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Dario Arkel: “La pazienza della notte” e “Il Bambino Vitruviano”. Intervista all’Autore – di Iannozzi Giuseppe

Dario Arkel

“La pazienza della notte”

e “Il Bambino Vitruviano”

Intervista all’Autore

di Iannozzi Giuseppe

Ho incontrato Dario Arkel un po’ di tempo fa, rimanendo subito affascinato e colpito dalla sua cultura e dalla sua grande sensibilità, non posso davvero negarlo. Avevo appena finito di leggere “Il clowndestino. Piangere per ridere” (David and Matthaus, 2017), un lavoro ricco di sana e genuina nostalgia, e così mi permisi di importunare l’Autore, ovviamente con l’intenzione di estorcergli una intervista. Dario rispose subito alla mia e-mail, e nel giro di poco diventammo amici. Nel 2017, al Salone internazionale del Libro di Torino, ebbi finalmente l’onore di guardare Dario Arkel negli occhi. Parlammo per un’ora o giù di lì, scoprendo d’avere tanti interessi in comune. E non potemmo non scambiarci la promessa di continuare a rimanere in contatto. Scrivere l’introduzione alla sua opera poetica “Di Vento Di Verso” (Ass. Culturale Il Foglio, 2017) fu per me un grande onore e un vero piacere.
Dario Arkel è un intellettuale poliedrico, il cui bisogno di comunicare con la gente è palpabile. Appena lo vedi, capisci subito che sei di fronte a una persona ricca di umanità, che non ti lascerà a piedi, abbandonato a te stesso. Perché dico questo? Perché è la verità e non può essere taciuta. Dario Arkel è fonte di luce che rifugge l’oscurità, e questa qualità del suo spirito è evidente in tutti i suoi lavori, anche nel suo ultimo romanzo “La pazienza della notte” (Castelvecchi, 2019) e nell’eccellente saggio “Il bambino Vitruviano. L’innovazione di Janusz Korczak” (Castelvecchi, 2019). È impossibile, perlomeno per me, dire qual è il lavoro migliore di Dario Arkel; ho letto tutti i suoi lavori, e ogni volta che torno a leggere qualche sua pagina, capisco che ho ancora tanto da imparare.

Ho posto all’amico Dario un po’ di domande, un po’ tante a dirla tutta, e lui, con somma pazienza e benevolenza, mi ha illuminato con risposte esaustive e mai evasive. Grazie, Dario.

Quella che oggi vi presento non è una semplice intervista, è qualcosa di più.

Giuseppe Iannozzi

1. Dario Arkel, “La pazienza della notte” (Castelvecchi, 2019) è il tuo ultimo romanzo. Qual è stata la genesi di questo lavoro, che accoglie in sé il buio e la luce?

C’è stato un periodo della mia vita nel quale ricercavo oltre il nero. La lettura di Gaston Bachelard, del suo pensiero sui grands rêveurs de l’outrenoir, del poeta che trova la luce oltre le ombre, Joë Bousquet, e dei giochi di luce di pittori amati (Caravaggio principalmente), e l’ammirazione per Rothko e Pierre Soulages, mi portarono all’esegesi metaforica di Moby Dick. “Leggerezza e profondità della conoscenza – Moby Dick e qualcosa d’altro” fu il primo testo nel quale ho affrontato il superamento del buio per poi accostarlo all’esempio di Janusz Korczak, i cui bambini dell’orfanotrofio, nel tempo opportuno del Kairòs vivono oltre la memoria del tempo cronologico. Dietro il nero vi è luce, la sua è pesantezza presunta, necessaria per riconoscere la fine della sofferenza e del disagio. In breve, la felicità delle azioni della vita. La pazienza della notte rappresenta, in narrativa, il frutto maturo di questa riflessione. La notte trasforma la pazienza in speranza, e il dolore estremo nella gioiosa consapevolezza del proprio limite e, ancora, Ebbe l’impressione di riconoscere allora come in un soffio le due facce della notte: il buio che rinnova la luce oltre il nero totale, e il buio guida del sogno, sono due piccoli estratti del romanzo la cui trama, attraverso il filo delle azioni alterne tra vivere e morire, nascere e conoscere.

2. “La pazienza della notte” è la storia di una grande amicizia: Marcel Farcoz incontra, (quasi) per caso, Elias Franck, un giovane psichiatra ebreo ginevrino. Dario Arkel, che cosa è l’amicizia? Esistono tante forme di amicizia, e nel corso dei secoli sono state portate tante definizioni, più o meno convincenti, su cosa essa sia: Aristotele descrive l’amicizia come una virtù che nasce dall’abitudine di mettere in atto una libera scelta fra individui per conseguire la felicità; Epicuro dice che essa è essenziale per conseguire una vita felice, perché è vero che nessuno può vivere senza amici, e, in aperto contrasto con Aristotele, specifica che «ogni amicizia è desiderabile di per sé anche se ha avuto il suo inizio dall’utilità»; gli antichi romani amavano parlare di solidarietà fra gruppi di persone. Nella Bibbia Abramo viene detto «amico di Dio», e Gesù chiama i suoi discepoli amici «perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi». Immanuel Kant non crede granché negli amici e li divide in tre gruppi: «quelli che vi amano, quelli che non si occupano affatto di voi, quelli che vi odiano».

In epigrafe al testo vi sono due frasi: Perché lui era lui, perché io ero io (Montaigne sull’amicizia con Ėtienne de la Boétie) e Perché tu sei tu, perché io sono io (Alphonse de Lamartine al suo migliore amico). Questo accostamento ribadisce il significato dell’amicizia nel tempo, il suo valore nel rispetto delle diversità. È proprio il rispetto che conduce a creare la vera amicizia tra i due personaggi principali del libro, un rispetto che libera gli aspetti caratteristici dell’uno e dell’altro (un alpino e uno psicanalista che mantiene viva la sua ebraicità). Questa diversità si scioglie con la prossimità, con l’abbraccio delle anime e congiunge le personalità, così differenti e così eguali nella profondità. Un livello affettivo che supera i contrasti di provenienza e rende complementari i soggetti. Vedo in questo molte affinità con Ich und Du di Martin Buber quando chiama indispensabile e arricchente l’incontro con l’altro. Due persone creano una terza persona, custode dell’affetto, che possiamo chiamare rapporto, oppure legame d’amore. Quanto si instaura tra Elias e Marcel giunge a questi acuti nel loro girovagare per le montagne, nelle spiegazioni delicate ma anche talvolta brusche che i due vicendevolmente si scambiano: imparare il vivere per Elias e imparare a conoscere i presupposti su cui si fonda il sapere, in particolare la memoria e l’oblio, per Marcel – anche in questo caso nell’alternanza tra luce e ombra.

3. Ne “La pazienza della notte” torni a parlare della Shoah. Il passato non si cancella, rimane dentro le generazioni, è una sorta di ferita che non guarisce mai e che resiste alla luce. Dario Arkel, è così?

Quando le ferite divengono parte della coscienza emergono come risorse del superamento delle ansie e delle angosce, situandosi in un limbo interiore di pensamento senza fine, sigillando in noi la forza del doveroso superamento. Le azioni del vivere puntano alla ricerca di oasi felici, di anfratti interiori che trovano nella natura, in questo caso i panorami alpini, lo specchio necessario nel quale si rifrange l’occhio che sa sorridere. Un uomo non rifiuta quanto ha vissuto, nel bello e nel brutto, il primo comporta la ricerca incessante di uno status di serenità, il secondo la necessità dello scavalcamento. Da qui nasce la pazienza che è cura e possibilità, l’emendamento di ciò che si è compiuto nell’eventuale errore, la dinamica stabilizzazione verso la speranza di compiere al meglio le proprie azioni. Il destino c’entra e non c’entra, nessuno ha uno destino segnato, forse l’ha solo sognato, perché ogni momento della nostra vita è reversibile per lo meno nella nostra interiorità. La Shoah non è soltanto un’esperienza familiare personale, nel corso del tempo diviene un elemento fondante del mio essere nel mondo: Elias ripercorre i momenti della propria infanzia durante la Seconda Guerra mondiale, lui, al sicuro a Ginevra, ma con tanti parenti ospiti della sua casa provenienti dall’Est Europa. Uno di questi, un poeta che ha fatto voto di silenzio a seguito dello sterminio della propria famiglia, rappresenta per lui un sostegno di resistenza. Quella stessa Resistenza che, sugli altipiani del Jura francese, vedrà cadere quest’uomo, reso muto dal dolore che ha parlato per poco tempo con le armi della Liberazione.

4. Elias Franck è sposato, ha una bellissima moglie, ha dei bambini, e ama il suo lavoro che porta avanti in una maniera non tradizionale, ottenendo grandi risultati. Elias è un uomo felice, poi, all’improvviso, la tragedia, e il buio lo avvolge.
Dario Arkel, qual è la natura del buio? Come riesce il buio ad attaccare un’anima fino al punto di farla sua?

Il primo stadio di sofferenza è il disagio. Esso tende a cronicizzarsi. Il dolore acuto e imprevedibile è direttamente una sofferenza sorda e profonda che invade senza apparente via d’uscita. La morte di Corinne che lascia due bambini piccoli e sprofonda Elias nell’annichilimento, è senza rimedio. Irreversibile. Che cosa resta di rivedibile, viatico per svernare nel mondo umano? Unicamente il respiro. Respirare anche per Corinne, vedere il mondo anche per lei, costruire sulle macerie che sono rimaste. Edificare un nuovo edificio fatto di amicizia e amore per i bambini e per la sorellastra Erzsébet con la quale, piano piano, riprende a tessere i fili ancestrali di una provenienza liberata dal dolore. Ci si incontra nel dolore, e lo si supera insieme. Non veniamo in modo chiaro a comprendere che ne sarà di Elias, ma lo ritroviamo più tardi, in compagnia di Marcel, anziani giocatori di sguardi, sotto le pendici del Monte Bianco. Loro ancora sanno essere! Anzi, di più, sono rimasti quello che erano e hanno guadagnato del tempo opportuno da vivere, abbracciati nella natura sfolgorante che si impegnano a difendere.

5. E qual è natura della luce? È essa presente in noi sin dalla nascita?

Il neonato “viene alla luce”, si dice. Non è sbagliato. La luce precedente consisteva nella fusione con la madre, quella materna è la lanterna nel grembo offerta al feto. Una luce riflessa che corrobora la puerpera e il nascituro. Quando il neonato entra nel mondo uscendo dal suo mondo ha un solo dovere per sé stesso, in principio: respirare. Respirare è la vita. Non piange, appena fuori, cerca di respirare. E non è compito facile. I suoi polmoni sono atrofizzati. L’aria che cerca di catturare è un coltello nella gola, un dolore che lo penetra nelle zone più profonde. Allora il piccolo deve oltrepassare questa dolorosa situazione e piange. Piange a dirotto, si dispera, vibra tutto e le sue labbra cambiano colore. Le convulsioni e questo pianto senza freni contrastano il respiro e costituiscono così il primo conflitto tra luce della vita e ombra della morte. Il pianto avvisa chiunque sia intorno che lui c’è, è arrivato, e che ha bisogno tanto di questo dolore quanto del respiro. Rendiamogli atto che la conquista della luce è un’immensa fatica. Il superamento della sofferenza comincia così, e l’essere umano, in contesti diversi e per tutta la vita, porta con sé questo segno da quel fatidico, terribile e pur meraviglioso momento.

6. Dario Arkel, “La pazienza della notte” è un romanzo pedagogico, come lo sono certi lavori di James Joyce (“Ritratto dell’artista da giovane”), Alberto Moravia (“Gli indifferenti”), Giorgio Bassani (“Il giardino dei Finzi-Contini”), Carlo Cassola (“La ragazza di Bube”)?

È un romanzo che vorrebbe essere un romanzo con il significato della resistenza umana a contatto della natura. Mi pare che, per quanto esempi di altissimo livello tu citi, questi libri non hanno un legame diretto col respiro della natura. Tuttavia, ho sempre sperato, lo ammetto, di avere una parentela con i libri di Giorgio Bassani. “Dietro la porta” è un romanzo di Bassani che ci riporta alla scuola da lui frequentata, al pari del “Giardino dei Finzi-Contini”, ma più centrato sul mondo dello studente in quanto giovane che abbia gli occhi e la sensibilità per guardarsi intorno. È un punto di vista libero e liberato data la presenza di un compagno di banco portatore di esperienze di vita che, in qualche modo, fanno crescere il protagonista, ovvero Giorgio Bassani.

7. Ne “Il Bambino Vitruviano. L’innovazione di Janusz Korczak” (Castelvecchi, 2019) approfondisci, definisci ancor meglio il pensiero di Janusz Korczak, che in maniera esplicita o trasversale è molto presente in tante tue opere. Forse sbaglio, ma porti avanti quel discorso iniziato nel tuo “Ascoltare la luce. Vita e pedagogia di Janusz Korczak” (ATì Editore, 2009).
Domanda banale ma estremamente necessaria: chi fu Janusz Korczak? A favore di chi non lo conosce, potresti tracciare un ritratto del grande pedagogista, evidenziando le sue qualità, quelle di maggior rilievo?

Non è facile ridurre la vita e l’opera di Janusz Korczak ad una estrema sintesi. Di lui si può dire che eccelse come medico, letterato e, soprattutto, pedagogista. Egli fu precursore della Convenzione dei Diritti del fanciullo, chiese rispetto per i bambini, e li considerò fin dal principio i veri poeti e creatori dell’Uomo per la loro schietta onestà, creatività, immaginazione. Costruì il Dom Sierot (l’orfanotrofio ebraico di Varsavia) nel 1911: i bambini venivano a me, soli, e io li raccoglievo come conchiglie sulla spiaggia, spiegò. Il Dom Sierot fu un’utopia realizzata, la “meraviglia dei bambini soli”. I bambini e i ragazzi  erano liberi di crearsi le loro leggi interne, di proporre e imparare vicendevolmente, grazie al sistema del “monitore” che oggi definiamo mentoring. Erano responsabili principali della vita della Casa degli orfani, Korczak e i suoi assistenti erano sostanzialmente dei collaboratori. Infine fu protagonista del capolavoro pedagogico: portare i bambini ad una morte felice. Si badi, consapevolmente. Riuscì, una volta che il Dom Sierot fu trasferito nel Ghetto di Varsavia, a mantenere in vita e salute i suoi bambini. E, attraverso la conoscenza della profondità dell’essere umano e delle sue opere, a far comprendere loro l’anima laica che non conosce morte. La morte come svolta.

Quando ebbe la certezza che i tedeschi sarebbero venuti a prendere i bambini, egli per tempo li preparò. Miriam Novitch, che fu in campo di concentramento in Francia con Itzhak Katzenelson (autore del Canto del popolo ebraico massacrato che lei stessa recuperò) raccontò che Korczak riuniva i suoi bambini a gruppi di venti, facendo spazio nella sala della mensa. Essi sedevano di fronte a lui, per terra, disposti a semicerchio, nel buio. Korczak non diceva nulla ma, come un direttore d’orchestra: con i gesti indicava la fessura d’aerazione sopra la finestra oscurata. Quando per la strada passava una luce, il raro fanale bendato di un mezzo, la dinamo di una bici superstite, un passante che sfidava il coprifuoco con una piccola torcia o con un fiammifero per controllare l’insicuro cammino, allora si alzava e indicava la striscia luminosa sul soffitto. Così i bambini della Casa dell’orfano ascoltavano la luce del Dottore. In questo modo intendeva farli concentrare sul buio e la luce, sull’ oltrenero, su come cambia la luce, che cosa significa luce oltre i muri del Ghetto: va e viene per riflessi esterni o la si ha dentro e la si cerca fuori? I bambini potevano così impadronirsi di questi chiaro-scuri che intervengono! Così anche nella musica. Korczak proponeva loro brani scelti, ascoltati al grammofono o eseguiti direttamente dai piccoli ospiti e dagli assistenti, in una profonda, attenta, meditazione.

La fine fu preceduta, una ventina di giorni prima (18 luglio 1942), dalla proposta teatrale del testo di Rabindranath Tagore L’Ufficio postale. Tagore era un poeta e autore teatrale, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Animista, sincretista, anch’egli, come Korczak, sostenitore della sacralità di tutti i viventi e degli oggetti che li accompagnano nella vita. Il brano narra di un orfano recluso da una errata diagnosi del medico nella casa dello zio. Non dovrebbe aprire la finestra che dà sulla strada, ma Amal lo farà, scoprendo bambini che giocano, Sudha, una bambina che raccoglie e vende fiori, e i postini del re. Si illumina… vorrebbe anche lui portare i messaggi della cura e dell’amore da una casa all’altra. Ma purtroppo, il piccolo muore e Sudha porrà un fiore sul suo petto. Il segretario di Adam Czerniakow, Presidente del Consiglio ebraico, chiese al Dottor Korczak perché avesse fatto mettere in scena dai bambini un testo così triste. La risposta del dottore fu: Perché i bambini imparino a morire serenamente. Queste parole dimostrano che Korczak era consapevole di quanto stava facendo.

Diede ordine ai bambini e agli assistenti (pare ne fossero rimasti solo 6 per circa 200 ospiti) di lavare e stirare i vestiti più belli, di tirare la pelle del tamburo e accordare il violino, si rimpolpare gli orsacchiotti dei bimbi e ricucire le bambole delle bambine, fece in modo che i bambini si lavassero e pettinassero tutti i giorni. Fece quindi editare nella stamperia l’ultima cartolina del Dom Sierot.

Il 5 di agosto arrivano i tedeschi, armati e con i cani. Korczak scende giù nel cortile e dice loro: “Portate via i cani, che spaventano i bambini!” I nazisti sono sorpresi: lo ha detto in perfetto tedesco. Si spaventano, e portano i cani fuori dal recinto. Il Dottore dice poi: “E quando scenderanno i bambini, niente spinte, niente calci: loro usciranno e cammineranno fino a dove devono andare, in ordine. Non toccateli!”

I soldati hanno visto i bambini che si sono disposti in fila per quattro. Bellissimi. Il primo precedeva col violino, accanto a lui il tamburino, al loro fianco il ragazzo con la bandiera col quadrifoglio, simbolo del Dom Sierot, e dall’altra parte la Stella di Davide, simbolo del popolo ebraico. Quando sono arrivati al treno per Treblinka, pare che un medico tedesco abbia riconosciuto Korczak e lo implorasse di non salire sul treno. Per quanto si è tramandato questa è stata la risposta del Pan Doktor: “Conosci tu una madre che lascerebbe il proprio bambino in mani estranee?… io di bambini ne ho duecento, e ne sono il padre e la madre”. Così egli salutò il mondo. Nel tempo cronologico il Dottore non esiste più, come i suoi bambini, le sue bambine, i ragazzi e le ragazze. Ma nel tempo opportuno del Kairòs, nel tempo ebraico ‘eth, nel tempo opportuno del Qohelet, essi continuano a essere. Gli elementi a chiarimento sono questi: l’esempio di questi giovanissimi per gli ebrei polacchi e per il mondo intero fu una delle cause della Rivolta del Ghetto, della fuga dal Campo di sterminio di Sobibor, dell’esplosione del crematorio di Treblinka.

E, mentre era ancora negli orecchi dell’intera umanità l’ultima intervista a Janusz Korczak (alla domanda: “che cosa farà una volta finita la guerra?”  aveva risposto: “mi occuperò degli orfani tedeschi”), scavando tra le macerie del Ghetto di Varsavia venne fuori l’ultima cartolina stampata dagli orfani. Mostrava la fotografia di piccoli fiori blu e, sotto, una didascalia: Nontiscordardime.

8. Perché è per noi così importante conoscere il pensiero di Janusz Korczak, pedagogista e letterato ebreo polacco?

Alla luce di quanto esposto, l’esempio umanitario di Korczak è insuperato. Ma, d’altra parte, si può convenire che il’900 non fu soltanto il secolo breve delle guerre più terribili. In questo secolo, troviamo per esempio Einstein “umanista” di Come io vedo il mondo, e il dottor Schweitzer del Rispetto per la vita, Freud e i suoi studi, Tesla e le sue invenzioni, Buber e la revisione dell’Halakah, e molti altri, tra i quali comprendo sempre chi ha combattuto le efferate dittature del secolo e per i diritti dell’umanità.

La qualità principale dell’operato di Korczak è aver vissuto soltanto CON e PER i bambini, dimenticando ogni altra ambizione, considerandoli i più antichi proletari del mondo, i soggetti che non sono considerati persone dagli adulti ma che sono persone nel senso più pieno del loro essere. Ciò lascia aperta la porta al concetto che espongo nel Bambino Vitruviano: se vivesse oggi Leonardo Da Vinci, conoscendo le catastrofi portate dall’adulto, non avrebbe forse messo al centro del quadro terreno e del cerchio celeste proprio il bambino? Korczak non ha vissuto per schieramenti politici o per interesse personale o per la sua ebraicità, è stato cittadino del mondo con l’idea fondamentale dell’emancipazione del bambino universale.

9. «L’ebreo, sin dall’inizio dei tempi, ha saputo vivere la sua solitudine, magari con sofferenza, rabbia e disappunto, ma riconoscendola soltanto apparente. E contestualmente ha vissuto lo stato di una continua assimilazione, che chiamiamo così unicamente per segnalare il fatto che un ebreo è, come tutti gli uomini, un essere libero di vagabondare, tanto dentro sé stesso, quanto forgiando e compiendo esperienze. Le stesse Tavole Mosaiche rappresentano il fine di rendere responsabile la libertà nell’interesse del rispetto per la vita».
Rendere responsabile la libertà, è questo un obiettivo che, a mio avviso, non è stato ancora raggiunto dalla maggior parte degli uomini.

Confermo e concordo. È un obiettivo non raggiunto. L’umanità non sa accogliere la forza del bambino, lo spirito del bambino, il suo spirito sprovvisto di interessi di proprietà privata e portavoce dei diritti della natura. Una delle intollerabili situazioni è impostare l’educazione verso la proprietà privata, gli interessi particolari, il confronto, la supremazia degli uni sugli altri. Korczak ha scritto: “l’adulto ragiona con la mente, il bambino con il sentimento.

10. «Che significa essere ebrei? Janusz Korczak a sette anni prende il coraggio di indagare questo termine…» Dario Arkel, che cosa scopre Korczak?

Come recentemente ha testimoniato Liliana Segre, gli ebrei, e soprattutto i più giovani, erano ebrei inconsapevoli. Ella viene a saperlo solo nel momento dell’espulsione dalla scuola in seguito alle leggi razziali del 1938. Nel corso del tempo di Korczak, l’ebraismo era meno dogmatico e ortodosso, data l’influenza della Haskalah propugnata del filosofo Moses Mendelsshon e propagatasi nei paesi di lingua tedesca e nell’Est Europa. A soli sette anni, Korczak viene a sapere di essere ebreo a causa della morte del suo canarino. Racconta nel Diario del ghetto di averlo voluto seppellire nel cortile di casa, e che il figlio del portiere gli fece presente che non poteva farlo perché era ebreo e gli ebrei vengono sepolti in un altro modo e in altri luoghi rispetto ai cristiani. Se Henryk Goldsmith (vero nome di Janusz Korczak) è ebreo, anche il suo canarino lo è. Così il bambino venne a sapere da dove proveniva e come veniva visto all’esterno dai cristiani. Indagò come poté e venne a scoprire che in fondo lui, ebreo, godeva di meno dogmi e maggiore libertà di movimento e pensiero rispetto ai suoi coetanei cristiani. Quindi, il suo ragionare si concentrò sull’idea dell’abolizione del denaro, per lui radice della cattiveria e del sopruso.

11. «Sì, tante volte mi sento dire che non c’è vivente più egoista del bambino. Se gli tocchi un giocattolo che sta manipolando, lui ti risponde “È mio!” e se lo riprende. Questo vuol dire “egoista”? No, niente di più falso». Bisogna conoscere per amare: Dario Arkel, avresti voglia di approfondire?

Il bambino non possiede il concetto di proprietà privata, che viene però a lui insegnato in ogni dove. Egli non conosce il valore prezzato dei commercianti e dei trafficanti. Egli conosce la proprietà propria, ovvero quella del cuore e la naturale idea di fratellanza, condivisione, altruismo. Se al bambino porti via l’oggetto del suo gioco, egli dice “È mio!” e si arrabbia. Tutto vero. Ma non abbiamo indagato sul perché. Non è un “mio” per esclusività, ma di elaborazione di un pensiero, di un’immaginazione che l’adulto non comprende. Quell’oggetto non è ciò che l’adulto vede, ma un’altra cosa, impreziosita dall’affetto del bambino. In questo oggetto, supponiamo un sasso colorato, egli vede una montagna che lo porta in alto sempre più in alto, trasforma così una ciabatta in una barca sulla quale sta navigando. Dentro questi oggetti da lui manipolati non vi è solo il gioco, ma l’avvio della creatività, dell’animazione, e soprattutto il porre un pezzetto del proprio cuore all’interno di questi. Non esiste il denaro né un prezzo. Del resto, le cose più importanti e preziose della vita non sono forse l’amore, l’amicizia, l’affetto? Costa di più una Ferrari o un grande amore o la salute dei propri cari??? Ecco, il bambino regna nell’altruismo, e svetta per proporre una scala di valori che mette al primo posto il sentimento.

12. Dario Arkel, tu sei uno dei maggiori studiosi di Janusz Korczak, su questo non ci piove. Qual è l’attualità del bambino Vitruviano?

La considerazione del bambino come persona che possa insegnare agli adulti è un’innovazione vera e propria. Spostare l’attenzione dai bisogni e dalle aspettative degli adulti a quelli del bambino, senza far prevalere i privilegi dell’esperienza, raccogliendo le sue qualità di fondo, sarebbe una rivoluzione epocale. In tale senso, perché i governanti del mondo non ascoltano i bambini? Non li portano nel loro studio per vederli giocare? Sarebbe un allenamento alla benevolenza, al rispetto, il tirarsi fuori dalla mediocrità degli interessi materiali, senza divinizzare nulla, ma soltanto CONSIDERANDO la parte vivente di noi che più merita, in quanto non ancora inclusa nel circuito dell’ovvio, del trito e del ritrito, della semplificazione mors tua vita mea, ecc…

Gli antichi guardavano le stelle e là ritrovavano chi li aveva lasciati. Le stelle sono nomi di avi, principi di ipotetica materia ma fatte di tanta immaginazione. Da queste (sidera) nasce cum-sidera, con le stella. Per ognuna delle stelle più visibili dovrebbe di volta in volta corrispondere il nome di un bambino sacrificato dagli adulti armati o animati da desiderio di castigo, vendetta, rapacità, sopraffazione.

13. «È mancato il ricambio ideologico, e perciò, a dispetto dei fatti e delle azioni umane, malefatte comprese, il mondo continua a dividersi in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che determina gli avvenimenti (i decisori); un gruppo un po’ più consistente che vigila sulla loro esecuzione e assiste al loro compimento (le mosche del potere); infine, una vasta maggioranza che non saprà mai che cosa sia accaduto». Dario Arkel, il futuro non mi sembra che sia abitato da una qualche forma di luce: più si va avanti e più si va indietro!

Non so se sono l’autore della frase riportata, che del resto mi dice moltissimo, e non è la lunghezza del testo o il tempo mancante che mi fanno rispondere a questa domanda velocemente, ma il desiderio di essere incisivo nella mia proposta. Gli uomini, cambiando del tutto il modo di proporre la scuola e l’insegnamento, incontrando una pedagogia naturale e di libertà, stando più vicini ai bambini proponendo tappe di emancipazione graduali e progressive e non rigidi cicli di studio (che appartengono al campo delle tecniche e quindi dell’addestramento e della memorizzazione), smantellando la presunzione che più che “adulta” è ormai anziana e puntellata di pilastri instabili, potrebbe raggiungere risultati insperati. Solo riconoscendo il bambino quale autentico insegnante di condivisione e fratellanza, un’emancipazione dei più fragili sarebbe forse possibile.

14. Ne “La pazienza della notte” c’è qualche elemento che si lega alla pedagogia di Korczak?

In alcuni passi vi sono aperture verso la sua filosofia. Per esempio, la delicatezza e il rispetto che congiunge i personaggi. E l’utilizzo del tempo, le azioni parallele, quando una tensione della trama sorregge un evento che si svolge contemporaneamente.

15. Grazie, caro Dario Arkel.

Ti ringrazio molto, Giuseppe. E ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere questa intervista.

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