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Profumi tra donne e traditori

Profumi tra donne e traditori

Antologico di versioni alternative o nuove

Iannozzi Giuseppe

Parfum de femme (Profumo di donna)

2nda versione

Nell’eterno buio
non ti vedo io
Cieco m’ha fatto venir Dio
E più cieco m’hai fatto tu
accendendomi la passione,
cercandomi nella patta
dei pantaloni l’accendino

Che fai?
Troppo giovane, davvero troppo
per consumarti con un vecchio
Che vai cercando,
che vai insinuando?
Non t’amo, lo ruggisco
che non t’amo né mai sarà

Non ti vedo mai,
e sempre, sempre ti sento cercare
ora questo ora quello
Le fantasie provochi d’un vecchio
che in spregio ha quel Dio
che nel budello
gl’ha messo del leone il coraggio
per togliergli poi la vista
illudendosi di togliergli tutto,
la vita intera

Ma lo stesso, lo stesso
lo sento io il tuo profumo
Profumo di femmina
Giovane donna,
odori tu di miele e sesso

In silenzio
al mio fianco resisti
Credi, ti credi forse
di farmi dispetto,
di lasciarmi a consumare
E c’hai ragione
Lo sento però
che sei donna oramai,
non più la bambina
che sulle ginocchia carezzavo
Mai più sarai quella creatura
che da un niente spaventata
piangeva per poi nascondersi
tremante fra le mie gambe

Che vai insinuando
restando al mio fianco?
Non t’amo, lo ruggisco
che non t’amo né mai sarà
Non hai forse visto
che a puttane vado?
Dai piedi le riconosco,
dal profumo che emanano
Non sbaglio, per Dio!

Di donna profumi
No, aspetta: di femmina
No, di innocenza, ecco:
sì, di verginità profumi
Mi vuoi far forse fesso?
Son vecchio, mica coglione
Lo sento quel che sei,
Dio cane!

Mai più sarai la bambina
che giocavo innocente:
ero uguale a te, lo sai
Bastava che negl’occhi
ti guardassi per credere
che il domani sarebbe stato
se non migliore non peggiore
Bastava,
mi bastava guardarti piangere
e sorridere poi quieta,
odorosa di languide lacrime

Non t’amo, lo ruggisco
che non t’amo né mai sarà

Levati dal mio fianco!
No, no che non piango
Non dirlo, non avvicinarti
Non un altro passo
Lontana, stammi lontana

…non baciarmi così,
non baciare un vecchio

Non riportarmi
a essere l’uomo
che ricordo…
che non ricordo
d’esser ieri stato

Per Dio,
non ridarmi tutto
quel che credevo
per sempre perso

Cadaverico pianto

Quel giorno pioveva forte
Tu non avevi gl’occhi bagnati
Il cielo era grigio, un funerale
e la gente portava il passo avanti
sorridendo sempre inebetita
Mi raccontavi dell’ultima volta
che l’avevi fatto
Io ascoltavo, ti nascondevo
sotto l’ombrello
per toglierti dai denti affilati dei passanti
Improvvisamente ti facesti scura in volto,
la bocca si contorse in una smorfia
di morte e lussuria; e uscisti allo scoperto
oltre la portata del mio riparo

Ti vidi che affondavi
in una pozzanghera nera
che pareva un pozzo di pece:
le tue bianche piume divennero pesanti
di piombo, piegate, massacrate
arrese lungo la schiena;
i tuoi piedi nudi scomparirono per primi;
poi le ginocchia, fino al seno
Non smettevi di ridere a bocca aperta
mentre l’inferno t’ingoiava:
sguaiata, portavi imbarazzo e pena
Sembrava che solo io mi rendessi conto
di quanto ti stava accadendo
Non facesti niente per salvarti
né invocasti il mio nome

Se oggi ripenso a quel giorno
un sordo pianto mi squarcia il petto
Non serve però a sedare le fiamme
che l’inferno m’ha messo addosso
in larghe spire, forti come risate
di gola

Carbonella e solo carbonella

Te ne vai in giro per il mondo
Giochi a palla, al cielo rubi una stella
A ogni Scemo del Villaggio che incontri
gli dici d’esser tu l’unica e la più bella
e gli fai vedere il tuo rosso cestino
pieno zeppo di fiori e bottoni

A tutti, proprio a tutti lo dici
d’esser la più bella e buona,
la bimba che tutti vorrebbero amare
Ma in realtà non sei così candida
come vorresti far credere
Sei sporca e nera, sei spazzacamino
Sei nera, nera, nera, sei Carbonella

Potrai ingannare il Signorotto del Castello,
il Sindaco e lo Scemo, e qualche farfalla:
ma non me che lo so, che vedo oltre
quel grembiale che malamente ti copre
I miei occhi vedono la pula sotto le unghie,
non mi sfugge il particolare che la pelle
è tutta presa da macchie di carbone
I miei occhi vedono nei tuoi quel maleficio
che tu getti addosso al gretto mondo
per illudere che sei bella più d’una stella
E io che non sono di questo mondo,
lo vedo bene che tu sei Carbonella

Sei nera, nera, nera, sei Carbonella
Questa Terra potrà pur esser gretta
e d’ingiustizie piena, di spazzacamini,
giovani che in due giorni tisici e vecchi;
però la tua natura prima o poi la saprà

Quando dal Medioevo l’uomo si sveglierà,
in quel momento nuda sarai, Carbonella
Così, per adesso, gioca pure a palla
Va’ in giro a dire che sei una stella
Fa’ tutte quelle cose che una strega ama
Prima o poi, verrà fuori la verità
che sol sei una bimba, certo che sì,
che di nome però fa Carbonella

Come la Monaca di Monza

Ancora con questa storia
Da quando hai visto la Monaca di Monza
pensi sia una cosa bella farsi murare viva,
scegliere da un mazzo di tarocchi
la prima carta a caso, e così farla finita
Ma io ti dico che sei una bimba
e che le margherite stanno nei campi:
aspettano solo d’esser colte dalla tua mano
E l’erba che è fresca e dolce può ben essere un letto
per gl’amanti che lo vogliono fare l’amore
E tu niente,
parli di riti buddisti e d’un gioco nato in Giappone,
e mi chiedi poi se è vero che a Dallas c’è il petrolio;
e ti dico io che la finzione è una cosa – e non una casa –
per giunta pericolosa, e che la realtà
invece assai più divertente e ricca di mordente
Tu insisti, la Monaca e ancora ricette di budini
Io allora m’affaccio alla finestra e scorgo suicidi
che non sono stati ancora raccolti dai netturbini
In compenso gl’imbianchini sulla facciata
stanno facendo proprio un gran bel lavoro:
una mano e un’altra, danno il bianco
– un vero amore, anche solo guardarli
Mi chiama la portinaia
che m’ha visto affacciato
e chissà che diavolo avrà mai pensato:
la rassicuro, le grido buone parole
e le sputo pure addosso un po’ di bile
per calmarla, ovviamente
Alla fine senza più aprir becco
sceglie l’esilio in una telenovela
Questa finestra, Amore, è stretta:
a malapena mi lascia fuggir la testa
e uno starnuto per un nuovo raffreddore
E tu, tu pensi ancora di voler esser murata?

Sui fondali

Uno
di questi giorni
soffocati
sui fondali
scopriremo
tra rottami ossa
e legni di vascelli
che noi
abbiamo nulla
di divino,
che solo il sale
del mare
ci ha dato una dignità
da digerire
a stomaco vuoto

Uno
di questi giorni
affonderemo
insieme
a quelle poche
pochissime
certezze
che ci ancorano
alla vita:
ed allora
tremeremo
di freddo
di paura immensa,
mentre
in superficie
marosi e cavalloni
faranno a gara
per seppellirci
sempre più
in profondità,
perché neppure
l’eco di gesù
possa lambire
le tetre labbra
che un tempo
anelarono a baciare
altre labbra

Uno
di questi giorni
acqua e sale
urleranno
bianca spuma
sulla spiaggia
per far capire
ai pochi
pochissimi
superstiti
che morti siamo
per sempre

A una puttana

Prendi una donna,
una che sia un poco bella
Prendi una donna qualunque
e mettila nuda allo specchio
Prendi poi la sua gonna
e ordinale di coprirsi
Non lo farà perché lei lo sa
che l’intelligenza che ha
è di dar la sua carne via
al maschio senza cervello,
da capo a piedi coglione
pronto per un pelo di figa
a dilapidar tesori,
a strapparsi i capelli
fino a farsi la tigna

Prendi un coglione,
uno qualunque tra la folla
Prendilo da parte
e chiedigli che tiene;
ti dirà che non mangia
e non beve da quando lei
gl’ha promesso la gioia
di scoprir per lui una caviglia

Prendi una donna,
tra la folla una qualunque
e dille forte e chiaro
che è una gran puttana;
delle consorelle non lo scherno
ma forte e scrosciante il plauso
tu, povero coglione, tosto riceverai
perché fedel compagno ti sia
sino al giorno del lutto tuo

Il pianto di Jago

Non è vero che son Jago
Che son quel mostro
che descrivi
sol perché ho osato peccare
di vanità
portandoti a Corte
Il tuo bel volto
l’han visto in tanti;
e ognuno avrebbe pagato
pur d’averti con sé
almeno un istante
Non ho però io ceduto
Per il tuo onore
ho combattuto;
e ho preso pure
dentro alla spalla
il fioretto d’un gentiluomo
che si vantava d’esser stato
con te a letto non una volta
ma ripetutamente
Giuro, non c’ho visto più:
gli son saltato addosso
nudo e crudo, coi denti
l’ho assalito e quasi sbranato;
ma il filo della sua spada
m’ha infilzato
e in ginocchio son caduto
tra gli scherni
degli sgherri d’attorno
come animale sguaiato
mezzo scannato
da mostrare
a vili e cortigiani allo stesso modo
Gl’occhi mi si son fatti rossi
e seppur più di là che di qua
mi son fatto contro quello
che osava vantare impudiche vittorie
E anche se tu mi credi ignorante
incapace di poesia,
sappi, Amor mio, che il sangue mio
ha per te scritte gesta
che nessun scribacchino potrà mai
mettere in rima
men che meno in riga,
perché disobbediente sono
quando l’amore sei tu, mio Sangue!

Il tuo amore
sempre l’ho difeso:
col sangue, dipingendo rose a Corte,
per le strade e le calli se necessario,
senza temere mai l’eterno oblio

Figlio, Figlio Mio

Figlio mio, mio solo tormento
e consolazione per gl’anni a venire,
andremo per postriboli insieme
Ci sceglieremo le donne migliori,
quelle che non hanno morale
e che non hanno lo scolo
– almeno noi lo speriamo!
Sarà un po’ come tornare bambini

Figlio mio, diamoci da fare!
La nostra non è famiglia
che non sappia scopare

E se vuoi quella lì a destra,
la più disinibita e carnosa,
a te, Figlio mio, io la lascio
perché i tuoi denti affondino
nella sua dolce tenera carne
Domani il mondo avrà
un altro Bastardo da sfamare,
tutto pelle e ossa e rabbia
Ma oggi non ce ne curiamo

Andiamo, andiamo a spargere
per il mondo il nostro seme
Sarà un po’ come tornare
a quei giorni lontani, quasi sereni
che ci videro pure a noi bambini

Tu che guardi a Dio

Diversi: tu che guardi a Dio
con certezza, con spirito d’avventura
giorno dopo giorno; io che invece
non congiungo le mani, solo cerco
il tuo sguardo per sentire scorrere
nelle vene il miracolo di questo Creato
che oggi, insieme bene o male, viviamo

Non ho bisogno d’altro per amarti
Solamente la certezza che domani ci sarai
per accogliermi sul tuo seno,
per confortarmi anche, anche se non ho fede
in quel tuo Dio ma solo nei tuoi dolci occhi
– nella bellezza dell’anima femmina

L’orrore

Sei uscita un giorno dalla vita mia
Sei andata incontro a un vampiro
Non potevo certo immaginare
che fossi della stessa sua razza
Ero troppo pazzo e innamorato
per poter capire che non m’avresti
di te lasciato nemmeno l’orrore di dio

Ero troppo giovane, troppo ingenuo
perché potessi resistere da solo
Così tutto quello che m’è capitato
sino in fondo me lo sono meritato
Così adesso aspetto il tramonto
per svegliarmi, per tornare a cercarti,
per restare sempre a te accanto

Carogna

Non dategli ascolto
a quel figlio mio disgraziato:
l’incesto, d’incesto mi parla
e vuol farlo
con la donna che l’ha generato

In giro lo strilla
che dobbiamo essere
una famiglia aperta:
ma, per quant’è vero che son io Dio,
quando torna a casa
a cinghiate lo prendo
Una tempesta d’immane dolore
gli faccio assaporare,
altro che il ventre della genitrice,
che poi è l’avvenente mia moglie

Che figlio coniglio!
Sciagurato e senza ritegno
Più debole del Padre suo
quando vede un bel tocco di femmina

Me tapino
che gl’ho dato la vita

Però, com’è vero
che son Io l’Unico Eccelso,
glielo faccio passar io il vizio:
di strie gli riempio la schiena
e il culo più grosso d’una zampogna
gli faccio a ‘sto figlio degenere,
così che nemmeno dabbasso
se lo potrà più prendere

Figlio, figlio, figlio…
Carogna che non sei altro!
Dovrai pur tornare da tuo Padre,
ed allora l’ira mia
nel sangue finalmente sarà lavata
così pure l’onta tremenda
che osasti gettarmi sulle spalle

Il verno sono

Che tenera che sei
ragazza che al tramonto
il limpido tuo sguardo doni!
Ma son io il gelido verno
Nudo mi muovo
Sulle ali del vento mi porto
Le ossa sconquasso
La pelle screpolo
Non c’è sole nelle mie nubi
di temporali e nevicate
Il verno sono che danno fa
ai vacanzieri a Rimini,
nudi uguali a vermi rosati
dalla terra vomitati

Il verno sono
Nel freddo mio abbraccio
t’avvolgo
Ti stringo fino a ridurti
in punto di morte
Ma tu spera Primavera
Prima o poi anch’essa verrà

Son io l’Altrove

Se di morte le mie labbra
Se di ghiaccio gl’occhi
Se in me non trovi vita
che non sia stata già consumata
è perché sono Altrove:
appartengo ad altro mondo,
quello che gli stessi Dèi temono
e hanno in dispiacere

Non verrò a comando
o per un segno dettato da chissà chi
Non ho bisogno
del sole della luna
né d’un altro astro
La mia nera stella:
l’anima che non ho
e che eppur m’anima
da ben prima
che il Creato venisse sognato

Al tuo fianco dimoro,
impalpabile come l’ombra
che gioca a far dispetti
a fragile fiamma d’una candela
sotto il peso dell’alito umano,
degli spifferi
che da sotto porte e finestre
si dipartono

D’oscurità mi nutro
Prima dell’alba
muto rimango al cospetto
di chi si crede ormai al sicuro
E la lingua
io lascio ch’egli ingoia
fissandolo negl’occhi
già pieni d’oblio

Perché da sempre
son io l’Altrove

Il chiodo fisso

Hai ragione, mi lamento sempre: pure dei chiodi a piedi e mani dell’Unto. Ce li hanno messi ch’eran già presi dalla ruggine. Un lavoro o lo si fa bene o non lo si fa proprio. Credo bene che poi Dio s’è imbestialito più del diavolo, non a caso dopo tre giorni appena a quel figlio hippy l’ha fatto scendere giù dalla croce con una pacca sul sedere, sussurrandogli in un orecchio: “Ora corri dalla Maddalena, altrimenti quella ti diventa puttana…”.
E Gesù, tutto felice: “Padre, lei è proprio così! E’ per questo che è il mio chiodo fisso. A me mi piace la Traviata, me ne vuoi fare forse una colpa?”


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