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La vertenza sindacale

Finalmente avevo deciso di fare una vertenza sindacale a quello stronzo del mio ex-datore. Avevo un piano in fondo, dovevo fare di tutto per recuperare i soldi coltivati in due mesi di duro lavoro per quell’idiota, per quell’idiota poi!
Così, il giorno dopo essere stato dai sindacati passai da lui, non per un ultimatum stipendiario, come fino ad allora avevo fatto. Entrai nel suo ufficio come fosse casa mia, non m’importava se aveva clienti, anzi mi sarebbe stato gradito insaccarlo di merda di fronte ai suoi clienti. Ma in ufficio c’erano solo lui e la segretaria, “Silvia, Silvia che cazzo fai?” pensai tra me e me. Lui grasso e persino sudato nonostante il freddo cane, in camicia e cravatta. Osservai l’orologio, erano le sei, fuori la notte cominciava a scendere.

«Allora» gli feci serio, «sono qui per i miei soldi, ci sono stavolta?»
«No» rispose lui secco e Silvia sgattaiolò dalla porta della segreteria.
«Secco e fiero, ha il coraggio di rispondermi» rimuginai, «Beh, io non so esattamente quanta gente hai fregato con questo tuo metodo da volpe, ma sappi che c’è una vertenza sindacale a tuo nome, anche se mi hai fatto passare per coglione per due mesi!»
«Stronzo» sibilò.
Poi rimase muto, chinò la testa.
Lo aspettai. Un minuto rimase così. Non si muoveva. Nemmeno io. Aspettavo. Tacque.

Per un minuto.

Poi parlò: «Ti ammazzo». Ecco, questo disse, con un tono di voce inaudito alle mie orecchie, qualcosa di diverso, di paranoico, e odorava di pazzia.
Solo che poteva attaccarsi ad una corda lui e le sue minacce, alla mia rabbia non interessavano i suoi squilibri mentali o neurologici che fossero, la mia rabbia non poteva sopportare di aver lavorato gratuitamente per un ciccione ladro falso e pure schizofrenico. E fu la rabbia a dire: «Ascolta, discarica di merda, perché questa è l’ultima cosa che ti dico, poi ti arrangi con sindacati e avvocati, se in qualche modo riesci a spuntarla, dato che la gente come te in qualche modo riesce sempre a farla franca, beh, se ce la farai, spero che servano per comprarti un vibratore che t’esploda nel culo». Sorrisi.
Effettivamente la scena era comica, mi voltai e m’incamminai all’uscita. Mi rodeva, certo, lasciargliela vinta a quell’ammasso di letame cacato da mucche pazze, ma che potevo farci? D’altro canto il mondo, non è forse stato creato per questi furbastroni che te la fanno sotto il naso? Il mondo non è per loro? E per gli imbecilli? I corretti sono una specie in estinzione e comunque la giri lo prendono sempre in quel posto. Io non ero né un furbastrone, né un imbecille e tantomeno uno corretto: conveniva proprio riderci sopra: “Un vibratore che gl’esplode nel culo, eheheh” canticchiai uscendo, prima di sentire il botto.

Quel botto dietro di me e il rumore di vetri che s’infrangevano.
Mi voltai di scatto, era lui, paonazzo, furioso a denti stretti e ben in mostra, all’istante mi provocò timore e simpatia, perché era sì pazzo, ma di sicuro anche ridicolo. Un grasso sacco di letame matto e ridicolo.

Poi di scatto mi venne contro aggredendomi, io mi sbilanciai e con una gomitata lo buttai contro la parete. Silvia comparve e gridò una cosa tipo «fermi, fermi, basta» ma posso anche sbagliarmi dato che lui mi spinse a terra rumorosamente. Tentò di dividerci ma capì al volo che era meglio lasciar stare se non voleva trovarsi con qualcosa di rotto.
Ora lo stronzo aveva passato il limite e la rabbia divenne furia, non so come riuscii a spostare quel ciccione da un quintale ma da quel che ricordo dovevo proprio averne le palle piene di lui e della sua faccia.
Lo presi a calci fin fuori il fabbricato, le urla di Silvia cambiarono in «lo ammazzi, fermo, lo ammazzi».
Rieccolo il gran furbastrone sacco di letame alienato e ridicolo, eccolo lì di fronte a me, stirato per terra, ancora rosso in faccia, quasi psichedelico e ansimante con quel suo soffietto ripugnante. “Ed ora basta, non lo voglio vedere più”, mi passai una mano sulla fronte, io ero sicuramente tutto intero, forse anche lui, in fondo non avevo colpito troppo forte, mi dispiaceva. Potevo andare.

Invece no.

Invece no perché il pazzo ciccione tirò fuori dalla tasca una Pistola come un mago tira fuori un coniglio dal cilindro. Una pistola vera, niente trucchi. E il gelo mi fermò il sangue e tutto parve chiaro: il suo comportamento duro di prima, la sua aggressione temeraria: “Questo si vuole ammazzare” ovvio, “e non gliene frega proprio niente di seccare qualcun’altro nella sua via per l’aldilà”.

Il terrore può fossilizzarti i muscoli. E così mi sentii per qualche istante: una pietra, un pezzo di ghiaccio, un condannato di fronte al suo plotone di esecuzione ed il mio plotone era lui: quel ciccione sudato e stupido e decisamente matto che aveva mandato a rotoli la sua impresa, che aveva deciso di assumermi in nero per succhiare un po’ le mie energie e fottersi il mio stipendio, che adesso aveva scelto di morire forse con le chiappe nude ai denti aguzzi degli squali dei creditori e che infine mi stava lì di fronte con la pistola puntata al cuore o chissà dove dato che quell’idiota tremava come un epilettico in crisi acuta. Questo è il Terrore.

Ma l’immagine del terrore diede una scossa a qualcosa dentro di me: qualcosa che mi fece pensare che morire così sarebbe stata la cosa più oscena che potesse capitarmi e questa flebile nebbiolina d’idee s’alzò nella mia mente e si trasformò in tempesta di odio, in lampi di esasperazione e strinsi i denti e i miei sensi si “allungarono” attorno a me e la paura mi fece balzare. Questo è l’Orrore.

Balzai contro di lui col braccio destro lungo disteso, a pugno serrato e lo colpii al mento, lui sorpreso cadde all’indietro perdendo di mano la pistola, gli occhiali scivolarono via dal naso cadendo a terra disintegrandosi in rugiada sull’asfalto.

Colsi la pistola e schiacciai la canna sulla sua fronte.
Ora tremava, tremava, essì, quel ciccione pazzo.
«Tremi? Hai paura?»
«Non uccidermi, ti prego» singhiozzò lui.
Io lo guardai dritto negli occhi e gli sorrisi, ma bonariamente, estremamente addolcito nello sguardo, come una madre quando guarda il figlioletto di cinque anni che ha combinato una marachella e ha intenzione di perdonarlo. Così lo guardai. E a lui stavano per lacrimare gli occhi.

Poi partì il colpo.
Ban’!

Il rimbombo potente – tuono violento – la pioggia di sangue.

«Amico mio, io non sono mica tua madre.»
Il resto del cervello stava lì insieme alla sua ciccia e al sacco di merda pazzo e sudato che era.
“Cazzo, mi sono sporcato il maglione di sangue!” pensai sbuffando. Silvia lo guardava con gli occhi che più aperti non si poteva, sembrava quasi che quelle due palline si sarebbero staccate dalle orbite cominciando a rimbalzare qua e là per terra come palle da tennis. Così pensai.
Mi avviai sereno alla macchina facendo cadere la pistola a terra. Ricordo che per giocarci ancora un po’ misi anche la sicura prima di abbandonarla.
Accesi, tirai un respiro profondo. L’autoradio partì. E Lou Reed cominciò a cantare.
Shining shining, shining boots of leather…



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