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Innamorarsi… con Luigi Tenco – di Maria Palazzo

“Mi sono innamorato di te\ perché\ non avevo niente da fare”, inizia così, secondo alcuni brutalmente, una delle più famose canzoni di Luigi Tenco.
Scritta nel 1962, non si confaceva, di certo, al panorama culturale, in cui son auteur maudit (cordialmente parlando) avrebbe voluto fare breccia…
Oggi avrebbe potuto essere la frase di un comico irriverente: “Non avendo un corno (…) da fare (guarda un po’? …) mi sono innamorato di te”!!!
Figuriamoci nel 1962…
Però, a pensarci bene, messa in poesia e musicata, questa canzone, ha fatto scervellare i critici di tutto il mondo e, siccome, purtroppo, Tenco morì davvero, togliendosi la vita, cinquantuno anni fa, nessuna banalizzazione fu più permessa.
Anch’io, per decenni, mi sono altrettanto scervellata su questa frase…
“Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare”: per noia, per nonchalance, per ignavia?
Ma poi continua: “Il giorno\ volevo qualcuno da incontrare,\ la notte\ volevo qualcosa da sognare\”…
E ancora: “Mi sono innamorato di te\ perché\ non potevo più stare solo:\ il giorno\
volevo parlare dei miei sogni,\ la notte\ parlare d’amore.”.\
È il trionfo dell’amore moderno, che nasce come bisogno, senza grandi idilli e che, come dice il detto popolare, si trasforma in seguito…
Ma l’amore è un bisogno?
L’atmosfera della canzone: musica essenziale, voce profonda del cantautore, incanto emotivo dato dalla suggestione di lui teneramente cupo e introspettivo, dà, comunque, l’idea dell’idillio; un’idea nuova, spuntata spontaneamente non dall’essere profondo, ma da un quotidiano incolore. Così, come quei fiorellini piccoli e coloratissimi, che sbocciano, non si sa come, persino dalle crepe dell’asfalto e quelle del cemento…
Allora, ti chiedi davvero se l’amore sia solo un bisogno, per fuggire dalla solitudine, per il desiderio di una semplice condivisione, per un puro dialogo, per un barlume di sogno che squarci il grigiore del reale…
Tutto è sempre un bisogno, però! Siamo preparati, noi italiani, ancora oggi, ad una poetica dell’ovvio? No, di certo o, almeno, non nell’arte, nella musica, nella letteratura! Oggi, come cinquanta anni fa: anche se viviamo beceramente, vogliamo che gli artisti ci consolino, ci indichino una strada, una luce diversa…
E, infatti, è lo stesso autore a redimersi e a ritrovare il sentimentale filo di Arianna, che lo porta alle più ampie sponde del fiume Amore: “Ed ora\ che avrei mille cose da fare\ io sento i miei sogni svanire, \ ma non so più pensare\ a nient’altro che a te.\ Mi sono innamorato di te\ e adesso\ non so neppur’ io cosa fare:\ il giorno\ mi pento d’averti incontrata,\ la notte\ ti vengo a cercare.”…
Dal punto di vista ancestrale, certo, l’amore è un bisogno. Ma, per come la vedo personalmente, questo riguarda soltanto il suo aspetto antropologico, pseudoscientifico, primordiale.
Le alchimie umane e quelle dei sentimenti sono innumerevoli, come le combinazioni dei numeri. Scandagliarle è facile solo dividendo tutto in settori e analizzando tutto… da fuori.
Ma, mentre vivi un amore, ti chiedi se hai bisogni, sentimenti o se, ad animarti sia soltanto qualche tumulto interiore?
Non credo proprio!
Nonostante l’aspro quotidiano, banale e superficiale, qualcosa di profondamente misterioso avviene in noi. E non perché non si abbia niente da fare, ma perché, più che qualcosa, è qualcuno a irrompere, a spezzare la catena ordinata dei pensieri, a punzecchiare l’anima. E, a volte, non è neppure l’infuocato desiderio della passione a infrangersi contro le tue ex calme rive: a volte, è un gelido, distante, soffio di vento che ti fa rabbrividire. Non provi nulla, quasi un’assenza di tutto, un vuoto di temperatura, e pensi a Kelvin, nei tuoi ricordi scolastici di fisica: al suo ipotetico zero assoluto, alla cui temperatura, la vitalità della materia s’interromperebbe…
Non è un fuoco, non è un lampo, come quello che occorse a Saulo di Tarso: è il contrario della libertà che ti descrivono tutti. È una prigione, una buia necropoli etrusca, è assenza di vita, senza desideri, eppure ti attrae; senza alcuna sirena che canti e nessun colore che t’incanti, nessuna musica.
È quello che Tenco chiamava niente da fare: così lontano, così astruso, così indefinibile. Poi sei tu a riempirlo, di tutte le scemenze che la gente si affanna a dire, per poterti confondere con gli altri, per non dare nell’occhio… Ma tu hai voglia di cantare, poetare, attualizzare: di fronte a quella persona non senti affatto calore! Appena l’amore ti lambisce, per lungo, lunghissimo tempo, provi solo il gelo. E poi il tremore: del cuore e delle mani. E del tempo che passa e del non saper che fare.
Senti che avresti dei sogni e dei bisogni e hai sempre pensato di voler qualcuno da incontrare… Ma quando inciampi nell’amore, il cuore non batte, non pulsa più. Sei nudo, indifeso, solo, con una immensa immagine negli occhi e nessun pensiero che, come dicono tutti, tenda a sovrastarti e, appunto, senza neppur saper cosa fare. E non fai esattamente nulla! Non cerchi di cambiare le cose, come dicono di fare tutti gli innamorati, non dài una svolta al tempo, né alle azioni e non intraprendi esattamente niente…
Di giorno, ti penti di aver camminato, ignaro e non guardingo, sulla strada dell’incontro, ripercorrendo, novello Dante, strade un tempo sempre uguali, ora nuove e diverse e, di notte, (ricostruendo Tenco a immagine e somiglianza di quel suo amato Baudelaire, che scrisse Enivrez-vous) corri, con tutto te stesso, inebriato dal gelo che ti pervade e da quel che immagini, verso ciò che, logicamente, alla luce del sole, non cercheresti mai…

Maria Palazzo



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