoro dipendente.
Erano i primi anni del berlusconismo e sembrava che tutto ciò che venisse dal mondo imprenditoriale fosse migliore del lavoro dipendente dei nostri padri.
Erano anche gli anni in cui capivo che mio padre aveva sacrificato tutto (anche importanti momenti con i figli) per il suo lavoro, ma in cui iniziavano a saltare anche le regole minime di rispetto reciproco. Era finita un’epoca, c’era Manipulite e tutto veniva rimesso in discussione, con ciò anche l’onore, il rispetto, la riconoscenza e tutti quei valori che hanno permesso all’Italia di crescere nel dopoguerra (poi dimenticati tra gli anni ’80 e ’90).

Non ho mai pensato però di iniziare da zero, senza nessuna preparazione, per questo ho deciso, dopo la laurea, di lavorare per delle multinazionali. Dopo alcuni mesi, in un’officina scozzese (di una multinazionale giapponese) che lavorava raccordi per tubi di profondità e una breve parentesi in una software House a Palermo, ho iniziato dalla linea di produzione dei pannolini Lines, lavorando a fianco agli operai. É stato uno dei periodi più duri e belli, perché ho capito che senza aver provato prima a fare una cosa con le tue mani, non puoi essere credibile se chiedi agli altri di farlo per te.

Dopo aver capito che la vita di stabilimento di produzione mi piaceva ma non era la mia, scelsi una strategia precisa: lavorare in consulenza, imparare il mestiere per porre le basi della mia attività. Volevo entrare in contatto con quanti più settori possibile e affrontare quanti più problemi possibile. É quello che ho fatto e, in questo percorso, l’incontro con alcune guide professionali è stato fondamentale.

Poi sono venuti gli anni delle “dotcom” quando fare l’imprenditore era ancora più figo (ancora non si diceva startup!) e potenzialmente remunerativo. Non posso negare che se non avessi avuto per “paracadute” un contratto di consulenza biennale con una grossa multinazionale forse sarei ancora lì a pensare e farei il dipendente. 

Tra le persone che hanno influenzato la mia vita professionale, un giorno, una mi parlò dell’incubatore di impresa dell’Università di Palermo, il Consorzio Arca. Da lì è iniziato tutto, quasi per scherzo.

In questi giorni di silenzio, credo che la cosa più importante che mio padre e la mia famiglia mi abbiano trasmesso sia stata la consapevolezza di dover scegliere il mio percorso di vita, tutto sommato, permettendomi di fare i miei colossali errori (non sto dicendo che lo abbiano fatto in silenzio…). Forse non avrei avviato la libera professione prima e un’azienda dopo se, anche senza un supporto esplicito, non mi avessero spinto a ragionare sulle implicazioni in modo razionale e responsabile.

Non ho figli e, molto probabilmente, non ne avrò, ma se dovessi averne li spingerò a fare i supereroi, molto probabilmente stile Capital Harlock (era troppo figo…).

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