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C’era una volta la biodiversità: la badduta, lu spinapuci, la giummara

La pianta di Quercius spinosa, “badduta” nel nostro dialetto, unitamente a mortella, lentisco, timo, biancospino – “spinapuci”, palma nana – “giummara”, asparago e nepitella, formavano una vasta zona di macchia mediterranea lungo la fascia costiera del nostro territorio ed offrivano un unicum di biodiversità, che fungeva anche da rifugio a diverse specie di animali selvatici, ospitando una moltitudine di insetti utili. Tale habitat sprigionava intriganti odori, specialmente in fioritura, e creava cangianti tinte di colori di fantasmagorica bellezza, come solo madre natura può creare nel suo esclusivo atelier. 

Da tempo, tutto questo ha lasciato spazio a una pianta donata da Atena ai Greci, l’ulivo, che domina la scena a perdita d’occhio, creando una incontrastata monocoltura e un paesaggio monocromatico. Tale tipologia di produzione agricola, sicuramente remunerativa, impegnando i nostri agricoltori in pratiche innovative e intensive, ricorre all’impiego di fitofarmaci in modo sconsiderato, non mirato e a calendario e fa uso massivo di erbicidi al glifosato che avvelenano aria e suolo, arrecando in tal modo grave danno e degrado all’ecosistema. A causa di ciò, oggi, nei campi non volano più le bottinatrici, ora frequentano balconi fioriti e ville cittadine; i bombi non covano più le loro uova, hanno perso il loro ambiente naturale; l’ospitone non depone più le uova sulla ferula; la presenza della lucertola muraiola è in netto declino e i ramarri sono quasi estinti. 

Delle piante, che formavano la meravigliosa macchia mediterranea, oggi se ne contano Rari Esemplari, relegati in piccole e circoscritte zone, come la pietraia di Contrada Campana-Porcheria e Macchia del Lupo, nonché all’interno del Parco delle Cave di Cusa. Del biancospino, una volta abbondantemente presente, dal cui duro legno “mastru Jacu Turtuluni” – Giacomo Lentini – ricavava una grande varietà di trottole – “strummali” – da noi picciotti usate in interminabili partite, se ne conta un esemplare addossato a un vecchio casello delle FF.SS in contrada Buttafuoco. La pianta dal pelosetto stelo, adornato da verdi e brillanti foglie di papavero, “Papaver rhoeas”, mitologicamente legata a Morfeo, dalla cui sommità nasceva un’inflorescenza, da noi detta spaparinata, dai larghi petali rossi con un cuore nero, non vegeta in campo largo perché se ne possono ammirare rari esemplari vicino a muretti o a casolari diroccati.  

Molti di questi doni di Madre Natura oggi non ci sono più, sebbene in passato abbiano rivestito un ruolo di grande importanza, contribuendo talvolta anche alla sopravvivenza, come è successo nel caso della “badduta”. Le persone più longeve, infatti, ricordano ancora i tempi bui e tristi attraversati durante l’ultimo evento bellico, che fame e lutti ha portato all’italica gente, quando si moriva per spari di quel moschetto che rimava con fascista (im)perfetto e per le bombe che cadevano dal cielo. La vita era a rischio anche per procurarsi qualche “munneddu” di farina di grano e/o di orzo che, miscelata con quella ricavata dalle ghiande – “agghiannari” – della badduta, essiccate in forno e triturate con la pietra di mola, serviva a impastare un pane che tante bocche innocenti ha sfamato.  

Nella ricorrenza del 22 maggio, giornata della biodiversità, ricordiamoci di tutelare la straordinaria varietà di forme di vita del Pianeta Blu, conserviamo la nostra casa, la nostra vita e quella di quelli che verranno.

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