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Ivan lo stalinista – racconto completo da “Il male peggiore. Storie di scrittori e di donne” di Iannozzi Giuseppe

Ivan lo stalinista

di Iannozzi Giuseppe

Scese dal camion, nei pressi di Alba. Non ringraziò il camionista, ma una bella e lunga occhiata la buttò alla bottiglia di vodka. L’uomo gliela allungò e Ivan la prese: «Mia vodka». Il camionista tentò un sorriso, ma ci ripensò e subito chiuse la portiera, premette sull’acceleratore e lasciò il russo in mezzo alla piazza.

Ivan era stato sotto Gorbaciov e non gli era piaciuto affatto: con quella voglia rossa che gli prendeva il cranio pelato, Ivan lo reputava responsabile del collasso economico che prese l’Unione Sovietica subito dopo il 1988, e soprattutto lo condannava per aver abbandonato la vecchia politica statalista. Aveva resistito per tanti anni fra scarafaggi topi coltelli e pallottole, e poi Vladimir Putin era quasi riuscito a illuderlo che si potesse tornare allo stalinismo. Ma Putin era solo un dongiovanni in giacca e cravatta che giocava a fare l’assassino e non un gigante stalinista. Sputò allora su Putin, e si lasciò alle spalle quella Russia che era sol più un immenso serbatoio di criminali e truffatori, di anime morte gogoliane.

Passò davanti a un pornoshop; in vetrina giganteggiava la scritta, From Ass to Pussy. Ivan gettò l’occhio su una copertina patinata che riproduceva un culo femminile e un fallo di plastica sporco, impregnato di quello che poteva sembrare dello yogurt. «A2P, Italia, capitalismo», sbottò Ivan: «Pensare male italiani, fottere anale male…». E fece per passare avanti; si trovò faccia a faccia con un nonnetto bianco bianco. Tentò di scansarlo, ma il vecchio gli contrastava il passo improvvisando una sorta di ballo di San Vito.
Ivan si irritò: «Via!».
«Io a quelli come te li conosco… Sporco bolscevico.»
Ivan non lo capiva l’italiano, solo poche frasi smozzicate e qualche parola, ma aveva comunque registrato l’insulto: «Capitalismo uguale merda».
Il vecchio si irrigidì e quasi ingoiò la dentiera tanta era la rabbia che covava nell’animo: «L’URSS è stato l’errore della seconda Guerra: se la Germania non avesse provato, ma doveva provarci. È andata male. Doveva. Oggi sarebbe tutto diverso. Tutto.»
«Toglitatti davanti, vecchio siemo!», berciò il russo.
«Togliatti non fu con Stalin… Lo tradì come Giuda con Gesù.»
«Stalin!», gridò Ivan con ardore: «Grande Stalin… Chi essere tu?».
Il vecchio si grattò la gola, sputò sul marciapiede con disprezzo, poi disse col petto gonfio come quello d’un gallo: «Io ero col Duce, Mussolini. Io non ho mai tradito».
Alla parola Duce, Ivan si imporporò tutto in faccia e subito prese per il bavero quel vecchio fascista che gli stava di fronte: «Tu in culo… You’re a fascist. Fuck you!».
Nonostante fosse nelle mani del russo, assai più grande forte e giovane di lui, il vecchio fascio prese a ridergli in faccia, istericamente quasi: «I fascisti come me non hanno mai tradito il Duce. I comunisti come te invece tradiscono sempre, in ogni parte del mondo: qui in Italia è un’abitudine il tradimento».
Ivan aveva capito poco o niente, gli era però chiaro che il vecchio fascio era fuori di cranio. Allentò la presa, e il fascio con un piccolo sforzo si liberò.
«Uguale a tutti gli altri… traditori e perdenti», biasciò, bianco in voltò, spaventato come chi messo davanti alla falce della morte. E si defilò con la coda fra le gambe.

Ivan non era bello: un gigante biondo, capelli piuttosto lunghi, unti e schiacciati sul cranio, e occhi porcini e labbra sottili nascoste da folti baffi, mentre il resto del viso portava i segni d’una barba maltenuta. Credeva solo in Iosif Vissarionovič Džugašvili, o per dirla tutta in Stalin,  nell’Uomo d’Acciaio. Non credeva nei pogrom, anche se li giustificava, sempre e in ogni caso. Era stato Stalin a dare l’atomica all’URSS. Tutto il resto era menzogna, non poteva essere diversamente per Ivan, per il comunista stalinista.

Si portò lontano. In due giorni arrivò nei pressi di Torino: una Fiat 500 rossa lo scaricò su Corso Unità d’Italia, quando il crepuscolo aveva già cominciato a disegnarsi all’orizzonte in grottesche venature fiammeggianti. C’era uno strano paesaggio umano sul marciapiede: gambe nude, tette al vento, rossetti esagerati. Ivan comprese subito.
Non rimase troppo allarmato o scandalizzato.
Una bionda pettoruta lo avvicinò e gli parlò nella sua lingua: «Che ci fai da queste parti? Sei un altro di quelli?».
«Che intendi?»
«Non ce n’è per noi, bello, quindi vedi di scollare le chiappe.»
Incollandole gli occhi addosso, Ivan le rise in faccia: «Io non ho il vizio».
«Un magnaccia?»
«No. Sono qui perché non c’è più l’Unione.»
«Qui non la troverai di certo. Avresti fatto bene a restare a casa. Qui è peggio.»
Ivan gettò un sguardo veloce all’intorno: la puttana aveva ragione, il capitalismo schizzava a cento chilometri all’ora.
«Quanto peggio?», domandò, consapevole che avrebbe ricevuto una ben dura risposta.
«Qui sono tutti come Andrej Romanovič Čikatilo. A te stava simpatico?»
«Era malato perché la Russia è malata.»
«Secondo te, Evilenko era un vero comunista?»
Ivan distolse lo sguardo dagli occhi della puttana: «Tutta colpa della perestroika».
«Sì, come vuoi. Devo tornare a lavorare…»
Ivan portò definitivamente lontano lo sguardo dalla donna nel momento in cui lei si lasciava caricare dall’ennesimo cliente.

Entrò in un locale di dubbia fama, il primo che trovò aperto. La musica era bassa, era inglese, di parole che sentiva per la prima volta e che già odiava: «In Europe and America there’s a growing feeling of hysteria/ Conditioned to respond to all the threats/ In the rhetorical speeches of the Soviets/ Mister Krushchev said, “We will bury you”/ I don’t subscribe to this point of view/ It’d be such an ignorant thing to do/ If the Russians love their children too…». [1]
Stava per fare dietrofront: il posto non gli garbava. All’improvviso uno sbraitò qualcosa coprendo la musica con la sua pazzia nicciana: «Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli animali […]. È certo una pena ben grave vivere così, come una bestia, tra fame e cupidigia, e senza giungere mai ad alcuna consapevolezza di questa vita; né si potrebbe pensare sorte più dura di quella della bestia da preda che è spinta nel deserto da un tormento che la rode al massimo; di rado è appagata, ma se lo è, lo è solo nel momento in cui l’appagamento diventa pena, cioè nella lotta dilaniante con altri animali o per l’avidità e la sazietà più disgustose. Essere così ciecamente e stoltamente attaccati alla vita, senza alcuna prospettiva di un premio superiore, ben lontani dal sapere che così si è puniti e perché, bensì anelare a questa pena, come a una felicità con la stoltezza di una orribile brama – questo significa essere una bestia […]. Finché si aspira alla vita come a una felicità, non si è ancora sollevato lo sguardo al di sopra dell’orizzonte della bestia, si vuole soltanto con maggiore consapevolezza ciò che la bestia cerca spinta da cieco istinto. Ma così succede a noi tutti per la maggior parte della vita: in genere non usciamo dalla bestialità, noi stessi siamo le bestie che sembrano soffrire senza senso». [1]
Ivan gettò addosso all’uomo un solo sguardo : gli bastò per dire che quello era pazzo, completamente andato.
«Resti! Federico è così, ma non farebbe male a una mosca. È un povero, un poeta, forse un filosofo. Lo sopportiamo tutti, per carità cristiana.»
Ivan portò allora gli occhi su quello che doveva essere il proprietario della bettola: non aveva capito una sola parola, ma il volto sorridente dell’uomo gli suggeriva amicizia, complicità. Ivan trasse un sospiro di rassegnata complicità: «Sia». E la faccia del proprietario si fece luminosa, quasi rossa.
Ivan consumò una birra che sapeva di collutorio per la gola: la buttò giù senza dire una parola, gettando rapide occhiate al pazzo che se ne stava nel suo angolo, da solo, a sbraitare parole che lui non poteva intendere. Si consolò pensando che la musica era stata spenta.
Pagò la birra con i pochi spicci che aveva in tasca, poi uscì dal locale, abbozzando un cenno di saluto con la testa.

La notte era fredda e nera. Come in Russia. E comprese di essere un uomo solo. A pieni polmoni respirò quella notte senza una stella in cielo, e prese a camminare stando attaccato al ciglio della strada, badando che le macchine non lo prendessero sotto. Un morso di luna, fra le nuvole, apparve a squarciare il nero profondo della notte, e Ivan si ritrovò su Corso Unità d’Italia.
«Ancora da queste parti?», gli gridò qualcuno alle spalle
Ivan riconobbe quella voce e si voltò per incontrarla: «Pure tu qui».
«Per questa notte, basta.»
La donna si accese una sigaretta: «Vuoi?».
Ivan fece cenno di no con la testa: «Tu dove vai adesso?».
«A casa.»
«Russia?»
La donna prese a ridergli in faccia: «La Russia non c’è più…».
«Non dire così…» la rimproverò, con scarsa convinzione. «Siamo senza identità», aggiunse con voce terribilmente triste e minacciosa.
«Non ci pensare. Se non sai dove passare la notte…»
«Dove stai?»
«Non lontano. Allora, che fai? la passi con me questa notte?»
Ivan si guardò intorno: «Fra poco è l’alba».
«La vita è così. Allora?»
«Tu, come ti chiami?»
La donna fece un gesto, un volo di mani disegnato in aria, poi rispose: «Lucilla, qui tutti mi chiamano così».
«Il tuo nome, quello vero», fece spazientito Ivan.
«L’ho dimenticato. E faresti bene a dimenticare anche tu il tuo.»
«Io non devo mica fare la prostituta!»
«Dovrai far qualcos’altro se vuoi restare qui o altrove. Questa notte la passi con me. Il tuo nome?»
«Ivan, stalinista», rispose l’uomo deciso, orgoglioso.
«Ivan, qui non ha importanza chi sei o chi non sei. Però questa notte sarai nel mio letto, Ivan.»
«La Russia è malata.»
«Me l’hai detto qualche ora fa. Non essere noioso e seguimi.»
Ivan prese a seguire in silenzio, come cane obbediente sotto padrone, il culo di Lucilla: era bello quel culo, anche se non avrebbe mai potuto amarlo con la dovuta delicatezza. E Ivan ne era consapevole.
«Hai un bel culo», le disse mentre la seguiva.
Lucilla non si voltò per rispondergli: «Ti piace? Scommetto che è un complimento».
«Mi è capitata una cosa, una cosa strana… ero ad Alba – credo si chiamasse così la città – e un vecchio fascio…»
Lucilla lo interruppe con una risata sguaiata: «Ne incontrerai parecchi altri, non farci caso: qui nessuno gli bada sul serio».
«Perché?»
«Siamo in Italia, Ivan.»
«Tu stalinista?»
«Io? No, io puttana. Qui sono solo una che la dà via. Ecco, siamo arrivati.»
Ivan fissò la costruzione: era una vecchia cascina. Puzzava di piscio.
«Casa tua?»
«Non è un castello, se è questo che intendi. Vedi di fare piano: non vivo da sola.»
«Hai un compagno?»
«Delle compagne che lavorano, come me», lo corresse Lucilla
«E io passo il resto della notte con te!»
«Sì, per questa volta.»
Lucilla aprì il cancelletto arrugginito: «Avanti!».
«La Germania non avrebbe mai dovuto mettersi contro l’Unione… è stato il suo errore… A quel tempo l’Unione era troppo grande per chiunque. Oggi, di questo passo, diventeremo tutti uguali, anime morte gogoliane», farfugliò Ivan.
«Che vai dicendo?»
«Che hai un bel culo. Che hai un bel culo.»
Se Lucilla si fosse voltata a guardare bene in faccia Ivan si sarebbe accorta che era non meno spietato di Stalin e di Čikatilo.

[1] Sting, Russians, The Dream of the Blue Turtles, 1985.

[2] F.W. Nietzshce, Schopenhauer come educatore, 1874.

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Il male peggiore. Storie di scrittori e di donne – Iannozzi Giuseppe

IL MALE PEGGIORE (Storie di scrittori e di donne) – Iannozzi Giuseppe –Edizioni Il Foglio – Collana: Narrativa – Pagine 330 – ISBN 9788876067167 – Prezzo: 16,00 €



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