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Io e Lei

Io e Lei

Iannozzi Giuseppe

Rosso che divora

La penna la depose come se fino ad allora avesse tenuto in mano una spada insanguinata. Era stanco. I fogli erano tanti, di fronte a lui, uguali a morti sventrati. Di sé, né del suo lavoro era soddisfatto. Dal pacchetto intonso sfilò via una sigaretta; e iniziò a fumare, poi con il mozzicone ardente ai fogli, che aveva vergato, diede fuoco. E rimase ad ammirare le insaziabili lingue di fuoco. Se solo fosse stato capace di descrivere quel divorante rosso, ah, che grande scrittore sarebbe stato!

I.

Ricorderai il sorriso
che ti amava tanto,
che t’imbarazzava tanto

Troverai che,
che adesso c’è
quel che più non è

Scoprirai che,
che tra sole e luna
davvero poi non c’è
tutta quella differenza,
tuttu quella diffidenza
che gli amici dicevano a te,
che i gatti, cinici,
insegnavano ieri a te

E scoprirai da te,
da te,
che male davvero non c’è
sotto la neve bianca,
sotto la cenere ancor calda
E ti chiederai perché,
(perché?)
ogni cosa ha fatto male a te.
soltanto a te,
a te più che a me

E, fra le lacrime
con o senza un perché,
puntini di sospensione…

II.

Solo ho un cuore,
mille volte spezzato.

Se mi guardo indietro,
son mille terre bruciate
piagate
suppuranti ancora,
e su di esse un mare di sale
alimentato da lagrime
che in pubblico
non si mostrano.

Se mi guardo indietro,
capisco che,
che ormai sono nel tempo
in avanti proiettato.

Il cuore,
ce l’ho ancora.

Così credo
nel tempo
che mai sembra essere
troppo da me lontano;
così credo
nello spazio
che sempre vasto è
in ogni dove da me calpestato,
oggi come allora;
così credo
che sono invecchiato,
precocemente,
come chiunque del resto,
come chi fino in fondo vive.

Dovrei esser disperato
in una tragedia o in un’opera buffa,
ma il cielo capovolto del mio passato
in me precipitato
non mi teme
e amico necessario lo sento.

Credo,
oggi credo nel pugno chiuso,
nel sassolino di fiume
che tu m’hai regalato.

Dio mai ha reso ridicoli
i miei nemici,
le ferite,
le terre bruciate;
e quel tanto che tu mi hai dato
ha di me fatto umano dio.

III.

Se stelle e pianeti piovon giù,
se vene e mari si prosciugano,
e anche l’ultimo dio
al filo della lama s’arrende
con occhi di lagrime vuoti
e nemmeno una preghiera
in silenzio a Salomé rivolta,
sian questi magri versi proiettile
per vuota tragedia di sé malata

IV.

Sulla bianca neve
la rincorse Vladimir
Di lei neanche
una sporca traccia

E la piazza gremita:
uomini e donne
in colli di bottiglia
ma a loro agio
nell’agitazione

Gli sorrideva
il ricordo di lei
nel corpo
d’una vuota innocenza
collassando

Ma sempre,
in silenzio,
da bianchi guanti
sarà accompagnata
la bara di Katerina
verso il cammino
del disposto oblio,
sognato

V.

Quando si fa tarda l’ora,
la tentazione la solita,
quella d’una poesia
o d’un dolore che nessuno,
che nessuno ascolterà.

Quando la notte
nella notte si completa,
troppo tardi davvero
per ammettere la verità
che sol si è ombre
di crepuscolari identità.

VI.

Lascia adesso
che alle spalle
ti prenda,
o al tuo ventre
raccomandami
in questo mentre
che con te sono,
come le stelle
mistico

VII.

Con negl’occhi l’alba, ricordo
il rosso della verginità sciupata
nel tramonto dell’età stuprata…


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