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«Perché non sono andato a votare e perché non sono una “bestia ignorante”»

Francesco Saverio Calcara
foto. Polizzi

Siamo alle solite: prima tutti ci diciamo democratici, poi, quando il risultato di un voto non ci piace, via con gli insulti sulla gente che fa schifo, che non capisce niente, ecc. ecc.

Per quanto mi riguarda, la mia decisione di non andare a votare è scaturita dalla lettura del quesito che concerneva un fatto puramente tecnico e non ci azzeccava niente con tutta la propaganda di un certo ambientalismo radicale, che ha fatto leva sull’emotività e sugli slogan di bassa lega (impagabile quel “Trivella tua sorella”, di vago sentore maschilista) che nulla, ma proprio nulla, avevano a che spartire col quesito referendario.

La decisione di astenermi dal voto, con buona pace di tutto il coro degli “indignati”, è perfettamente legittima, trovando la sua ratio nell’art. 75 della Costituzione. Infatti, nel caso del Referendum abrogativo, anche l’astensione è una espressione di volontà.

Se per questo tipo di referendum i costituenti hanno previsto un quorum da raggiungere, è chiaro che quel “non-voto” ha un peso determinante: influisce (in maniera del tutto legittima) a non far raggiungere il quorum, indebolendo, anzi annullando, il referendum abrogativo stesso. Dunque l’astensione dal voto è un modo per esprimere una certa volontà. Inoltre, se volessimo aggiungere un’argomentazione più “civica”, potremmo sottolineare come la chiamata al voto, nel referendum abrogativo, arrivi soltanto da una parte del corpo elettorale (non dalla Repubblica, come nel caso Delle votazioni politiche, di cui all’art. 48) e il non-voto non metterebbe di certo in questione la qualità della vita democratica.

Entrando poi nel merito del quesito, lasciando stare le motivazioni occupazionali (in caso di vittoria del Sì, circa settemila lavoratori impiegati nel settore avrebbero perso il posto di lavoro) e le motivazioni economiche (dismettere gli Impianti prima del tempo significa chiaramente un costo enorme per le spese di ammortamento, perché vuol dire non usare quell’impianto per l’intera vita operativa per cui era stato progettato), voglio discutere di seguito i motivi per cui non andare a votare per non fare raggiungere il quorum, previsto dal detto art. 75 della Costituzione, mi è sembrata la soluzione più “sostenibile.

In tal senso, mi hanno convinto le motivazioni della geologa Michela Costa, che di seguito riassumo:

1) Lo stop che prevedeva il referendum riguardava più il gas metano che il petrolio. In Italia il petrolio, l’oggetto più demonizzato dalle campagne “No-Triv”, viene estratto per la maggior parte a terra e non in mare. Gli impianti che erano oggetto del referendum estraggono fondamentalmente metano, che, sebbene fossile, è una fonte di gran lunga meno dannosa del petrolio e ancora per molti versi insostituibile (attualmente il 54% dell’offerta energetica mondiale). Nella pagina del sito dell’Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse, vi è l’elenco completo delle piattaforme oggetto del referendum (quelle entro i limiti delle 12 miglia), la profondità del fondale (dato spesso sottovalutato, ma molto importante) e il tipo di combustibile estratto. Nonostante Greenpeace si sia fatta portavoce di immagini con ragazzi in costume da bagno ricoperti di catrame e poveri pennuti starnazzanti nel petrolio, scorrere velocemente l’elenco degli impianti farà capire brevemente come la percentuale di impianti a GAS sia in netta maggioranza rispetto a quelli a OLIO. Questo si traduce con una sola frase: Siamo disinformati e pronti ad abboccare a qualsiasi cosa, basta che sia green.

2) la vittoria del Sì avrebbe portato comunque alla costruzione di altri impianti. La costruzione di piattaforme entro le 12 miglia è vietata per legge dal 2006 (comma 17 dell’art. 6 del D.Lgs 152/06) e su questo possiamo stare sereni. La vittoria del Sì non avrebbe potuto, però, impedire alle compagnie di spostarsi e costruire nuovi impianti poco oltre questo limite. Praticamente con il Sì si sarebbe detto alle compagnie: “Sentite, anche se avete ancora un botto di gas da estrarre in questo giacimento, chiudete tutti i rubinetti e spostatevi più lontano oppure andatevene in un altro paese”. Il Sì, avrebbe significato questo, ridotto ai minimi termini. La compagnia allora avrebbe potuto scegliere se non cambiare stessa spiaggia stesso mare, dismettere l’impianto entro le 12 miglia e farne, per esempio, uno nuovo a 12,5 miglia (li dove nessuno potrà lamentarsi di nulla), oppure andare a cercare giacimenti altrove, sulla terraferma o in altri paesi. Ma inevitabilmente, altri impianti saranno costruiti e altri saranno potenziati, per sopperire al fabbisogno energetico. Se vietiamo l’utilizzo degli impianti esistenti, da qualche altra parte questo gas dovremo andarlo a prendere, no?

3) La vittoria del Sì non avrebbe scongiurato alcun rischio ambientale, anzi, avrebbe contribuito ad aumentare l’export petrolifero e quindi anche l’inquinamento. Ora, immaginiamoci un disastro ambientale, un grave incidente a una piattaforma petrolifera posizionata “correttamente” e cioè oltre il limite delle 12 miglia. Pensate davvero che un miglio, 5 miglia o anche 20 miglia possano fare la differenza? Sarebbe comunque una catastrofe e nessun vascello di Greenpeace o panda del WWF potrebbe correre avanti e indietro e fare da barricata all’avanzare del petrolio verso le coste. In più, lo stop delle piattaforme esistenti si tradurrebbe in un maggiore traffico di petroliere che vanno a spasso per i nostri mari per portarci i combustibili che noi abbiamo deciso di non estrarre più, ma di cui avremo ancora bisogno. Petroliere alimentate a petrolio, che trasportano petrolio e che possono esplodere o essere soggette a perdite e sversamenti. Senza dimenticarci che, sempre in Adriatico, anche la Croazia e la Grecia trivellano e, in futuro, avrebbero potuto attingere ai giacimenti che l’Italia avrebbe abbandonato in caso di vittoria del Sì. Insomma, a livello di rischio ambientale non cambia proprio nulla.

4) La vittoria del Sì non si sarebbe tradotta in una politica immediata a favore delle energie rinnovabili che a conti fatti da sole non possono ancora bastare. Cosa vi aspettavate, che all’indomani della cessazione delle attività nelle piattaforme, l’Italia magicamente si sarebbe sostenuta solo con le rinnovabili? Siamo d’accordo che l’utilizzo dei combustibili fossili non è una pratica sostenibile. Ma appunto per questo bisognerebbe puntare non alla costruzione di altri impianti, bensì allo sfruttamento residuo di quelli già esistenti che devono fare da supporto alle energie rinnovabili sempre più in crescita ma non ancora autonome. In un futuro (credo ancora troppo lontano) si auspica l’utilizzo esclusivo di energie rinnovabili, ma ciò deve essere fatto un passo alla volta, con la consapevolezza che un periodo di “transizione” è fisiologico e l’utilizzo delle fonti fossili, soprattutto del gas, ci dovrà accompagnare in questo passaggio. In poche parole, se togliamo il gas e il petrolio dobbiamo essere in grado di sostenere subito “la baracca” in un altro modo altrettanto efficiente. Le stesse Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e WWF hanno detto: “quello che serve per difendere una volta per tutte i nostri mari è il rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa e una moratoria di tutte le attività di trivellazione a mare e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale volto alla protezione del clima e rispettoso dei territori e dei mari italiani”. Ok, siamo d’accordo, ma nel frattempo che definiamo il Piano energetico, l’Italia come vivrà?

5) Il referendum era uno strumento inadeguato, faceva leva sulla disinformazione dei cittadini e sulla cattiva immagine che una trivella ha nell’immaginario comune. Non è un referendum lo strumento più adatto per risolvere un tema così complesso e così tecnico. O meglio, potrebbe esserlo se fossimo tutti degli esperti di coltivazione d’idrocarburi, ma non lo siamo. Trivellare non vuol dire necessariamente essere contro le politiche green, anzi, la normativa di settore è piuttosto severa e restrittiva nei confronti delle concessioni e degli adempimenti a cui le compagnie devono prestare attenzione.

6) Non è vero che la presenza degli impianti abbia ostacolato il turismo… Se così fosse, il litorale romagnolo (dove ci sono il maggior numero di impianti) non registrerebbe ogni stagione i flussi turistici che sono invece ben noti. Così anche la Basilicata. In poche parole il turista da peso ad altre cose, e non alla presenza delle piattaforme.

7) …e non è vero neanche che l’estrazione di combustibili dal sottosuolo può innescare terremoti come quello avvenuto anni fa in Emilia.

8) La vittoria del Sì avrebbe contribuito allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo. Dal momento che nel giro di qualche anno verranno dismesse le nostre piattaforme e che il passaggio verso le rinnovabili è ancora qualcosa di molto lento, la vita continua e noi dovremo pur accendere i fornelli di casa e per farlo ci servirà ancora del metano. Metano che le compagnie si dovranno andare a cercare da qualche altra parte e che ci venderanno (a costi più cari, ma questa è un’altra storia che ricorda tanto quello che successe per il nucleare).

E noi lo compreremo questo metano, lo compreremo più caro ma con la coscienza più pulita perché siamo ambientalisti e abbiamo detto che il nostro mare “non si spirtusa”. Il nostro mare, appunto. Per fortuna arriva Claudio Descalzi, amministratore delegato Eni che, a braccetto di Renzi, già un paio d’anni fa esclamava soddisfatto: “In Mozambico l’Eni ha fatto la più importante scoperta di gas della sua storia: 2.400 miliardi di metri cubi di gas che consentirebbero di soddisfare il bisogno degli italiani per trent’anni”. Inutile dire quanto poco gliene possa fregare del gas agli abitanti del Mozambico, loro che non hanno né fornelli né automobili. Noi quindi ci prendiamo da loro gas e petrolio e loro si prendono solo gli eventuali rischi più qualche spicciolo che andrà nelle casse del governo locale. Molto comodo essere, o meglio, fare gli ambientalisti così, vero?

Sarebbe interessante, infine, sapere quanti tra questi paladini del Sì sarebbero stati disposti poi a un comportamento ineccepibile dal punto di vista energetico. Questo avrebbe significato non solo fare la differenziata e andare in bicicletta.

Avrebbe significato essere pronti, per coerenza personale, a rinunciare, all’indomani di una ipotetica vittoria, a qualsiasi forma di utilizzo dei combustibili fossili. Avrebbe significato non possedere né auto né moto che non fossero elettriche; avrebbe significato non viaggiare né in aereo né in nave; avrebbe significato avere una casa totalmente sostenuta da rinnovabili, con stufe a pellet o i raggi infrarossi; avrebbe significato non comprare tantissimi articoli che fanno parte della nostra vita quotidiana e per la produzione dei quali vengono usati combustibili fossili.

Insomma, avrebbe significato essere degli integralisti energetici, avere uno stile di vita molto più che green. Ma quanti, tra quelli che hanno votato Sì avrebbero mantenuto una condotta del genere?

Francesco Saverio Calcara

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