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Arroganza e futuro delle startup

Vi va di parlare di modelli di riferimento? 

Lo so, lo so, per adesso fare Startup è “cool”. Ogni giorno si legge di ventenni (in Silicon Valley, vabbè ma è un dettaglio) che fanno milioni di dollari e vanno a vivere vite da sogno mentre si preparano alla prossima startup di successo. Poi non parliamo di serie televisive stile Silicon Valley o (appena uscita in UK) Startup. E’ ovvio che ogni ventenne vuole essere uno di loro! Noi aspiravamo a fare le rock star (in base ai gusti da Simon Le Bon a Eric Clapton), oggi vogliono essere tutti Steve Jobs. I tempi cambiano.

Però, mi preme darvi una notizia: una startup è semplicemente un’impresa. Il successo di un’impresa si vede nel lungo periodo anzi, come si dice in siciliano “nun ludari la jurnata si nun scura la sirata” (traduzione: non lodare la giornata se non è passata la serata). Ecco forse, nell’ultimo periodo, nel mondo delle startup ci stiamo lodando tutti un po’ troppo di giorno e la serata non è ancora passata.

Vogliamo provare a ricordare un po’ di storia?
Fare quello che oggi chiamiamo startup è esattamente ciò che hanno fatto i nostri nonni nel dopoguerra, con la differenza che allora si era in piena ricostruzione e con significative carenze di risorse (dal cibo in poi (*)), o ciò che molti immigranti hanno fatto in molte parti del mondo.
Hanno semplicemente avviato un’iniziativa imprenditoriale per vivere.

Allora questo non era “cool”, era desiderio di emergere, di creare un futuro per sè, per la famiglia e per la collettività.

Non vorrei innescare facili delusioni, ma vorrei ricordare che quelli furono gli anni di un vero miracolo, perchè portarono un paese che nel 1951 si presentava ancora profondamente contadino ad essere leader industriale solo dieci anni dopo. Seguì poi il “miracolo economico”. L’Italia riuscì a raggiungere tre obiettivi, che in futuro risultarono sempre incompatibili: investimenti produttivi elevati, stabilità monetaria, equilibrio della bilancia dei pagamenti. Fu quindi possibile una rapida industrializzazione senza inflazione e senza disavanzi nei conti con l’estero. Nel contempo, il problema della disoccupazione trovò una drammatica soluzione alternativa: quella dell’emigrazione, soprattutto verso i paesi europei. Il capitalismo italiano poteva dedicarsi all’investimento intensivo nel settore industriale, sviluppare le esportazioni, inserire l’economia nazionale nel contesto europeo.

Vero, il mondo è cambiato, ma se gli startupper delle migliaia di startup e PMI innovative fossimo lontanamente all’altezza di quegli imprenditori, l’Italia sarebbe fuori dalla crisi e in crescita verticale.

Dovremmo ricordare che il secondo dopoguerra fu un periodo di grande fermento imprenditoriale. Si visse la nuova stagione di libertà come occasione per sviluppare progetti d’impresa che il precedente regime aveva soffocato con la politica autarchica e il favore alle grandi concentrazioni capitalistiche. Si trattava di una nuova «classe» di imprenditori: meno d’élite, meno istruiti di quelli di oggi e all’apparenza meno «adatti» a perseguire iniziative importanti, ma che nondimeno fondarono e allevarono imprese di ogni dimensione mossi dal desiderio di uscire dalla povertà: “un enorme desiderio di fare, una fortissima volontà di emergere trasformarono molti di noi in uomini di attivismo frenetico. […] In poco tempo il nostro paese fu capace di battere la miseria secolare”.

Non li avremmo chiamati oggi “startupper“?

Quindi, beddi, quello che stiamo facendo oggi non è nemmeno un decimo di ciò che fecero i nostri nonni, non è “cool”, non è glamour e soprattutto non è un pass per l’arroganza.
Non è nulla di così speciale.

C’è però una sostanziale differenza. Mentre per i nostri nonni, la parola “disruption” avrebbe significato “rendere il mondo un posto migliore, mettere in condizioni il paese di battere la miseria”, oggi la stessa parola assume un significato quasi minaccioso per settori tradizionali, fortemente orientato alla realizzazione finanziaria prima che al bene collettivo.
In Italia, forse più che altrove, temo Che Stiamo Perdendo un’occasione per il Paese e soprattutto che stiamo perdendo la bussola nei processi di innovazione e crescita.

Non mi sento di dire che la startup sia la più alta forma di business (anche se questa affermazione temo sia impopolare in questo momento storico), nè che l’ìinnovazione possa solo venire da queste organizzazioni. Avere un app (o l’idea di un’app), una piattaforma digitale non ci rende migliori di una azienda di consulenza o di un produttore di bicchieri o da un’azienda di pompe funebri o del ristorante di Peppe. Queste sono aziende che hanno un loro business model, producono soldi, lo fanno con continuità e danno lavoro.
Sono meglio di molti di noi, perchè hanno un ruolo attivo nella crescita del paese.
Vogliono continuare a crescere e prosperare, non fare la exit.

Ogni business è degno di questo nome se produce profitti e dà lavoro, ma aggiungo (nella mia personalissima visione) se ha anche un ruolo sociale.

Il resto sono chiacchere da manifestazioni per startupper, contest e hackaton.

Se non siamo in grado di rispettare il lavoro delle persone (non solo quello degli startupper), se il fondatore di un’impresa non è capace di riconoscere e rispettare un operaio, uno sviluppatore, un collaboratore, un fornitore allora mi auguro che quell’impresa non abbia un vero futuro, soprattutto perchè i migliori collaboratori andranno via e non riuscirà mai ad avere un ruolo sociale.

Il mondo non ruota attorno alle startup, abbiamo bisogno di imprese di grandi dimensioni a cui vendere, con dipendenti veri, con ricercatori, ma ci servono anche (se non soprattutto) gli insegnanti, gli artisti, gli scrittori, i musicisti. L’avere avuto un’idea o l’aver creato un’impresa non ci rende migliori di altre categorie, con cui dovremmo confrontarci per arricchirci ed essere in grado di pensare in modo “disruptive”, ma soprattutto per mantenere il contatto con la realtà.

Dobbiamo ammettere che abbiamo un bel problema di “overconfidence” o direi meglio di arroganza verso ciò che non appartiene all’ecosistema e che rende tutto ciò non produttivo e non funzionale alla crescita collettiva. Abbiamo perso l’umiltà e la curiosità che avevano i nostri nonni che hanno ricostruito il Paese. Non siamo in grado di capire cosa vogliono i nostri clienti e i nostri dipendenti, perchè non li ascoltiamo nemmeno più.

PS: A proposito di modelli, oggi è morto Fidel Castro. La giornata non è iniziata al meglio, perchè, vi sembrero’ anacronistico, ma tutto sommato sono cresciuto con dei modelli, che giusti o sbagliati erano modelli a cui fare riferimento. Oggi fatico a trovarne e mi chiedo quali siano quelli dei nostri ventenni.

(*) Per chi non lo sapesse, l’economia italiana usciva dalla guerra dissanguata sotto molti punti di vista.
La rete dei trasporti e delle comunicazioni, in particolare, era ridotta in condizioni catastrofiche, anche a causa della scarsa manutenzione e del transito dei mezzi militari di ambedue i belligeranti; quasi il 25% dei binari ferroviari ed il 10% dei ponti erano fuori uso, come il 60% delle locomotive, il 70% delle carrozze passeggeri e dei carri-merci, senza contare i danni a stazioni ed impianti sussidiari.

Non andava meglio nel campo del trasporto urbano, dove si registravano perdite nell’ordine del 20% dei mezzi. Quasi scomparsi, invece, i servizi automobilistici extra-urbani.

Distrutti, o comunque inservibili, risultarono più di tre un milione di vani d’abitazione, 3000 grandi ponti o viadotti, il 40% delle aule scolastiche, il 20% della dotazione ospedaliera, il 50% delle banchine e dei moli, 11.000 edifici di culto.

La marina mercantile, inoltre, aveva perduto l’80% circa del proprio tonnellaggio – che nel 1941 aveva toccato i 3 milioni di stazza lorda -, e il traffico marittimo era in effetti pressoché nullo.

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