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Verso Santiago, uno Yatra

Yatra in sanscrito significa viaggio o processione e indica il pellegrinaggio verso i luoghi sacri dell’induismo. Per due settimane sono stato uno yatri, un pellegrino, insieme a diciassette compagni di viaggio del Mandala, la mia scuola di yoga e meditazione.  Insieme abbiamo camminato verso Santiago de Compostela, lungo l’antico percorso portoghese che da Oporto conduce alla città di San Giacomo in Galizia.

Perché sono qui? Che cosa mi preme?

Che cosa significa fare un pellegrinaggio, per me? La domanda ce la siamo posta tutti quanti, fin dal primo giorno.

La parola pellegrino viene dal latino peregrinus, da per + ager: indica chi vive nei campi, nelle campagne, uno straniero che vive in una condizione di deprivazione rispetto a chi vive in città. “Chi parte in pellegrinaggio non si trova ad essere, ma si fa straniero e di questa condizione si assume le fatiche e i rischi, sia interiori che materiali, in vista di vantaggi spirituali – come incontrare il sacro in un luogo lontano, offrire i rischi e i sacrifici materialmente patiti in cambio di una salvezza o di un perdono metafisici – e perché no anche materiali, grazie alle avventure e occasioni che, strada facendo, non possono mancare.” (Wikipedia)

Perché mi sono fatto straniero per questo pellegrinaggio?
 Perché solo quando sono in movimento, “strada facendo” per l’appunto, lontano dalle comode abitudini quotidiane, posso creare le occasioni per trasformarmi. E di strada ne abbiamo fatta tanta insieme con Simona, Ilaria, Antonia, Stefania, Anna, Fabio, Anna Maria, Monica, Daniele, Marcella, Fortuna, Patrizia, Caterina, Paola, i due piccoli Romeo e Alice e Nicola, il nostro maestro.

Ma c’è una domanda più urgente, una domanda personale che ha spinto ognuno di noi a incamminarsi verso Santiago. La mia ha a che fare con la fiducia, nelle persone, nel mondo, ma principalmente in me stesso. “Strada facendo” scopro che la parola spagnola fe significa fiducia, ma anche fede. Ci vuole molta fiducia (o molta fede) per fare il primo passo verso quella meta indicata dalla freccia gialla che ci accompagna, come una campana di consapevolezza, per tutto il percorso.

Ce la farò? Ce la faranno i miei piedi?

È la domanda che ci siamo posti tutti quanti prima di partire. Riuscirò a percorrere quei 250 chilometri? Camminando con lo zaino, sotto il sole, per due settimane?

Ma non è quella la domanda vera, quella con cui mi sono confrontato quando ho mosso i primi passi. La domanda vera è: ce la farà il mio cuore?

Abbiamo incontrato molti pellegrini soli, ma tutti, prima o poi, hanno scoperto il loro compagno o compagna di cammino lungo il percorso.  Uno specchio amico in cui hanno trovato sostegno e in cui hanno potuto ritrovare e affrontare le proprie sofferenze. Scoprendo così di non essere soli. Perché i nostri compagni di viaggio ci indicano quello che ci rifiutiamo di affrontare.

“Trovo sempre orecchie attente, occhi aperti, mani solidali. Ed energie da scambiare, forse dolori simili, ma anche gioie comuni. E ci si attrae come elettroni e protoni, in modo naturale, riconoscendo chi ti può dare qualcosa di prezioso e che allo stesso tempo cerca qualcosa da te.”

“Ce la farà il mio cuore?” è la domanda vera perché durante il pellegrinaggio siamo tutti esposti agli altri, visibili, con le nostre paure, le nostre sofferenze, le nostre debolezze. E al tempo stesso le nostre energie migliori, i nostri punti di forza, la nostra gioia sono al servizio dei compagni di viaggio.

Per fortuna, il nostro cuore è abbastanza spazioso per ospitare tutte queste emozioni.

Come sono arrivato qui? Qual è la mia storia?

Nicola ci ha esortato a guardare indietro alla nostra storia personale. Quali domande ci sono state prima di arrivare alla domanda di oggi? Quante volte abbiamo camminato al buio prima di trovare un nuovo giorno?

È stato un esercizio intenso che mi ha permesso di ripercorrere la strada fatta e di scoprire i momenti di passaggio della vita, quelli in cui ci si mette in gioco, in cui si fa un passo in una direzione nuova. Momenti di cammino.

E per camminare, per muoverci, per trasformarci ci serve astuzia e al contempo accoglienza nei confronti di noi stessi. Nicola ci invita a essere astuti nei confronti dei meccanismi automatici che spesso ci governano, a scardinare i nostri mondi immaginari per trovare un rapporto con noi stessi e con la realtà. Ma questo lavoro di continua allerta, di vigilanza, richiede una profonda accettazione di noi stessi, un’accoglienza, una tenerezza. Possiamo essere scaltri, vigili, anche spietati all’occorrenza, ma sempre accoglienti.

Così ripercorriamo con amorevole attenzione i momenti della vita in cui siamo stati capaci di lasciare alle nostre spalle un’abitudine che era diventata un peso inutile, un fardello che ci impediva di crescere.

Qual è il fardello a cui posso rinunciare?

Dopo dodici giorni arriviamo a Santiago, ma la nostra meta finale è sul mare. Fisterra, la fine della terra, l’ultima propaggine del mondo dove i pellegrini arrivavano esausti per lasciarsi finalmente alle spalle il fardello che si portavano dietro.

Ci sono cose che possiamo lasciare andare, cose a cui possiamo rinunciare. Come le scarpe consumate e ormai inservibili che affollano, insieme a mille altri oggetti abbandonati dai pellegrini, le scogliere del capo Fisterra.

È ora del nostro ultimo sforzo, quello più duro, quello che ci porta alla vetta. Scriviamo su un foglio il nostro fardello e poi lo abbandoniamo sugli scogli o tra le onde.

Sul mio scrivo: “Grazie al cammino che mi ha permesso di liberarmi dal fardello dell’ansia, il desiderio malsano di controllare tutto e tutti. Non è possibile e non mi permette di vivere. Da oggi accetto con serenità quello che mi offre la vita e quello che mi offrono, nel bene e nel male, i miei compagni di viaggio”.

A Simona, Ilaria, Antonia, Stefania, Anna, Fabio, Anna Maria, Monica, Daniele, Marcella, Fortuna, Patrizia, Caterina, Paola, Romeo, Alice e Nicola. Con gratitudine.




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